Abstract
La voce analizza il divieto, per i datori di lavoro e per le associazioni di datori di lavoro, di costituire o sostenere associazioni sindacali di lavoratori, sancito dall’art. 17 dello st. lav., esaminato alla luce dei precedenti di diritto internazionale e comparato e dei principi costituzionali ad esso sottesi, tenuto conto anche del mutato contesto delle relazioni industriali italiane.
L’art. 17 st. lav. (l. 20.5.1970, n. 300), rubricato «Sindacati di comodo», dispone che «è fatto divieto ai datori di lavoro e alle associazioni di datori di lavoro di costituire o sostenere, con mezzi finanziari o altrimenti, associazioni sindacali di lavoratori». La norma in questione intende vietare una pratica sleale attuata dai datori di lavoro, come singoli o come associazioni, nei confronti delle associazioni sindacali dei lavoratori, mediante comportamenti diretti ad interferire nella vita associativa degli organismi rappresentativi dei lavoratori, al precipuo fine di assoggettare il sindacato stesso alla volontà datoriale, rendendolo interlocutore accomodante, malleabile, addomesticato, arrendevole, “comodo” (cfr. Costanzo, E., Statuto dei lavoratori, Milano, 1973, 105; Freni, A.- Giugni, G., sub art. 17, Lo Statuto dei lavoratori, Milano, 1971, 66-67; Mancini, G.F., sub art. 17, in Mancini, G.F.-Ghezzi, G.-Montuschi, L.-Romagnoli, U., Statuto dei diritti dei lavoratori, Bologna, 1972, 234; Assanti, C.- Pera, G., Commento allo Statuto dei lavoratori, Padova, 1972, 190; Giugni, G., Lo statuto dei lavoratori, Milano, 1979, 237).
Per una esaustiva comprensione della ratio sottesa alla norma in commento è necessario soffermarsi, preliminarmente, sui precedenti di diritto internazionale e comparato che ne costituiscono il riferimento normativo più immediato. L’art. 17 st. lav., infatti, ribadisce un principio già contenuto nell’art. 2 della Convenzione n. 98 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, resa esecutiva in Italia con la l. 23.3.1958, n. 367. L’art. 2 della Convenzione, di cui la norma dello statuto è una traduzione letterale, anche se incompleta, stabilisce che «le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro devono beneficiare di un’adeguata protezione contro tutti gli atti di ingerenza delle une verso le altre, che si realizzino sia direttamente sia per mezzo di loro funzionari o membri, nella loro formazione, nel loro funzionamento e nella loro amministrazione». Il secondo comma del medesimo articolo, inoltre, specifica che «sono considerati in particolare atti di ingerenza ai sensi del presente articolo le misure tendenti a provocare la creazione di organizzazioni di lavoratori dominate da un datore di lavoro o da una organizzazione di datori di lavoro, o a sostenere delle organizzazioni di lavoratori con mezzi finanziari o in altro modo, allo scopo di porre queste organizzazioni sotto il controllo di un datore di lavoro o di una organizzazione di datori di lavoro».
Appare del tutto evidente che il legislatore italiano, nel sancire il divieto di cui all’art. 17 st. lav., si sia certamente ispirato al contenuto dell’art. 2 della Convenzione n. 98, non effettuando, però, «una pura e semplice trasposizione, ma un’opera di adattamento, che ha messo in evidenza solo alcuni aspetti della disciplina elaborata dall’OIL ritenuti più vicini alla ispirazione dello Statuto» (Prosperetti, U., Commentario dello st. lav., Milano, 1975, 459).
Si segnala, inoltre, che molte legislazioni nazionali, in epoche precedenti rispetto a quella dell’emanazione dello st. lav., avevano già codificato il divieto di ingerenza del datore di lavoro nell’associazione dei lavoratori, sotto le più varie forme. A titolo meramente esemplificativo, si pensi al cd. Wagner Act dell’ordinamento sindacale degli Stati Uniti emanato nel 1935, che all’art. 8 previde quale «pratica sleale» (unfair labor practice) qualsiasi forma di ingerenza del datore di lavoro nell’associazione dei lavoratori che fosse finalizzata a «dominare un’organizzazione sindacale, interferire nella sua costituzione e nella sua amministrazione, darle sostegno finanziario o di altro genere» (cfr. Pravatà, R., Il c.d. sindacato di comodo e l’art. 17 dello Statuto dei lavoratori, in Dir. lav., 1979, 1, 149-150). Anche un disposto del code du travail francese vieta tale comportamento datoriale laddove stabilisce che «il datore di lavoro e i suoi rappresentanti non dovranno impiegare alcun mezzo di pressione a favore di qualsiasi organizzazione sindacale o contro di essa» (art. 1-a, co. 3, libro III). Analoghe disposizioni sono contenute negli ordinamenti di vari Paesi industrializzati (Svezia, Austria, Canada) «segno manifesto che il fenomeno dei sindacati di comodo (syndicats-maison o jaunes, company unions, gelbe Verbände) è più diffuso di quanto a prima vista si direbbe» (Mancini, G.F., op. cit., 233-234).
A fondamento dell’art. 17 st. lav. vi è l’esigenza di tutelare e rendere effettiva la libertà sindacale, garantita dalla Costituzione.
Il diritto di organizzarsi liberamente, sancito nell’art. 39, co. 1, Cost., si configura, infatti, non solo come «diritto soggettivo pubblico di libertà», che inibisce allo Stato il compimento di atti che risultino lesivi di tale libertà, ma opera anche nei «rapporti intersoggettivi privati», tra lavoratori e datore di lavoro (cfr. Giugni, G., Diritto sindacale, Bari, 2014, 26). Tale principio di libertà sindacale è stato poi riaffermato nello Statuto dei lavoratori attraverso le norme del Titolo II, della l. n. 300/1970, intitolato proprio «Della libertà sindacale».
Pertanto, una corretta interpretazione del divieto sancito dall’art. 17 st. lav., non a caso inserito nel Titolo II della l. n. 300/1970, impone un coordinamento sistematico con l’art. 14 del medesimo testo normativo, il quale è preordinato a garantire e rendere effettivo il principio di libertà sindacale specificatamente nei luoghi di lavoro e nei confronti del datore di lavoro.
Il diritto, riconosciuto a tutti i lavoratori dall’art. 14, di associarsi e di svolgere attività sindacale all’interno dei luoghi di lavoro, infatti, «sarebbe vano se non si impedisse un qualsiasi inquinamento della libera determinazione dei lavoratori nelle scelte di natura sindacale» (cfr. Pravatà, R., op. cit., 151).
«La propensione dei datori di lavoro ad avere interlocutori morbidi e, quindi, non genuini è una pratica sleale che, incidendo sulla libertà sindacale dei lavoratori, viene generalmente repressa» (Di Cerbo, F., Libertà sindacale e sindacati gialli nella giurisprudenza, in Dir. lav., 1977, 5, 361). La presenza di sindacati di comodo, «comprimendo lo spazio operativo degli altri sindacati e, quindi, almeno in modo indiretto, la libertà di associazione dei singoli» (De Cristofaro, M., sub art. 17, in Prosperetti, U., Commentario dello Statuto dei lavoratori, Milano, 1975, 479), rischierebbe di condizionare pesantemente la volontà del singolo lavoratore che potrebbe conferire il suo consenso ad un sindacato che non sarebbe propriamente rappresentativo dei suoi interessi, ma di quelli datoriali.
Il sindacato di comodo, detto anche “sindacato giallo”, a seguito di interventi che ne menomano la libertà di azione, non potrebbe tutelare efficacemente la promozione degli interessi collettivi dei lavoratori, opposti a quelli della controparte datoriale. Il sindacato dei lavoratori, infatti, guarda al conflitto come a un momento naturale, ineliminabile della propria funzione, «conflittualità che fonda le sue origini nella distribuzione dicotomica del potere nei (e dei) processi produttivi» (Recchia, G. A., Il concetto di “qualità sindacale”, in Riv. giur. lav., 1997, 2, II, 255) e che verrebbe meno allorché il datore di lavoro si sia creato un interlocutore del tutto arrendevole alle richieste padronali. Dietro lo schema di un fittizio carattere antagonistico, infatti, il sindacato di comodo «non lotta, o, se lotta, lo fa in modo simbolico». Non a caso l’obiettivo che l’imprenditore intende perseguire costituendo o sostenendo un’associazione di lavoratori è proprio quello di crearsi un interlocutore accomodante, malleabile, addomesticato, arrendevole, “comodo” (cfr. supra, § 1). La genuinità del sindacato, infatti, la si ravvisa nella sua spontaneità, intesa come indipendenza da interferenze imprenditoriali, le quali farebbero venir meno la naturale sussistenza del conflitto, quale elemento caratterizzante la normale dialettica sindacale. Tutte le norme del Titolo II dello Statuto dei lavoratori, in modi diversi, sono indirizzate a creare nel rapporto di lavoro lo spazio necessario all’esplicazione della libertà sindacale, che sarebbe fortemente compromessa laddove il datore di lavoro incentivasse la costituzione o sostenesse, con qualsiasi mezzo, associazioni sindacali dei lavoratori non genuine.
In definitiva, «non si può non ritenere l’art. 17 una conferma del divieto implicito nell’art. 39, comma 1, Cost., il quale garantendo la libertà di organizzazione sindacale, ne garantisce altresì la genuinità e la sua naturale marca di conflittualità» (Recchia, G. A., op. cit., 258).
L’oggetto del divieto sancito dall’art. 17 st. lav. riguarda due momenti differenti: la «costituzione» ed il «sostegno, con mezzi finanziari o altrimenti», del sindacato dei lavoratori da parte del datore di lavoro o delle associazioni dei datori di lavoro.
I comportamenti vietati al datore di lavoro sono quelli rivolti a determinare una cedevolezza e una docilità di un’associazione sindacale alla influenza del dominus del rapporto di lavoro, tale da creare un interlocutore “comodo”.
Come si può agevolmente osservare, la previsione, soprattutto con riferimento al «sostegno», non è tassativa, ma generica in quanto sarebbe stato impossibile per il legislatore «predeterminare tutte le possibili forme» in cui l’attività di sostegno avrebbe potuto nella realtà estrinsecarsi, tenuto conto delle «mutevoli condizioni aziendali» (cfr. Germano, T., sub art. 17, in Giugni, G., Lo st. lav., Milano, 1979, 241). Difatti, proprio la genericità della norma in commento consente al magistrato di valutare, di volta in volta, obiettivamente e in concreto, se le «varie forme che il ricorrente assume essere di sostegno siano tali da cadere sotto il divieto previsto dalla norma» (Pravatà, R., op. cit., 155). Tenuto conto della ratio legis, dunque, le potenzialità descrittive della prescrizione normativa si rivelano illimitate, tali da ricomprendere ogni possibile iniziativa di parte datoriale, in vario modo riconducibile agli elementi costituivi del divieto stesso: l’assoggettamento del sindacato dei lavoratori alla volontà padronale.
Per quanto attiene alla prima ipotesi contemplata dalla norma, «costituzione di associazioni sindacali dei lavoratori», è opportuno evidenziare che, ai primi commentatori dello Statuto, essa appariva come ipotesi lontana dalla realtà e, in ogni caso, difficilmente sostenibile in giudizio, tenuto conto che sarebbe stato (ed è) veramente arduo fornire o trovare prove valide perché fosse accertata l’esistenza di «assunzione diretta di iniziative ovvero la partecipazione indiretta del datore di lavoro alla costituzione del sindacato» (cfr. D’Harmant F.A., Il sindacato di comodo nello Statuto dei lavoratori, in Studi in onore di Giuseppe Chiarelli, 1974, III, 2371). Tuttavia, l’esperienza applicativa della legge ha mostrato come la giurisprudenza sia intervenuta ad «indicare molteplici aspetti del momento iniziale di organizzazione delle maestranze in cui può registrarsi un intervento (illegittimo) del potere datoriale» (in tal senso cfr. giurisprudenza citata in Germano, T., op. cit., 240-241; Di Cerbo, F., op. cit., 361-363).
La seconda ipotesi descritta dalla norma, «sostegno, con mezzi finanziari o altrimenti, alle associazione sindacali dei lavoratori», invece, presenta un contenuto più ampio e meno difficilmente rilevabile, dal momento che il “sostegno” può assumere le forme più svariate. L’espressione volutamente generica del legislatore allude ad una varietà di ipotesi concrete di sostegno, non necessariamente economico. Mentre, infatti, il finanziamento economico diretto è raro, nonché difficilmente sostenibile in giudizio (a causa della difficoltà di fornire una prova), più frequenti sono le forme di assistenza indiretta, tutte aventi la medesima funzione: sopperire alla intrinseca debolezza del sindacato “sostenuto” nei confronti degli altri sindacati “genuini”.
Invero, nella predetta formula normativa, può rientrare qualsiasi fattispecie: dall’assistenza economica diretta o indiretta, all’attribuzione di privilegi o vantaggi a quel determinato sindacato o ai lavoratori aderenti al medesimo, alla concessione di permessi o di agevolazioni all’organizzazione sindacale nel momento in cui la stessa si appresti a godere dei diritti previsti dal Titolo III dello st. lav. (agevolazioni nell’assegnazione dei locali, nella raccolta delle deleghe per la trattenuta dei contributi, concessione di trattamenti superiori rispetto a quelli previsti dalla legge e dai contratti collettivi rispetto all’assemblea e ai permessi, retribuiti e non). In sostanza, «tutto quel complesso di attività che fanno venir meno il principio di eguaglianza tra i sindacati e stabiliscono un rapporto di favore tra un sindacato e il datore di lavoro» (cfr. Freni, A.-Giugni, G., op. cit., 66).
Tuttavia, è bene precisare che non ogni convergenza tattica o strategica fra le contrastanti politiche sindacali e imprenditoriali può configurarsi quale “sostegno” vietato dalla norma in commento perché, così facendo, si introdurrebbe «un’interpretazione che va ben oltre l’intenzione del legislatore e che finirebbe anche per interferire pesantemente nelle delicate fasi delle relazioni sindacali in cui associazioni che non hanno alcuna caratteristica di comodo, come quella identificata dalla legge, possono trovarsi per l’appunto in momenti caratterizzati da rapporti particolarmente favorevoli con la controparte». L’interpretazione della norma, infatti, non deve essere «utilizzata per trasferire sul piano della valutazione giuridica quelli che sono invece normali problemi attinenti alla dialettica delle relazioni sindacali» (cfr. Costanzo, E., op. cit., 106; Mancini, G.F., op. cit., 237).
Alcuni commentatori avevano definito l’art. 17 st. lav lex imperfecta poiché, a differenza degli articoli precedenti (artt. 15 e 16 st. lav.), è priva sia di una esplicita sanzione corrispondente e sia dell’indicazione di un esplicito rimedio giuridico utilizzabile. Tuttavia la quasi totalità della dottrina e della giurisprudenza è concorde sulla possibilità di reagire alla violazione dell’art. 17 ravvisando, in tale violazione, la tipica fattispecie di un comportamento antisindacale del datore di lavoro, che lede direttamente i diritti di libertà e di attività dei sindacati genuini, nonché, come detto, le libertà sindacali dei singoli lavoratori. Pertanto, si è riconosciuta la perfetta applicabilità del rimedio previsto dall’art. 28 st. lav., il quale predispone un particolare procedimento finalizzato alla repressione della condotta antisindacale. Deve sussistere, dunque, un comportamento del datore di lavoro che sia diretto, se non ad inibire, certamente a comprimere l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale da parte delle associazioni genuine (in tal senso, cfr. De Cristofaro, M., op. cit., 485; D’Harmant, F.A., op. cit., 2380; Freni, A.-Giugni, G., op. cit., 66; Germano, T., op. cit., 245; Pravatà, R., op. cit., 157; Di Cerbo, F., op. cit., 365).
Qualche profilo problematico è emerso in relazione alla legittimazione passiva, dal momento che l’art. 28 st. lav. individua tra i soggetti legittimati ad essere convenuti in giudizio i soli datori di lavoro anche se una risalente interpretazione giurisprudenziale estensiva (cfr. Pret. Milano, 20.11.1970, in Orient. giur. lav., 1971, 76; Pret. Roma, 17.1.1972, in Riv. giur. lav., 1972, II, 893; Pret. Roma, 3.9.1972, in Riv. giur. lav., II, 902) ha consentito l’utilizzo di tale strumento processuale per convenire in giudizio, non solo i datori di lavoro, ma anche le strutture organizzative.
Parte della dottrina, inoltre, ha ritenuto esperibile, quale rimedio per la violazione di cui all’art. 17, il normale procedimento ordinario finalizzato a dar luogo ad una sentenza di accertamento della antigiuridicità della situazione (cfr. D’Harmant, F.A., op. cit., 2383; Freni, A.- Giugni, G., op. cit., 65).
In realtà, come si vedrà di seguito, il profilo più problematico e controverso è quello relativo agli effetti della pronuncia giudiziale che dovesse dichiarare la sussistenza di un comportamento illegittimo, ex art. 17 l. n. 300/1970, del datore di lavoro, dal momento che, come detto, la norma nulla dice in relazione alla sanzione da applicare (v. infra, § 6).
Controverse sono le conseguenze della violazione dell’art. 17 st. lav. in quanto trattasi, come detto, di norma priva di un’esplicita sanzione, né inserita tra quelle sanzionate penalmente ex art. 38 st. lav..
Si è concordi nel ritenere che, accertata la violazione della norma in esame, il giudice debba ordinare la «cessazione del comportamento» antigiuridico, di quei mezzi, cioè, di influenza e di sostegno che hanno prodotto la violazione medesima (cfr. D’Harmant, F.A., op. cit., 2383-2384).
Più problematica, invece, è la «rimozione degli effetti» derivanti dal comportamento illecito, dal momento che, con l’ordine di cessazione del comportamento illegittimo, difficilmente potranno porsi nel nulla i vantaggi già conseguiti dall’organizzazione di comodo, «in quanto il datore di lavoro convenuto in giudizio non può eliminare effetti ormai estranei alla sua sfera decisionale» (Carinci, F., Diritto del Lavoro, Milano, 2007, II ed., vol. I, 97).
Quanto agli “effetti”, infatti, essi potranno riguardare sia l’associazione in quanto tale e sia gli atti posti in essere dalla stessa, in particolar modo il contratto collettivo.
L’eliminazione del gruppo organizzato dichiarato di comodo e, quindi, l’ordine di scioglimento dello stesso (pur disposto da alcuni pretori nei primi anni successivi all’emanazione della norma) non può essere considerato provvedimento di «rimozione degli effetti» compatibile con la Costituzione. Tale provvedimento, difatti, sarebbe in contrasto con gli artt. 2 e 18 Cost. che tutelano il principio di libertà di associazione, di cui l’esistenza e l’attività del sindacato di comodo può essere una sua estrinsecazione. «Seppur il sindacato di comodo è l’effetto cui tende il datore di lavoro con la sua attività vietata dall’art. 17, questo «effetto» non è concepibile senza il concorso della volontà associativa dei lavoratori». È questa volontà associativa che verrebbe violata qualora fosse ordinato lo scioglimento del cd. sindacato giallo (in tal senso cfr. De Cristofaro, M., op. cit., 487; D’Harmant, F.A., op. cit., 2384; Germano, T., op. cit., 247-248; Pravatà, R., op. cit., 157).
Ciò che potrebbe essere revocato (senza che vi sia violazione dei principi costituzionali) è lo status di “sindacato” per l’associazione di comodo, il suo carattere sindacale. Revoca, questa, che inciderebbe non sulla sua esistenza, ma solamente sulla possibilità di svolgere attività sindacale: l’associazione costituita o sostenuta dal datore di lavoro perderebbe la qualifica di “sindacale”. Da ciò deriverebbe che il carattere non genuino e, dunque, non sindacale dell’associazione farebbe venir meno alla stessa la titolarità dei diritti di cui al Titolo III dello st. lav., nelle ipotesi in cui la stessa associazione soddisfi i requisiti di cui all’art. 19 st. lav.
Il problema più delicato, quanto alla rimozione degli effetti, è rappresentato dalle sorti che subirebbe il contratto collettivo stipulato da un sindacato successivamente dichiarato di comodo ex art. 17 st. lav.
Secondo alcuni autori, perdendo lo status di “sindacato”, il contratto collettivo da esso posto in essere non può che essere considerato «invalido, data l’incapacità del sindacato di comodo di presentarsi come organismo collettivo, come associazione tesa a soddisfare un bisogno comune ad una pluralità di persone» (Di Cerbo, F., op. cit., 365). Il sostegno ad un’associazione sindacale, come detto, può anche realizzarsi in un «trattamento di favore in sede di contrattazione collettiva, sia nel momento della scelta della controparte, sia nel corso delle trattative». Un sindacato, infatti, potrebbe diventare «interlocutore privilegiato ai fini della conclusione e dell’amministrazione del contratto collettivo di un datore di lavoro, divenendo il contratto stesso lo strumento del sostegno» (cfr. Pravatà, R., op. cit., 155; Mancini, G.F., op. cit., 237). Pertanto, secondo tale interpretazione del divieto di cui all’art. 17 st. lav., il contratto collettivo stipulato dal datore di lavoro con un “sindacato di comodo” non potrebbe che essere inquadrato come “effetto” da rimuovere ai sensi dell’art. 28 st. lav. e, dunque, invalido (negli Stati Uniti il fenomeno si chiama setting aside, cioè invalidazione dello sweetheart-contract).
Altra parte della dottrina, invece, pur apprezzando la tesi dell’invalidità del contratto collettivo così stipulato, suggerisce di «verificare, in relazione ai principi generali dell’ordinamento italiano, se il “sostegno” del datore di lavoro determini la esistenza di vizi intrinseci del contratto per dedurne la eventuale invalidità, secondo le norme di diritto comune. [...] Non potrà, tuttavia, non tenersi presente la possibilità che il contratto collettivo possa essere considerato come un contratto plurisoggettivo», ricorrendone i requisiti e, dunque, essere un contratto collettivo valido. Sarà ancora più ardua l’opera del giudice che dovrà, quindi, definire se il contratto collettivo «sia veramente l’effetto del sostegno del datore di lavoro» (D’Harmant, F.A., op. cit., 2385-2386).
Tuttavia, non può non evidenziarsi che il datore di lavoro che stipuli un contratto collettivo con un sindacato di comodo «crea, comunque, condizioni di frattura nella dialettica sindacale e, in pari tempo, si spinge a contrattare per motivi illeciti» (cfr. Germano, T., op. cit., 248). Per questa ragione si è sostenuto che il contratto collettivo stipulato dal sindacato di comodo sia nullo ai sensi degli artt. 1418, co. 2, e 1345 c.c.
Altra dottrina ha evidenziato come la stipula di un contratto collettivo con un sindacato di comodo sia proprio l’effetto del «sostegno» vietato dalla norma in esame, soprattutto quando il sindacato «favorito sia chiaramente minoritario e/o abbia carattere aziendale». Non a caso una prova del «tutt’altro che ingiustificato clima di diffidenza attorno al fenomeno del cd. aziendalismo la si ha nella disciplina dell’art. 19» dello st. lav. che, nell’originaria formulazione, escludeva i sindacati aziendali dal novero di quelli nel cui ambito era possibile costituire rappresentanze sindacali aziendali (cfr. Mancini, G.F., op. cit., 238).
Quest’ultima notazione sul modello di rappresentanza sindacale richiama alla mente il problema delle forme di sostegno datoriale al sindacato, soprattutto quando si tratta di sindacati poco rappresentativi, attraverso proprio la sottoscrizione di un contratto collettivo. Si tratta di una pratica ben possibile che la Corte costituzionale ha avuto modo di qualificare come «accreditamento» da parte del datore di lavoro di sindacati poco rappresentativi, ai fini della costituzione di RSA ex art. 19 st. lav. La questione risale alla formulazione della norma dello Statuto conseguente al referendum abrogativo del 1995, all’esito del quale la possibilità di costituire RSA per un’associazione sindacale sembrava dipendere, sic et simpliciter, dall’essere firmataria di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva. Con la sentenza n. 244 del 1996, la Corte Costituzionale sancì un principio secondo il quale la mera sottoscrizione di un contratto collettivo da parte di un sindacato, senza che questo sia effettivamente una «controparte contrattuale», e cioè senza aver effettivamente svolto attività genuina di rappresentanza degli interessi dei lavoratori nell’azione negoziale/conflittuale, non era di per sé criterio sufficiente a legittimare la costituzione di RSA (Rappresentanze sindacali aziendali), anche perché in tal modo – ecco il punto – si sarebbe rischiato di attribuire al datore di lavoro un «potere di accreditamento» attraverso la scelta dell’interlocutore sindacale col quale stipulare un contratto collettivo. La Consulta precisa che «in senso proprio, il concetto di “potere di accreditamento” designa il caso in cui il datore di lavoro, nullo jure cogente, concede pattiziamente una o più agevolazioni previste dal titolo III della legge n. 300 del 1970 alla rappresentanza aziendale di una associazione sindacale priva dei requisiti legali per averne diritto».
Si è sostenuto opportunamente che «il rapporto implicito tra divieto di sindacato di comodo e modello di rappresentanza accolto dal legislatore statutario era in realtà ben visibile sin dalle origini». Difatti, il criterio selettivo posto dall’art. 19 st. lav. era giustificato proprio «alla luce dell’esigenza di evitare che dei diritti sindacali potessero godere associazioni sindacali accreditate da un mero riconoscimento datoriale» (Lo Faro, A., Il divieto dei sindacati di comodo dopo la fine del modello statutario di rappresentanza, in Dir. lav. merc., 2010, fasc. 3, 749).
Ne deriva che si potrebbe considerare l’“accreditamento” stigmatizzato dalla Corte costituzionale non solo come una pratica datoriale che non permette di costituire RSA ex art. 19 st. Lav., ma anche come “sostegno” illecito a un sindacato, qui nella forma specifica di sostegno funzionale alla costituzione di RSA e al godimento dei diritti del Titolo III dello st. lav.
Da ciò deriva che la sottoscrizione di un contratto collettivo con un sindacato scarsamente rappresentativo, come potrebbe non legittimare la costituzione di RSA, così potrebbe configurare un sostegno a un sindacato di comodo.
Beninteso, ciò non vuol dire che esiste un nesso logico e inequivocabile fra sottoscrizione di contratto collettivo ad opera di un sindacato scarsamente rappresentativo e le conseguenze appena riportate: infatti, così come occorre verificare nella concretezza dei rapporti sindacali se quella firma è genuina o illegittimamente concessa ai fini della costituzione di RSA, a maggior ragione di per sé, quel contratto collettivo – pur sottoscritto con un sindacato poco rappresentativo – non può essere indice sufficiente a dimostrare il “sostegno” a un sindacato di comodo.
Quel che è certo è che, qualora si dimostri che il contratto collettivo sia un’offerta di accreditamento di un sindacato da parte del datore di lavoro, esso configurerebbe un “sostegno” illegittimo a un sindacato. Anche ammesso che il sindacato non possa di per sé essere qualificato come “sindacato di comodo”, resterebbe il fatto che quel “sostegno” (cioè il contratto collettivo) rientrerebbe nel divieto dell’art. 17 e, perciò, sarebbe da considerare illegittimo.
Art. 17 l. 20.5.1970, n. 300.
Assanti, C.-Pera, G., sub art. 17, Commentario allo Statuto dei lavoratori, Milano, 1971, 65 ss.; Carinci, F., Diritto del Lavoro, Milano, 2007, II ed., vol. I; Carinci, F., La tenuta del sistema di relazioni industriali alla prova del legislatore e della magistratura. Il buio oltre la siepe: Corte Cost. 23 luglio 2013, n. 231, in Dir. rel. ind., 2013, fasc. 4, 899 ss.; Costanzo, E., Statuto dei lavoratori, Milano, 1973, 104 ss.; De Cristofaro, M., sub art. 17, in Prosperetti, U., Commentario dello Statuto dei lavoratori, Milano, 1975, 458 ss.; Di Cerbo, F., Libertà sindacale e sindacati gialli nella giurisprudenza, in Dir. lav., 1977, fasc. 5, 359 ss.; D’Harmant F.A., Il sindacato di comodo nello Statuto dei lavoratori, in Studi in onore di Giuseppe Chiarelli, 1974, vol. III, 2355 ss.; Freni, A.- Giugni, G., sub art. 17, Lo Statuto dei lavoratori, Milano, 1971, 65 ss.; Germano, T., sub art. 17, in Giugni, G., Lo st. lav., Milano, 1979, 237 ss.; Giugni, G., Diritto sindacale, Bari, 2014; Lo Faro, A., Il divieto dei sindacati di comodo dopo la fine del modello statutario di rappresentanza, in Dir. lav. merc., 2010, fasc. 3, 747 ss.; Mancini, G.F., sub art. 17, in Ghezzi, G.-Mancini, G.F.-Montuschi, L.-Romagnoli, U., Statuto dei diritti dei lavoratori, Bologna, 1972, 233 ss.; Napoletano, D., sub art. 17, Lo st. lav., 1972, 163 ss.; Pravatà, R., il c.d. sindacato di comodo e l’art. 17 dello Statuto dei lavoratori, in Dir. lav., 1979, fasc. 1, 149 ss.; Proia, G., Reciproco riconoscimento esclusivo delle parti negoziali: art. 17 dello Statuto dei lavoratori e protocollo IRI, in Dir. lav., 1989, fasc. 3-4, 225 ss.; Recchia, G. A., Il concetto di “qualità sindacale”, in Riv. giur. lav., 1997, fasc. 2, pt. II, 251 ss.; Santoro Passarelli, G., Sulla costituzionalità del nuovo art. 19 della legge n. 300 del 1970, in Argomenti dir. lav., 1996, 145; Simi, V., Sui sindacati di comodo, in Dir. lav., 1971, II, 348 ss.; Veltri, F., Sindacati di comodo e accordi collettivi «differenziali», in Riv. giur. lav., 1991, pt. II, 484 ss.