SINDACALISMO (XXXI, p. 830; App. II, 11, p. 831; III, 11, p. 747)
Nel movimento sindacale italiano cominciò a delinearsi attorno al 1960 un'inversione di tendenza rispetto al periodo delle aspre divisioni polemiche, seguìto alle scissioni del 1948-50. Questi fermenti innovatori - favoriti anche dalla distensione internazionale e dalla pur sbilanciata evoluzione economico-sociale che era in atto nel paese, interpretata a livello politico dalla nascente formula di centro-sinistra - condussero gradualmente la CGIL, la CISL e la UIL a un rapporto di sempre più costante e sistematica cooperazione. È la linea di sviluppo che, pur non senza contrasti, ha caratterizzato la politica sindacale italiana per tutto il decennio successivo e oltre, consentendo al mondo del lavoro di acquisire nel paese un crescente peso anche politico. La prassi unitaria ha pure favorito la crescita organizzativa delle tre confederazioni, i cui aderenti, sulla base del tesseramento 1974, figurano così distribuiti: CGIL 3.827.115; CISL 2.472.801; UIL 997.335. Al di fuori di questo schieramento - la cui capacità di mobilitazione si estende a pressoché tutti i lavoratori non tesserati - c'è la miriade dei sindacati autonomi settoriali, che hanno rilievo solo nel pubblico impiego ma scarsa incidenza politica; e c'è la CISNaL, il cui peso peraltro si avverte piuttosto nel campo politico dell'estrema destra.
Fra la CGIL, la CISL e la UIL, il processo di superamento delle antiche barriere ideologiche - lento e faticoso - ebbe inizio nelle categorie operaie sul finire degli anni Cinquanta. In un'organizzazione industriale, che, sullo slancio di una congiuntura estremamente favorevole, moltiplicava i profitti utilizzando una manodopera a basso costo, furono le federazioni dei metalmeccanici le prime ad avvertire l'esigenza di accrescere, attraverso azioni unitarie, il proprio peso contrattuale. I timidi contatti iniziali fra i metalmeccanici aderenti alla CGIL e alla CISL avvennero fra il 1960 e il 1962 a Torino, a Brescia, a Milano. Poi cominciarono a muoversi in questa direzione anche i settori operai aderenti alla UIL; le diffidenze reciproche erano ancora forti, alimentate dalle diverse matrici ideologiche; ma le giovani leve di lavoratori avvertivano assai meno della generazione precedente il peso delle differenti ideologie, e apparivano animate piuttosto da un desiderio di partecipazione che rifiutava schemi precostituiti, sollecitando un rinnovamento all'interno del sindacato stesso. Una parte notevole ebbe in questa maturazione la combattività dei meridionali, trasferitisi nelle grandi città del Nord col massiccio e disarticolato flusso migratorio che fece da supporto al "miracolo economico".
Sui sindacalisti cattolici, per tradizione moderati, ebbe un'indubbia influenza il pontificato di Giovanni XXXIII, la cui enciclica Mater et magistra (maggio 1961), affrontando il problema della giustizia sociale senza più condanne verso il marxismo, finì col rappresentare un'esortazione indiretta all'unità d'azione sindacale. Nella Federazione italiana metalmeccanici aderente alla CISL, lo schieramento degl'innovatori conquistò la maggioranza al congresso nazionale del marzo-aprile 1962, con un programma favorevole alla prospettiva unitaria. Queste erano peraltro posizioni d'avanguardia ancora abbastanza isolate, e avversate dai gruppi dirigenti della CISL e della UIL, che nella CGIL vedevano una concorrente forte, pericolosamente condizionata da una maggioranza comunista.
Le resistenze andarono attenuandosi negli anni successivi (senza peraltro scomparire) man mano che alla tematica unitaria si andò affiancando quella dell'autonomia dei sindacati rispetto ai partiti. Nei mesi di laboriosa gestazione del governo di centro-sinistra, si moltiplicarono le pressioni sul PSI perché rompesse con i comunisti in sede sindacale, promuovendo una scissione della CGIL; col discorso pronunciato da P. Nenni alla Camera il 3 marzo 1962 per annunciare l'astensione negoziata dei socialisti sul governo Fanfani, il PSI respinse di fatto questa ipotesi. Disse infatti Nenni: "Lo sviluppo del processo unitario nel movimento sindacale è interesse generale dei lavoratori e della democrazia". Il lento progredire dell'autonomia sindacale non impedì che le vicende politiche continuassero in qualche misura a riflettersi sui sindacati. Così l'esperimento di unificazione tentato fra il 1966 e il 1969 dai Partiti socialista e socialdemocratico ebbe influenza rilevante sulla UIL, la quale, originariamente controllata dal PSDI, al momento della scissione fra i due partiti rimase in maggioranza nell'orbita del PSI; i socialisti pertanto si trovarono ad avere proprie rappresentanze in due confederazioni. Ciò contribuì ad agevolare il colloquio unitario.
Un ruolo di primo piano ha esercitato ed esercita nel movimento sindacale italiano la componente comunista. Benché siano stati gli ultimi ad applicare, e con riluttanza, il principio dell'incompatibilità fra cariche sindacali e di partito, anche i comunisti appaiono sostenitori convinti dell'autonomia sindacale, vista quale condizione necessaria dell'unità organica, per la quale si battono. Puntando a creare nel paese un vasto movimento riformatore diretto a ridurre gli squilibri sociali, i comunisti della CGIL perseguono una politica di ampie alleanze. Nei confronti del centro-sinistra si sono generalmente attenuti a una posizione critica, ma un po' meno severa di quella del PCI; di quei governi hanno soprattutto attaccato la politica economica, rilevando i limiti di una programmazione non abbastanza incisiva nel sostenere le riforme proposte. La crisi del 1963-65 diede la misura della fragilità di uno sviluppo lasciato prevalentemente alle improvvisazioni dell'iniziativa privata, perciò alimentato da una sola spinta (la ricerca del profitto) e incapace di porre in atto correttivi agli squilibri sociali crescenti. In una conferenza nazionale promossa dalla CGIL sui problemi del Meridione (Palermo, dicembre 1965) il segretario generale A. Novella fornì, sulla base di dati ufficiali, la dimensione statistica di tali squilibri: fra l'agosto del 1964 e quello dell'anno successivo la produzione industriale era aumentata, nonostante la crisi, dell'8,5%; l'occupazione, sempre nell'industria, era diminuita del 5,2%; in un anno, dunque, il rendimento del lavoro per unità lavorativa era aumentato del 14,5%. Le statistiche dicevano anche che nel quindicennio precedente si era accentuato il divario fra Nord e Sud. Nel 1967 il reddito medio prodotto in Italia fu di 617.209 lire per abitante; ma in provincia di Milano toccò quota 1.043.000, mentre ad Avellino, capoluogo di coda, si fermò a 290.000; le ultime sette province della graduatoria avevano prodotto complessivamente nel 1951 il 2,15% del reddito nazionale; nel 1967 arrivarono appena all'1,91. I poveri diventavano più poveri e i ricchi più ricchi.
L'esigenza di una politica economica intesa a ridurre le sperequazioni era avvertita da tutto il movimento sindacale, al di là delle divergenze. Nel 1966 cominciarono a livello ufficiale gl'incontri periodici fra le segreterie della CGIL, della CISL e della UIL: non tanto per creare le premesse di un discorso unitario (giudicato ai vertici largamente prematuro) quanto per definire una piattaforma di metodo che consentisse l'adozione di strategie comuni. Gl'incontri furono sospesi dopo qualche mese, senza conclusioni operative, soprattutto per le resistenze maturate nella CGIL contro un'ipotesi di "accordo-quadro" che limitasse o soffocasse l'iniziativa operaia; quei contatti servirono tuttavia a migliorare il livello dei rapporti reciproci. Negli anni successivi gl'incontri fra le segreterie divennero sempre più frequenti e sistematici.
Le stagioni decisive per l'evoluzione del movimento sindacale italiano furono probabilmente il 1968 e il 1969. Nel 1968 ebbe largo impulso nelle fabbriche l'esperienza dei CUB (Comitati Unitari di Base); la protesta nei riguardi di una classe imprenditoriale che restava cieca di fronte alle tensioni cui era sottoposta la condizione operaia per il crescere caotico dei consumi e dei bisogni, alimentò la combattività rabbiosa dei lavoratori, e in qualche misura li pose anche in posizione critica verso il sindacalismo ufficiale, giudicato incapace di dare una risposta unitaria allo strapotere del padronato. Il fenomeno dello spontaneismo sindacale non si presta a definizioni sintetiche, perché ebbe carattere diverso da zona a zona e anche da fabbrica a fabbrica. Un dibattito è in corso sull'esattezza o meno della tesi che vede nel "maggio francese" e nella contestazione giovanile la matrice principale di questi fermenti. Senza dubbio, sull'esperienza dei CUB non fu privo d'influenza l'apparire, nel panorama politico, dei gruppi extraparlamentari critici, da sinistra, verso il PCI; ma non sempre i comitati di base hanno assunto posizioni antagonistiche nei confronti del sindacalismo tradizionale. In molti casi c'è stata un'osmosi, da cui il sindacato ha tratto la consapevolezza di doversi rinnovare, dandosi strutture più agili e guardandosi meglio che in passato dal pericolo della burocratizzazione. Ha radice nello spontaneismo del 1968 (che conobbe gli eccessi talora velleitari e settoriali delle lotte "selvagge", ma espresse una genuina partecipazione) la spinta che ha messo in crisi la tradizionale "commissione interna" e ha dato luogo alla creazione, nelle fabbriche, di organismi rappresentativi come i "consigli", meglio in grado di farsi interpreti delle reali esigenze dei lavoratori. Fu probabilmente la capacità dimostrata di assorbire in buona misura l'insegnamento dei CUB, che permise al sindacato di porsi alla guida del vasto moto rivendicativo culminato nell'"autunno caldo" del 1969.
Il 1969 fu anche un anno di congressi sindacali rilevanti. Quello della CGIL, tenuto in giugno a Livorno, vide un'accentuazione dell'impegno unitario, sollecitato dalle componenti socialista e socialproletaria, e accettato da Novella nel discorso di replica, che apparve agli osservatori più avanzato rispetto alla relazione introduttiva. Nel mese successivo si tenne a Roma il congresso della CISL, caratterizzato dalla presenza di una forte minoranza facente capo alle categorie dell'industria, la quale accusava il segretario generale B. Storti e la sua maggioranza di "tiepidità" in fatto di tematica unitaria. Il congresso vide la sconfitta di misura degli unitari; ma da quel momento la segreteria Storti - colto il valore delle spinte che provenivano dalla base del sindacalismo "bianco" - impresse una svolta alla propria politica fino a farsi interprete di quelle volontà; non a caso, negli anni successivi Storti si troverà alleato con L. Macario e P. Carniti che al congresso del 1969 avevano guidato l'opposizione. Ancor più vivace fu lo scontro congressuale nella UIL a Chianciano nell'ottobre 1969, quando ancora l'eco della recentissima scissione fra i Partiti socialista e socialdemocratico era viva e aspra; al congresso, la componente socialista sfiorò il 50%, quella repubblicana ebbe poco meno del 30 e quella socialdemocratica poco più del 20. I. Viglianesi, che aveva guidato la UIL dalla sua costituzione, lasciò la segreteria. Il repubblicano R. Vanni tentò di mediare fra socialisti e socialdemocratici; onde una segreteria a tre, formata dal Vanni, dal socialista R. Ravenna e dal socialdemocratico L. Ravecca.
Le divergenze di vertice non impedirono al movimento sindacale di presentarsi alle scadenze contrattuali dell'autunno-inverno 1969 con un volto unitario. Anche perché a gestire la stagione dei rinnovi furono soprattutto le federazioni di categoria, con in testa i metalmeccanici: e nelle federazioni le strutture di vertice riflettevano senza scompensi la realtà unitaria della base. Le trattative - difficili per la n0vità delle piattaforme rivendicative - furono contrappunte di scioperi e di manifestazioni sindacali. Sul clima che si creò intervenne l'estremismo di destra, applicando una strategia terroristica, la cui reale matrice divenne evidente negli anni successivi, nonostante il permanere di elementi contraddittori. Al suo apparire, la violenza neofascista riuscì a moltiplicare la propria efficacia politica in senso reazionario, scaricando le responsabilità del terrorismo sui fermenti originati dalla vasta azione sindacale. Così la strage di piazza Fontana a Milano (12 dicembre 1969) fu attribuita, nelle prime non limpide indagini, a gruppi di estrema sinistra, e sollevò echi ambigui, che favorirono una mobilitazione di strati borghesi e piccolo-borghesi (la cosiddetta "maggioranza silenziosa" contro il movimento sindacale.
Ciò produsse spinte involutive di segno reazionario, che in più occasioni si rivelarono insidiose, nel quinquennio successivo, per la sopravvivenza stessa del sistema democratico. Ma gli effetti non furono immediati, e non incisero sulle lotte rivendicative in atto per i rinnovi contrattuali, che si conclusero con successi cospicui. Le conquiste ottenute col contratto 1969 dai metalmeccanici - indicative anche per le altre categorie - furono in sintesi: riduzione dell'orario di lavoro settimanale a 40 ore, diritto di utilizzare per assemblee in fabbrica un certo numero di ore-lavoro retribuite, disciplina riduttiva del ricorso allo straordinario. Sul piano salariale, con i rinnovi del 1969 s'introdusse il significativo criterio dell'egualitarismo: gli aumenti retributivi non sono più calcolati in percentuale sul salario preesistente, ma definiti in cifre assolute, uguali per tutti. Di fianco alla contrattazione nazionale, fu confermata in quell'occasione, di fatto, la legittimità della contrattazione articolata azienda per azienda, che gl'imprenditori avrebbero voluto disciplinare e limitare.
Non è improprio dire che i contratti del 1969 segnarono una svolta qualitativa nei rapporti di lavoro, a favore dei prestatori d'opera. Nella medesima direzione si mosse un provvedimento legislativo approvato nel maggio 1970: lo "statuto dei lavoratori". L'iniziativa promossa dal ministro socialista G. Brodolini e conclusa dal suo successore C. Donat-Cattin, democristiano, tende a limitare il potere dell'imprenditore nei luoghi di lavoro. Nel corso del 1970 il movimento sindacale italiano, forte del suo accresciuto prestigio, cominciò a elaborare una strategia mirante a imporre una serie di qualificanti riforme sociali, relative a settori-chiave come il sistema fiscale, l'assistenza sanitaria, l'edilizia, l'urbanistica. Su questa linea d'impegno - che amplia il raggio d'azione del sindacato rispetto al tipico ruolo contrattuale - i risultati sono stati sensibilmente inferiori alle speranze; ma la tematica delle riforme ha consentito al movimento sindacale di diventare l'interlocutore stabile delle forze politiche e del governo stesso.
Anche questa prassi rafforzò la prospettiva unitaria. Nell'ottobre 1970 si riunirono per la prima volta insieme i consigli generali (cioè gli organismi rappresentativi) della CGIL, della CISL e della UIL; l'assemblea si tenne a Firenze e si concluse con un generico appello all'unità, dal quale si dissociò soltanto la componente socialdemocratica della UIL; l'esito dei lavori fu giudicato deludente dai metalmeccanici e dalle altre forze che avrebbero voluto scelte più impegnative a favore dell'unità. Nel corso dell'anno successivo la situazione parve sbloccarsi in questa direzione. La CGIL - di cui era diventato segretario generale L. Lama - adottò il principio dell'incompatibilità fra cariche sindacali e di partito: proposta fin'allora sostenuta soltanto dalla corrente socialista. Era un ulteriore contributo all'autonomia sindacale, che rafforzava le tesi unitarie. Nel novembre del 1971, i consigli generali delle tre confederazioni si riunirono di nuovo a Firenze, e stavolta presero decisioni vincolanti, impegnandosi (col solo voto contrario dei socialdemocratici) a tenere entro il marzo del 1973 il congresso costituente della nuova organizzazione sindacale unitaria. L'impegno era destinato a non concretarsi. Pochi mesi dopo, infatti, il mutamento di clima politico si accentuava in senso conservatore, con la fine anticipata della legislatura e il varo di un governo di centro-destra. In consonanza con questa svolta, Vanni, divenuto segretario unico della UIL, rilasciò nel febbraio 1972 un'intervista con la quale ritirava la propria adesione al programma di Firenze, affermando che l'unità sindacale nei tempi decisi dai consigli generali era "impossibile". Ne derivò una grave situazione di stallo. Per salvare in parte il patrimonio unitario, fu adottata la soluzione di un "patto federativo" fra la CGIL, la CISL e la UIL, che venne firmato il 25 luglio 1972. Nell'autunno del medesimo anno, i riflessi dello spostamento a destra che si era manifestato sul piano politico provocarono una grave crisi nella CISL, per il tentativo, operato da alcuni settori della Democrazia Cristiana e del governo, di riportare la confederazione a un ruolo di sindacato moderato, "collaterale" al partito. L'operazione all'interno della CISL fu condotta dall'ex luogotenente di Storti, V. Scalia, il quale si spostò all'improvviso su posizioni antiunitarie e sferrò un duro attacco alla segreteria, raccogliendo molte adesioni. Dallo scontro uscì vincitore Storti, che dopo il successivo congresso del giugno 1973 riottenne una cospicua maggioranza. Ma quella frattura ha lasciato strascichi, contribuendo ad allontanare la prospettiva dell'unità sindacale organica. Minacce di scissione lievitate soprattutto nell'estate 1975 non hanno avuto successo, per la difesa opposta alla manovra dagli schieramenti unitari.
Il movimento sindacale italiano ha rappresentato dagli anni Sessanta in poi un riferimento di rilievo anche per i sindacati degli altri paesi, dove il rinnovamento non è stato altrettanto rapido. Sul piano internazionale, i sindacati appaiono ancora divisi nei due blocchi originati dalla guerra fredda: a Est la Federazione sindacale mondiale, condizionata dall'egemonia sovietica; a Ovest la Confederazione dei sindacati liberi, che per molti anni ha agito nel mondo come strumento dell'espansione americana. Entrambe le organizzazioni internazionali appaiono però svuotate di potere, anacronistiche. Al vuoto reale che lasciano si è cercato di porre rimedio creando, nel 1972, la Confederazione Europea dei Sindacati (CES); l'iniziativa è stata presa dalle organizzazioni aderenti alla centrale dei Sindacati liberi, ma in uno spirito nuovo rispetto ai vecchi schemi ideologici; la CES infatti è stata dichiarata aperta all'adesione anche dei sindacati marxisti e cristiani: raccogliendo tutti i sindacati della Comunità economica europea, mira a fronteggiare in quest'area la strategia imprenditoriale ispirata dalle imprese multinazionali. Per aderire alla CES, la CGIL ha dato maggiore elasticità al proprio rapporto con la Federazione sindacale mondiale. Al congresso che la FLM tenne a Varna (Bulgaria) nell'ottobre 1973, la confederazione italiana chiese e ottenne di potersi trasformare da affiliata in associata; nel 1977 rinunciò anche a questo legame.
L'aggravarsi della crisi economica e la necessità di fronteggiarla con una strategia sindacale unitaria caratterizzarono i congressi nazionali tenuti nel 1977 dalla CGIL, dalla CISL (di cui è stato poi segretario generale L. Macario, e dal 1979 P. Carniti) e dalla UIL (segretario generale G. Benvenuto). Fra le contraddizioni di una complessa evoluzione politica, imperniata sullo sforzo compiuto dal PCI per creare le condizioni di una propria compartecipazione al governo, i rapporti fra le tre confederazioni sindacali conobbero altri momenti di tensione, originati dalle rispettive matrici politiche.
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