SINAI
Penisola tra l'Asia e l'Africa, nella cui parte meridionale si eleva un massiccio montuoso che culmina nel Jabal Mūsá, la cima sacra legata alla memoria della consegna a Mosè delle tavole della Legge.La santità del luogo attirò già nel corso del sec. 4° monaci e anacoreti, che popolarono il territorio circostante con numerosi, pur se modesti, insediamenti abitativi e cultuali. Di essi fa cenno nel suo diario di viaggio la pellegrina Egeria (Itinerarium, 4, 6-8), che si recò sul S. nel 383 e sostò anche sul luogo di un'altra memoria mosaica, quella del roveto ardente, ove sorgeva una piccola chiesa. Fu proprio in stretta connessione con quel sito venerato che oltre un secolo e mezzo più tardi venne eretto, entro una cinta fortificata, un monastero, comprendente l'attuale basilica di S. Caterina, allora dedicata alla Theotókos.
Lo straordinario complesso monastico, che sorge ancora oggi pressoché isolato, conserva in buona parte intatte le originarie strutture del 6° secolo. Committente della costruzione fu l'imperatore Giustiniano, come testimoniano numerose fonti storiche ed epigrafiche: tra le prime innanzitutto il contemporaneo Procopio di Cesarea (De Aed., V, 8) e più tardi, nel sec. 10°, Eutichio, patriarca di Alessandria (Annales, XVII, 5-7); tra le seconde, le iscrizioni al di sopra dell'antica porta d'ingresso al monastero e su una trave lignea del tetto della basilica (Èevčenko, 1966). Sono invece meno chiare le motivazioni che portarono all'edificazione del complesso. Da un lato Procopio assegna alla struttura una decisa connotazione militare, inserendola nel più generale progetto difensivo giustinianeo; dall'altro, Eutichio privilegia invece le esigenze di sicurezza dei monaci, esposti al pericolo delle scorrerie beduine. In realtà una versione non esclude completamente l'altra e si può pensare che l'attenzione dell'imperatore fosse mossa dalla necessità di proteggere dai saraceni la memoria sacra del roveto, già meta di pellegrinaggi, ma anche di aggiungere un ulteriore anello, pur se periferico e con valenza limitata, alla catena fortificata del limes orientale.Meno problematica è la questione cronologica, i cui termini possono essere ulteriormente circoscritti all'interno del periodo di regno di Giustiniano (527-565). Un sicuro terminus post quem al 548 per il completamento della basilica è offerto dall'iscrizione su un'altra trave lignea del tetto che menziona l'imperatrice Teodora come non più vivente. Un'anticipazione al 536 per un possibile interessamento imperiale alla comunità sinaitica è stata proposta (de' Maffei, 1988) in base alla presenza di Teona, presbitero e apocrisario del monte S., al sinodo tenutosi in quell'anno a Costantinopoli. Più discutibile è il terminus ante quem che appare collegato sia alla controversa data di pubblicazione del De Aedificiis di Procopio, oscillante tra il 554 e il 560, sia all'iscrizione musiva del catino absidale, che reca l'indizione quattordicesima, corrispondente al 550/551 o, al 565/566. La cinta fortificata doveva comunque essere completata intorno al 570, quando l'Anonimo di Piacenza (Itinerarium, 37) la ricorda nel suo resoconto di viaggio.Il perimetro murario, di forma quadrangolare (m 85 ´ 75 ca.) sopravvive quasi integralmente, con diversi seriori interventi di rinforzo, come quello di età napoleonica del lato nord-est. La cortina è costituita da grandi blocchi di granito locale, che recano, soprattutto nel lato sud-ovest, decorazioni scolpite di soggetto simbolico (croci, coppie di agnelli, volatili affrontati). La porta principale, oggi murata, si trova sul lato nord-ovest ed è sovrastata da un'alta caditoia siglata dalla citata iscrizione di Giustiniano. Agli angoli della fortificazione e al centro del lato sud-ovest si trovano delle torri appena emergenti, più rinforzi strutturali che elementi di difesa; numerose sono le feritoie che si aprono nel perimetro e che dovevano corrispondere alle celle dei monaci o ad altri ambienti, oggi perduti.Nel corso degli ultimi decenni è stato possibile arricchire la conoscenza delle originarie strutture grazie a tre successive campagne di indagini: quella del 1958-1965 (Forsyth, 1968; Forsyth, Weitzmann, 1973), quella successiva all'incendio del 1971 (Demakopulos, 1977-1979) e infine quella degli anni Ottanta (Grossmann, 1988; 1990). Sono così stati evidenziati, tra gli altri edifici, una sorta di aula divisa in due navate da pilastri, un granaio e una piccola cappella. L'ultima campagna ha inoltre riconosciuto nella struttura quadrangolare posta a S della facciata della chiesa un'antica torre attribuibile al sec. 4° e identificabile con quella menzionata negli Annales di Eutichio di Alessandria (Grossmann, 1988). Più discusso è l'edificio a due piani con pilastri cruciformi posto dinanzi alla basilica e trasformato in moschea all'inizio del sec. 12°, che viene da alcuni datato all'età giustinianea e identificato sia con ambienti per ospiti (Forsyth, 1968) sia con la sede della guarnigione ricordata da Procopio (de' Maffei, 1988), e che da altri è stato considerato di epoca mediobizantina (Grossmann, 1990).Il fulcro dell'intero complesso è la basilica, la cui posizione sensibilmente decentrata è condizionata dall'orientamento a E e soprattutto dalla memoria del roveto ardente, che doveva trovarsi all'esterno della parete absidale. L'identità dell'architetto - Stefano di Aila (Eilat, Aqaba, in Giordania) - è nota grazie a una terza iscrizione su una delle travi lignee del tetto. La struttura muraria è del tutto simile a quella della cinta e mostra analoghi motivi decorativi scolpiti nei blocchi. La parete occidentale è coronata da un timpano triangolare la cui accentuata verticalizzazione tende a compensare l'affossamento del piano pavimentale, condizionato dalla posizione del roveto; essa si conclude a N e a S con due basse torri, collegabili a usi monastici, di cui quella settentrionale è sormontata da un campanile completato nel 1871.L'edificio si articola in tre navate, divise da due file di sei colonne di pietra locale e affiancate a N e a S da ambienti lunghi e stretti, con suddivisioni interne in parte originarie e in parte successive, oggi adibiti a cappelle e sagrestia, ma la cui funzione primitiva resta problematica. L'abside, con terminazione piana all'esterno, è racchiusa tra due pastophória, di forma quadrangolare e anch'essi con abside semicircolare all'interno e rettilinea all'esterno; i due ambienti comunicano sia con le navate laterali sia con lo spazio esterno all'abside dove si trovava il roveto, guidando così il pellegrino in una sorta di percorso a U. Solo in un secondo tempo il luogo venerato venne racchiuso entro la c.d. cappella del Roveto, una struttura absidata di datazione incerta, considerata per lo più medievale (Forsyth, 1968), ma recentemente anticipata all'inizio del sec. 7° (Grossmann, 1990).La decorazione dell'interno conserva in buona parte l'aspetto del sec. 6°, a iniziare dalla grande porta lignea i cui ventotto pannelli sono scolpiti su entrambi i lati: sul lato ovest si dispongono simmetricamente figure animali alternate a kántharoi e composizioni arboree con uccelli affrontati, mentre sul lato interno trovano posto più semplici motivi geometrico-vegetali che bene si inseriscono nel repertorio della scultura e della decorazione parietale di età giustinianea. Un programma iconografico più complesso si dispiega sulle tredici travi lignee del tetto, ove accanto a rigogliosi girali di acanto e di vite si trovano scene di vivace freschezza narrativa che alludono al creato nelle sue varie forme terrestri e acquatiche. Non è stata ancora chiarita la provenienza delle maestranze, forse egiziane, ma comunque aggiornate agli esiti stilistici della contemporanea scultura metropolitana e al repertorio iconografico dei pavimenti musivi dell'area mediterranea orientale (Drewer, 1972; Maguire, 1987).Certo da artefici locali furono eseguiti i sedici grandi capitelli di granito dei colonnati, in cui il taglio semplificato degli elementi vegetali e animali non toglie tuttavia originalità a manufatti che replicano, in modo talora ingenuo e sommario, alcune tra le tipologie più diffuse tra la fine del sec. 5° e l'età giustinianea (capitelli bizonali, a foglie mosse dal vento e a canestro), con soluzioni vicine a esempi di area siro-mesopotamica e in parte egiziana. Tale varietà risulta senz'altro intenzionale e non frutto di reimpiego, data la lavorazione in loco, e si pone dunque come una precisa scelta di gusto, analoga a quella di altri edifici del sec. 6° (Guiglia Guidobaldi, 1990).La decorazione parietale, marmorea e musiva, si concentra nella zona absidale, oggi sottratta alla vista dall'iconostasi seicentesca. La parte inferiore dell'emiciclo e i due pilastri contigui sono ancora rivestiti dalle preziose lastre marmoree originali, congiunte 'a macchia aperta' in modo da creare con le venature astratti ed eleganti disegni di precisa simmetria.Nel catino absidale e sulla sovrastante parete si distende uno tra i mosaici più celebri e meglio conservati dell'epoca preiconoclasta, oggetto di un accurato restauro all'inizio degli anni Sessanta (Weitzmann, 1966; Forsyth, Weitzmann, 1973). Il tema iconografico, inconsueto in epoca così antica, è quello della Trasfigurazione: al centro, su fondo d'oro, domina il Cristo, sospeso entro una mandorla luminosa a tre fasce di azzurro; ai lati si ergono le figure stanti di Elia e di Mosè; più in basso sono gli apostoli Giovanni e Giacomo Maggiore, inginocchiati in posizione quasi speculare, e Pietro, bocconi proprio al di sotto della mandorla divina.Nella parte inferiore corre l'iscrizione, che ricorda, oltre ad anonimi donatori, l'egumeno Longino e il presbitero Teodoro; circondano la scena trentuno medaglioni con busti di profeti in basso, di evangelisti e apostoli in alto, esclusi i tre presenti alla Trasfigurazione, completati alle estremità da quelli del diacono Giovanni e dello stesso egumeno Longino, contraddistinti dal nimbo quadrato; in alto al centro, infine, compare un clipeo a tre fasce di luce con una croce equilatera. Sull'arco absidale è posto un altro clipeo, sempre a più gradazioni di azzurro, con l'Agnello davanti alla croce, verso il quale convergono due angeli in volo con asta e globo crucesignati; negli spazi triangolari al di sotto si inseriscono ancora due clipei con i busti di S. Giovanni Battista e della Vergine. Più in alto ancora, ai lati della bifora con colonnina e capitello mosaicati, trovano posto gli episodi della Vita di Mosè legati topograficamente alla basilica: il Roveto ardente e la Consegna della Legge. Mosè è rivolto in entrambi i casi verso il centro della parete, cioè verso il segmento di cielo dal quale fuoriesce la mano di Dio.Il programma iconografico, denso e complesso, si presta a innumerevoli possibilità di lettura, sulla falsariga dell'esegesi patristica (de' Maffei, 1982; Elsner, 1994). Al centro della speculazione figurata si pone il dogma delle due nature di Cristo, letto in chiave trinitaria, come conferma anche l'insistenza sulle tre fasce di azzurro della mandorla e dei clipei: una chiara affermazione di ortodossia in linea con la posizione dello stesso Giustiniano, nel momento in cui il dibattito teologico su quei temi era particolarmente vivo. Intimamente connessa è la tematica del sacrificio, riassunta dal clipeo con l'Agnello, che, posto in asse con il Cristo e con il busto di Davide e sovrastato dagli episodi di Mosè, costituisce il legame tra il vecchio e il nuovo patto, ma anche il superamento e la sostituzione della nuova alleanza a quella antica. In quest'ottica il Battista e la Vergine, più che costituire una versione assai precoce della Déesis (Weitzmann, 1966), sembrano assumere la funzione di testimoni di Cristo e del suo manifestarsi come natura divina e umana (de' Maffei, 1982).Alla elaborazione tematica corrisponde una realizzazione stilistica di altissimo livello, come attestano la salda plasticità dei corpi, il raffinato gioco dei panneggi, ottenuti con delicati passaggi cromatici, e la vivacità espressiva dei ritratti nei medaglioni. Proprio per questi caratteri è stato ipotizzato che gli artisti provenissero da Costantinopoli (Weitzmann, 1966); ma il dibattito critico è ancora aperto, data anche l'assenza nella capitale di possibili termini di confronto, e sono state avanzate in parallelo altre proposte che indicano per le maestranze un'origine nell'area siriaca (de' Maffei, 1982).
Il tema del Sacrificio di Cristo nelle sue prefigurazioni veterotestamentarie viene riproposto da due singolari pannelli, dipinti a encausto, sulle lastre marmoree di rivestimento dei pilastri a sinistra e a destra dell'abside, che raffigurano il Sacrificio di Isacco e il Sacrificio della figlia di Iefte, un episodio quest'ultimo assai inconsueto in epoca preiconoclasta. La resa stilistica delle figure appare meno vigorosa e piuttosto grafica e lineare rispetto al mosaico e ha suggerito una datazione al sec. 7° e un'origine palestinese dell'artista (Weitzmann, 1964).L'arredo liturgico originario della basilica sopravvive solo in piccola parte e ormai smembrato. Restano tre plutei marmorei, due dei quali sono collocati ai lati del bema e un terzo è reimpiegato nell'altare della cappella del Roveto, alcuni pilastrini della recinzione e un piccolo capitello corinzio. Le composizioni che decorano le lastre - sia quella con la coppia di gazzelle affrontate ai lati della croce, sia quella del serto con la croce gigliata affiancato da croci su lemnisci - trovano rispondenze anche stilistiche con manufatti di ambito palestinese (Russo, 1987), per cui non sembra necessario postularne un'importazione diretta dalla capitale.Della suppellettile liturgica del sec. 6° faceva molto probabilmente parte anche la grande croce di bronzo, oggi collocata nella cappella dei Quaranta Martiri. La sua eccezionale decorazione, tutta svolta sulla fronte, comprende le due figure di Mosè che riceve la Legge e che si scioglie i sandali alle estremità dei bracci orizzontali, alle quali si collegano le mani del Signore emergenti da un globo stellato al sommo del braccio verticale. Il resto della superficie è occupato da una lunga iscrizione con il relativo passo biblico e la menzione della donatrice, una certa Teodora. In base ai dati paleografici, uniti a quelli iconografici e stilistici, sono state proposte una datazione al sec. 6° e una provenienza dell'artefice dall'area siropalestinese (Weitzmann, Èevčenko, 1963).Un evento fondamentale nella vita della basilica sinaitica fu il sorgere del culto di S. Caterina di Alessandria e delle sue reliquie, che obliterò l'originaria dedica alla Theotókos e che ben presto si diffuse dal monastero verso l'Occidente. La leggenda del trasporto miracoloso per mano degli angeli del corpo della santa su una delle cime del massiccio del S., oggi Djebel Katarina, dovette originarsi tra i secc. 8° e 9°, ma alla fine del sec. 11° i resti venerati si trovavano ancora sul monte; solo più tardi essi furono trasferiti nella basilica, in un'elaborata struttura a baldacchino, composta sia da marmi di reimpiego del sec. 6° sia da elementi settecenteschi.La continuità di vita del monastero, rimasto sempre una roccaforte dell'ortodossia, e la celebrità delle sue memorie bibliche, cui si aggiunse nel Medioevo la fama delle reliquie di s. Caterina, lo resero frequentatissima meta di pellegrinaggi e tappa pressoché ineliminabile lungo il cammino verso la Terra Santa.La presenza ininterrotta della comunità monastica e la notorietà del luogo permisero anche il costituirsi di una raccolta di icone (v.) unica al mondo. Si tratta di un insieme di oltre duemila esemplari che consentono la rara opportunità di seguire l'intero percorso stilistico e iconografico della pittura bizantina su tavola. L'arco cronologico si estende dal sec. 6° ai nostri giorni e include anche periodi altrove meno documentati per questo tipo di manufatto, vale a dire quello preiconoclasta e quello iconoclasta.L'eccezionale patrimonio si formò grazie alle icone portate in dono al monastero, verosimilmente già all'atto della sua fondazione, ma si dovette in seguito creare all'interno della comunità anche un'attività pittorica propria. Restano ancora aperti, soprattutto per gli esemplari più antichi, problemi relativi alla datazione e all'area artistica di provenienza: le celebri icone a encausto del Pantocratore, di S. Pietro e della Vergine con il Bambino tra due angeli, s. Giorgio e s. Teodoro, tra le più alte testimonianze della prima pittura bizantina, vengono per lo più considerate di origine costantinopolitana, ma con una cronologia oscillante tra il sec. 6° (Weitzmann, 1976) e il sec. 7° (Kitzinger, 1955; Trilling, 1983). Del primo gruppo fanno parte anche alcune icone trasferite alla metà del sec. 19° a Kiev (Gosudarstvennyi muz. zapadnogo i vostočnogo iskusstva), come quella della Vergine con il Bambino, stilisticamente collegabile alle precedenti, quella dei Ss. Sergio e Bacco, per la quale è stata proposta una provenienza siriaca, o quella con S. Giovanni Battista.Di importanza notevolissima è anche il gruppo definito palestinese per le sue caratteristiche iconografiche e stilistiche, del quale fanno parte l'icona dell'Ascensione (sec. 6°), l'Incontro di Cristo con le Marie e i Tre fanciulli nella fornace (sec. 7°), la Crocifissione con i due ladroni (sec. 8°) e una tavola che raggruppa più scene: Natività, Presentazione, Ascensione, Pentecoste (sec. 9°-10°).Nel periodo macedone si fanno nuovamente sensibili gli influssi della capitale, come nel trittico frammentario (metà del sec. 10°), che illustra la leggenda del mandìlion, ove il re Abgar assume la fisionomia dell'imperatore Costantino VII Porfirogenito. A una bottega metropolitana va ricondotta la grande icona di S. Nicola (fine del sec. 10°), che costituisce forse l'esempio più antico di una composizione largamente diffusa nei secoli seguenti.Per i secc. 11° e 12° numerose sono le c.d. icone-menologio, che su due o più tavole raggruppano figure di santi o scene del loro martirio. Al sec. 12° risalgono le più antiche icone-epistilio, destinate alla parte superiore del témplon, come quella con la Déesis e undici scene dei Miracoli di s. Eustrazio e altre con la Déesis, due scene della Vita della Vergine e il Dodekáorton. Intimamente legata alla vita spirituale del monastero è la splendida icona della Scala del Paradiso, che illustra il trattato sulla perfezione morale dei monaci opera di Giovanni Climaco, che fu egumeno della comunità nella prima metà del 7° secolo. Vero capolavoro della pittura tardocomnena è poi l'icona dell'Annunciazione, probabilmente eseguita da un artista costantinopolitano attivo al S., al quale si attribuisce anche la Scala del Paradiso appena ricordata.Ancora più numerose sono le icone del sec. 13°, che rivelano la coesistenza di varie correnti, espressione della molteplicità di tradizioni culturali proprie del Mediterraneo orientale, ma anche di quelle createsi con l'arrivo dei crociati. Sono soprattutto le icone legate ai protagonisti del luogo venerato (Mosè, Elia, s. Caterina) a caratterizzare la produzione dei primi decenni del secolo, anche in relazione al sempre crescente afflusso di pellegrini dall'Occidente. Si affermano nel contempo le grandi icone agiografiche con la figura del santo al centro, circondato da scene della sua vita, come quelle di S. Nicola, S. Elia, S. Panteleimone e S. Caterina.Alla seconda metà del sec. 13° appartengono oltre cento icone, che manifestano cadenze stilistiche occidentali e che sono state classificate in un gruppo 'crociato', in parte opera di pittori latini al S. e in parte provenienti dall'Europa o dai territori occupati dai Latini stessi. Oltre a una splendida Crocifissione, esemplificano questo gruppo il dittico con S. Procopio e la Vergine Kykkótissa e le due icone bilaterali con la Crocifissione e l'Anastasi e con i Ss. Sergio e Bacco e la Vergine Odighítria.Un deciso mutamento si attua nel corso del sec. 14°, quando le icone diminuiscono nel numero e nelle dimensioni e mostrano una sensibile aderenza a modelli costantinopolitani di stile paleologo, come il raffinatissimo polittico con la raffigurazione del Dodekáorton.Il monastero del S. fu uno straordinario crocevia di lingue e culture. Questo clima si riflette anche nell'eccezionale patrimonio della sua biblioteca, che conta oltre quattromila codici e rotuli scritti in ben undici lingue, molti dei quali furono rinvenuti nel 1975, murati in un ambiente presso il lato nord della cinta muraria.Diversamente dalle icone, non restano testimonianze dei primi secoli e i più antichi codici illustrati risalgono solo ai secc. 8°-9°, quando il monastero, ormai isolato dalla capitale bizantina dopo la conquista araba, aveva consolidato i suoi rapporti con la Palestina e soprattutto con Gerusalemme. Si tratta di un gruppo di manoscritti con semplici decorazioni aniconiche, in parte di provenienza palestinese e in parte scritti al S., come il codice (gr. 32) che reca la firma del copista Michele. Sempre allo scriptorium del monastero e alla metà del sec. 10° possono essere attribuiti la Scala del Paradiso di Giovanni Climaco (gr. 417), e forse il lezionario (gr. 213) del 967, con iniziali zoomorfe di gusto marcatamente orientalizzante.Ma è soprattutto a partire dal sec. 11° che datano alcuni tra i codici più sontuosi degli scriptoria costantinopolitani, giunti in dono al S. anche in epoca postbizantina: l'evangeliario (gr. 204) del 1000 ca., con le figure stanti su fondo d'oro degli evangelisti, di Cristo, della Vergine e del beato Pietro Monobata; l'Omelia sul Vangelo di Matteo di Giovanni Crisostomo (gr. 364), del 1042-1050, con i ritratti imperiali di Costantino IX Monomaco, Zoe e Teodora; le Omelie di Gregorio Nazianzeno (gr. 339), del 1136-1155.Sempre alla capitale, pur se espressione di una meno aulica corrente, viene attribuito il Libro di Giobbe (gr. 3), del tardo sec. 11°, con ventisette miniature, racchiuse da semplici linee dorate. Altri codici possono essere ipoteticamente attribuiti allo scriptorium sinaitico: la Topographia christiana di Cosma Indicopleuste (gr. 1186), del primo sec. 11°, la più ricca di illustrazioni tra le quattro copie esistenti di questo testo, oppure la Scala del Paradiso di Giovanni Climaco (gr. 418), del 12° secolo.Come per le icone, anche per i codici miniati il sec. 13° è segnato dalla presenza di influenze occidentali, mediate talora dalla Palestina, come esemplifica un manoscritto (gr. 198) con i ritratti degli evangelisti e la figura del monaco Germano inginocchiato ai piedi di S. Giovanni.
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