SIMPLICIO
, papa, santo. – Di Simplicio, originario di Tivoli e figlio di un certo Castino secondo il Liber pontificalis, non si hanno notizie riguardanti il periodo precedente l’elezione papale, che, secondo L. Duchesne, avvenne il 3 marzo del 468 (mentre secondo Ph. Jaffé il 25 febbraio).
Successore di Ilaro, Simplicio fu eletto dopo una vacanza di soli dieci giorni. Durante il suo pontificato, durato quindici anni, cercò di seguire le orme dei suoi predecessori, Leone e Ilaro, nella difesa del credo calcedonese e nel tentativo di affermare l’autorità della Chiesa romana, ma, soprattutto nei rapporti con la Chiesa orientale, ebbe scarso successo non riuscendo a gestire i tumultuosi e repentini rivolgimenti avvenuti in quel periodo. Gli eventi più significativi degli anni del pontificato di Simplicio furono la caduta dell’Impero d’Occidente e l’inizio di quello che verrà definito lo scisma acaciano.
La deposizione di Romolo Augustolo e l’insediamento dell’ariano Odoacre come re d’Italia non ebbero tuttavia conseguenze rilevanti nella vita della Chiesa: gli ultimi imperatori d’Occidente infatti erano stati figure di scarsissimo rilievo. Odoacre inoltre non sembra aver interferito in modo significativo negli affari ecclesiastici, limitandosi, tra l’altro in accordo con Simplicio, a riservarsi il diritto, proprio dell’imperatore, di essere consultato in merito all’elezione del pontefice. Risale al pontificato di Simmaco l’abrogazione dell’accordo sancito tra Simplicio e Odoacre che prevedeva che l’elezione del successore avvenisse con il consenso del re: Simmaco infatti riferisce, nel concilio romano del 502, che alla morte di Simplicio il prefetto del pretorio Basilio aveva ricordato all’assemblea riunita che il defunto papa e Odoacre avevano comunemente stabilito, per il bene e l’unità della Chiesa, che non si celebrasse l’elezione senza la consultazione del re. Dai documenti dello stesso concilio si apprende inoltre che Odoacre aveva sottoposto l’alienazione dei beni ecclesiastici alla propria autorità (Bene quidem fraternitas vestra, ep. 6, pp. 685-96).
Per quanto riguardava però gli affari strettamente ecclesiastici Simplicio aveva continuato a godere di piena libertà. Intervenne infatti nelle questioni disciplinari sorte nell’Italia suburbicaria adottando sanzioni severe, come è testimoniato da alcune lettere: l’epistola indirizzata ai vescovi del Piceno (475) espone le misure da adottare nei confronti del vescovo Gaudenzio, a riguardo del quale era pervenuta al papa una relazione dei vescovi limitrofi in cui veniva denunciato per aver eseguito ordinazioni secondo procedure non canoniche e per essersi inoltre appropriato indebitamente, per tre anni, di tutti gli introiti della sua diocesi, trascurando di devolvere, come prescritto dai canoni, le percentuali dovute al clero e ai bisognosi. Simplicio decretava in primo luogo che non venissero riconosciute le ordinazioni celebrate da Gaudenzio senza il rispetto dei canoni, che lo stesso fosse privato del diritto di eseguire ordinazioni e che restituisse tutto il danaro sottratto illecitamente, accontentandosi della quarta parte degli introiti.
Al 482 risale la lettera a Giovanni, metropolita di Ravenna, in cui il papa rimprovera il destinatario per aver eseguito un’ordinazione al di fuori del territorio sottoposto alla sua giurisdizione: Giovanni infatti aveva consacrato vescovo un certo Gregorio per la sede di Modena e oltretutto contro la volontà del candidato. Simplicio dichiara comunque valida l’ordinazione di Gregorio, ma minaccia Giovanni di privarlo del diritto di ordinazione se oserà ripetere una tale trasgressione dei canoni. È pervenuta senza data l’epistola con cui Simplicio nomina il vescovo di Siviglia, Zenone, vicario pontificio per la Spagna.
La situazione della Chiesa d’Oriente invece sfuggì completamente al controllo di Simplicio nonostante egli si fosse impegnato ripetutamente nel tentativo di guidare gli avvenimenti, come documentano le numerosissime lettere inviate al clero e alla corte di Costantinopoli. In realtà l’azione di Simplicio venne ostacolata non poco dal patriarca Acacio che, inizialmente per timore delle possibili ritorsioni, poi per una scelta deliberata, tenne il pontefice all’oscuro degli avvenimenti. Nella delicata crisi con l’Occidente si sovrapponevano due fattori: da un lato Costantinopoli, a motivo del prestigio politico ormai incontrastato, rivendicava il diritto a un primato d’onore che riconosceva secondo soltanto a quello della Chiesa romana. Invece il primato di Roma non si fondava ormai sul ruolo politico della città, ma sulla sua origine apostolica, e precisamente sull’autorevolezza della figura di Pietro.
La prima espressione della preoccupazione di Simplicio per l’evidente aspirazione di Costantinopoli ad essere riconosciuta come la seconda sede della cristianità si manifestò nella reazione alla pubblicazione dell’editto con cui l’imperatore Leone I, sicuramente sotto le pressioni di Acacio, confermava la validità del canone 28 di Calcedonia. Questo canone riconosceva un primato d’onore a Costantinopoli in quanto sede dell’Impero, che veniva quindi definita «nuova Roma». Attribuiva inoltre al patriarca il diritto di ordinare i metropoliti dell’Asia, del Ponto e della Tracia, contravvenendo però ai canoni del concilio di Nicea in cui si riconosceva la preminenza delle sedi di Antiochia e Alessandria. Papa Leone aveva energicamente protestato contro questa che considerava una prevaricazione da parte di Costantinopoli; il patriarca Anatolio allora, sostenuto dall’imperatore Marciano, aveva inviato a Roma una lettera di scuse, ma di fatto il problema era rimasto aperto. Grazie all’editto dell’imperatore Leone I appare chiara l’intenzione di Acacio di rendere noto al papa appena eletto che il canone 28 era considerato pienamente valido e che a nulla erano valse le proteste di papa Leone. Simplicio di rimando inviò a Costantinopoli Probo, vescovo di Canosa in Puglia, per comunicare il proprio disappunto. Non si conosce l’esito della missione che è documentata solo grazie a una notazione di Gelasio nell’Epistula ad episcopos Dardaniae.
Un secondo motivo di turbamento fu la recrudescenza dell’eresia eutichiana che ricevette nuovo vigore durante il regno dell’usurpatore Basilisco.
Eutiche, monaco di Costantinopoli seguace di Cirillo e intransigente monofisita, aveva estremizzato la dottrina del maestro alessandrino insistendo sull’unicità della natura di Cristo dopo l’unione; pare anche che abbia sostenuto la non consustanzialità della carne di Cristo rispetto a quella umana; fu condannato nel sinodo permanente di Costantinopoli del 448.
Basilisco nel 475 aveva scacciato l’imperatore Zenone e, schierandosi apertamente per il partito monofisita, aveva richiamato nelle loro sedi i vescovi eutichiani precedentemente esiliati. Aveva poi emanato un’enciclica con la quale dichiarava nulle le decisioni del concilio di Calcedonia; gran parte dei vescovi orientali, per timore, la sottoscrisse. Timoteo Eluro, uno dei vescovi monofisiti in esilio, tornando trionfalmente a prendere possesso della sede di Alessandria grazie al provvedimento di Basilisco, riunì un concilio a Efeso in cui vennero deposti i vescovi che rifiutavano di sottoscrivere l’enciclica; tra essi anche Acacio.
Risalgono a questo periodo tre lettere di Simplicio: a Basilisco, in cui il papa tenta di indirizzare l’imperatore verso la posizione filocalcedonese assunta dai suoi predecessori; ad Acacio, con cui Simplicio prega il patriarca di intercedere presso l’imperatore affinché impedisca la riunione di un concilio, da lungo auspicato dai monofisiti, in cui si rivedessero le decisioni prese a Calcedonia; infine la risposta ai monaci di Costantinopoli che per primi avevano informato il pontefice degli avvenimenti; Simplicio li incoraggia a resistere, lamentando velatamente di non essere stato informato da Acacio stesso, ma giustifica questa reticenza come una precauzione diplomatica, in quanto la posizione autorevole di Acacio avrebbe potuto far interpretare una semplice lettera di informazione come un appello ufficiale a Roma, incrinando ancor più il già precario equilibrio dei rapporti con l’imperatore. Significativo della tensione il fatto che mentre nell’epistola a Basilisco Simplicio sottolinea chiaramente la particolare autorità spirituale della Chiesa di Roma, qui invece ometta ogni riferimento all’argomento, evidentemente per non irritare il patriarca costantinopolitano.
Acacio nel frattempo persisteva nella sua ferma opposizione organizzando a Costantinopoli manifestazioni di protesta a volte plateali (per esempio si racconta che in un’occasione fece velare di nero la chiesa di S. Sofia, e in un’altra costrinse Daniele lo stilita a scendere dalla colonna per aiutarlo nel coinvolgimento del popolo). In realtà il patriarca non era sostenuto, nella sua strenua resistenza, da una sincera e fedele adesione all’ortodossia nei confronti della quale, come si vedrà subito, si mostrerà piuttosto tiepido, ma piuttosto da un fine politico: rendendosi conto infatti del malcontento che si manifestava intorno a Basilisco, certo che il suo regno non sarebbe durato ancora a lungo, mentre Zenone si riorganizzava per il rientro, si unì ai calcedonesi per agevolare il ritorno dell’imperatore che avvenne nel 476.
La notizia del ritorno di Zenone giunse a Simplicio di nuovo tramite una lettera del clero e dei monaci di Costantinopoli, mentre solo in un secondo momento gli pervenne la lettera ufficiale di Acacio che lo informava il papa anche della morte di Timoteo Eluro (avvenuta in realtà prima del rivolgimento politico), del fallimento del tentativo di Pietro Mongo (diacono alessandrino, seguace di Timoteo Eluro che era stato con lui esiliato nel 470 ed era tornato al suo seguito nel 475) di impadronirsi del seggio di Alessandria e del successivo insediamento, incontrastato, di Timoteo Salofaciolo.
Anche in questa occasione Simplicio esortò l’imperatore a mantenere la condotta dei suoi predecessori e scrisse ad Acacio rallegrandosi per i nuovi eventi.
Pur essendosi apparentemente placata, la situazione della Chiesa orientale tendeva piuttosto verso una soluzione di compromesso con i monofisiti: Timoteo Salofaciolo, uomo molto gradito all’opinione pubblica anche per la sua mansuetudine e disponibilità, aveva accettato di nominare Dioscoro nei dittici.
Dioscoro di Alessandria, che nel 444 era succeduto a Cirillo nell’episcopato, aveva presieduto il concilio di Efeso del 449 (definito da papa Leone «Latrocinio efesino» nella sua epistola 95 ) in cui aveva sostenuto il monofisita Eutiche commettendo prevaricazioni e violenze nei confronti dei suoi avversari. Tra le vittime fu il patriarca di Costantinopoli, Flaviano, che morì in seguito ai maltrattamenti subiti in questa occasione.
L’azione di Timoteo aveva provocato la riprovazione di Simplicio che raccomandò ad Acacio di sorvegliare la Chiesa di Alessandria (epistola 9, p. 195). Una successiva lettera di Simplicio ad Acacio riferisce della professione di pentimento che il Salofaciolo aveva inviato al papa. Ad Alessandria inoltre si nascondeva ancora Pietro Mongo, in quanto Zenone e Acacio non si erano dimostrati affatto solleciti nell’esaudire i voleri di Simplicio che ne chiedeva insistentemente l’esilio. Anche se ufficialmente i rapporti tra Roma e Costantinopoli si mostravano ancora buoni, le avvisaglie di un imminente contrasto cominciavano a manifestarsi in quanto si andava sempre più approfondendo la divergenza nell’atteggiamento delle due sedi nei confronti dei monofisiti.
Un ennesimo motivo di attrito tra Simplicio e Acacio fu la questione della successione episcopale ad Antiochia in seguito alla morte cruenta del vescovo Stefano, detto il Vecchio, assassinato sull’altare da un gruppo di monofisiti. Per la drammaticità del momento Acacio e Zenone, di comune accordo, elessero il vescovo Stefano, detto il Giovane, senza rispettare i canoni di Nicea, che prevedevano che l’elezione fosse eseguita dai vescovi della regione del candidato; in seguito scrissero a Simplicio per giustificare il loro operato in base alla gravità della situazione, ma questa violazione dei canoni doveva aver procurato il biasimo del papa. Anche per l’elezione del successore di Stefano il Giovane, Giovanni Calendione, si verificarono dei disguidi in quanto Simplicio, in una lettera ad Acacio, lamenta di essere stato informato dal sinodo e non dal patriarca stesso come l’uso avrebbe voluto (epistola 17, pp. 206-07).
Il contrasto esplose però apertamente in occasione della successione di Timoteo Salofaciolo: un sinodo di vescovi ortodossi aveva eletto, nel pieno rispetto dei canoni, Giovanni Talaia; mentre Simplicio, essendogli giunta la comunicazione del sinodo, stava per accordare la propria approvazione, ricevette una lettera di Zenone che accusava Giovanni di spergiuro proponendo al suo posto Pietro Mongo. Il motivo dell’opposizione di Zenone a Talaia, e quindi dell’accusa di spergiuro, era causato dal fatto che, quando il Talaia si era recato a Costantinopoli per conto del Salofaciolo onde preparare una successione favorevole all’ortodossia, Zenone, che già premeditava di insediare Pietro Mongo nella sede di Alessandria, gli aveva fatto giurare che mai avrebbe accettato o rivendicato per sé quella sede.
Simplicio scrisse ad Acacio e a Zenone per protestare, ma la lettera è perduta. Da questo momento Acacio interruppe le comunicazioni con Roma, tanto che Simplicio, il 10 marzo del 483, morì senza essere giunto a conoscenza della promulgazione dell’Henotikon, o editto di unione, con cui Zenone e Acacio, in accordo con Pietro Mongo, emanavano una formula di fede di indubbio compromesso; questa, anche se assumeva una posizione formalmente ortodossa, di fatto finiva per scontentare, per eccessiva genericità, entrambi i partiti.
Il Liber pontificalis fornisce molteplici informazioni sull’intensa attività edilizia di Simplicio (p. 249); egli fondò la basilica di S. Bibiana sull’Esquilino «iuxta palatium Licinianum», ponendola in relazione con la sepoltura della martire omonima di cui probabilmente dovette accogliere soltanto alcune reliquie. Il «palatium Licinianum», menzionato anche nella Passio di S. Bibiana, si trovava all’interno degli «horti Liciniani», di proprietà dell’imperatore Gallieno. A Simplicio risale anche la costruzione della chiesa di S. Stefano Rotondo sul Celio di cui è da sottolineare la planimetria dell’impianto, che associa la forma circolare a quella a croce, rinviando a modelli orientali, e il gusto classicheggiante della decorazione architettonica. Una seconda chiesa, preesistente e posta probabilmente presso l’angolo sud-orientale della basilica di S. Lorenzo fuori le Mura, fu dedicata da Simplicio a s. Stefano (Codice topografico…, p. 242 n. 3). Inoltre adibì ad uso ecclesiastico un edificio privato fatto costruire da Giunio Basso, il console del 331, e appartenente allora ad un certo Valila che probabilmente lo aveva lasciato in eredità alla Chiesa come risulta dall’iscrizione dedicatoria dell’abside (Inscriptiones Christianae urbis Romae septimo seculo…, n. 115, p. 436); tale costruzione, dedicata a s. Andrea, sorgeva nei dintorni di S. Maria Maggiore, ma fu demolita nel 1684. A S. Pietro in Vaticano il pontefice avviò la costruzione dei portici dell’atrio per offrire riparo dalla pioggia ai fedeli che si recavano al santuario come recita l’iscrizione originariamente collocata «in paradiso», cioè nell’atrio (Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, n. 4104); l’intervento di Simplicio è ricordato in un’altra iscrizione, oggi perduta, originariamente posta sull’architrave del portale principale della basilica (ibid., nr. 4103); l’opera venne completata da papa Simmaco. Simplicio organizzò il servizio delle basiliche fuori le mura (S. Paolo, S. Lorenzo e S. Pietro) destinandovi il clero delle parrocchie limitrofe in modo da assicurare l’amministrazione del battesimo e del sacramento della penitenza (battesimi e sepolture). Secondo la testimonianza di Giovanni Diacono, Simplicio sarebbe stato sepolto nel portico occidentale dell’atrio di S. Pietro, davanti la sacrestia, insieme ai papi Gelasio e Simmaco; in questo stesso luogo furono traslate, da Sergio I, le spoglie di Leone I. L’epitaffio di Simplicio, evidentemente ancora visibile nel IX secolo, è andato perduto.
La sua memoria liturgica, indicata dal Martyrologium Romanum al 2 marzo, dal 1971 viene celebrata il 10 marzo.
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