SERDINI, Simone
– Nacque a Siena, verosimilmente nel settimo decennio del XIV secolo, da Simone e da Caterina di Giovanni di Meo Barocci.
La documentazione disponibile non indica con sicurezza la data di nascita, che Guglielmo Volpi fissa al 1360 circa sulla base del fatto che Serdini ebbe un figlio, anch’egli chiamato Simone, nel 1383 (Volpi, 1890, p. 4). Tuttavia, il fatto che in un documento del 1400 Serdini stesso definisca alcuni atti compiuti nel biennio 1388-89 come commessi «sicut iuvenilis etatis moris» (Archivio di Stato di Siena, Concistoro, 1862, 2140, c. 105), inviterebbe ad abbassare di qualche anno la data di nascita, che rimane incerta.
Il nome è quasi sempre registrato nella forma Simon de Serdinis (così nell’unico documento autografo: Archivio di Stato di Siena, Concistoro, 1862, lettera 78); solo in alcune stampe del Cinquecento è corrotto in Sardini (The British Library catalogue..., 1987, p. 175). Probabilmente il patronimico deriva dal nome di ser Dino, notaio senese da cui discese la famiglia del poeta (Volpi, 1890, p. 3). Dal padre di questo ser Dino, Forestano, prende origine la tradizione di riferirsi a Serdini come Simone Forestani, prevalente nell’Ottocento, ma di origine cinquecentesca (prima attestazione in Cittadini, 1628, p. 293). La forma Simon de Saviotiis, attestata nel codice Isoldiano (Bologna, Biblioteca universitaria, Mss., 1739, cc. 41r, 45r, 53v), è dovuta a una contaminazione con il soprannome del poeta, Saviozzo. Tale soprannome, diffuso sin dai primi codici delle rime di Serdini, divenne presto tradizionale (così Serdini è nominato nella Fantastica visione di Gambino d’Arezzo, V, 21) e, talvolta, impiegato al posto del nome proprio del poeta. L’appellativo «maestro», che talvolta precede il nome, non sembra da intendersi in senso tecnico, ma come attestato di stima per la cultura del poeta analogo al soprannome.
Della famiglia, probabilmente risiedente nel popolo di S. Pietro a Ovile nel Terzo di Camollia, si hanno poche notizie (Volpi, 1890, p. 4). Oltre al notaio ser Dino, altri membri di entrambi i rami discendenti da Forestano sono attestati in vari documenti come attivi partecipanti al governo della città. Il padre sembra essere stato membro del consiglio dei Dodici per i mesi di luglio e agosto 1363 (ibid., p. 3).
Nel 1388 Serdini venne condannato dal podestà di Siena Filippo Sciarra da Pisa al pagamento di duecento lire per aver picchiato con un bastone Giovanni Ghezzi; nel dicembre dell’anno successivo il podestà Ludovico de’ Malcondini da Pisa lo condannò al pagamento di una multa di millequattrocento lire al camerlengo di Biccherna del Comune di Siena per aver accoltellato durante una rissa Nanni Spannocchi, figlio di Ambrogio di ser Mino (Archivio di Stato di Siena, Concistoro, 1862, 2140, c. 105). Lo stesso Serdini riferì a questi due eventi l’esilio da Siena, che dovette essere comminato entro il 1390 circa.
La vita di Serdini da esule si può ricostruire in gran parte sulla base degli argomenti e dei dedicatari delle rime scritte in questo periodo. Pur continuando a tradire legami con la cultura senese (nel 1390 compose il lamento III in morte del condottiero dei senesi Giovanni d’Azzo degli Ubaldini), dai tardi anni Ottanta del XIV secolo dovette entrare in contatto con le Signorie dell’Italia del Nord, dapprima gli Este (del 1388 è il lamento LXII per la morte di Niccolò II d’Este), poi i Gonzaga (ai primi anni Novanta, probabilmente al 1392, risale il sonetto XXXI, dedicato a Francesco I Gonzaga). Decisiva per seguire gli spostamenti di Serdini nel primo periodo da esule è una lettera di Coluccio Salutati del 15 agosto 1392 in cui si dà notizia della presenza del poeta («magister Simon»), appellato come «frater meus dilectus», a Imola, presso Ludovico Alidosi (Salutati, 1911, II, p. 383). Nei primi anni dell’esilio Serdini si mosse dunque nell’ambito di centri di potere ostili ai Visconti. A Imola, dovette entrare nel cenacolo intellettuale, contiguo a quello fiorentino di Salutati, raccoltosi intorno a Ludovico Alidosi, del quale è probabile fosse precettore (ibid., III, p. 598) e al quale dedicò le rime XXXI e XXXIV.
Il soggiorno imolese s’interruppe prima del 1396, anno in cui Serdini fu sicuramente alla corte del conte Roberto Novello da Poppi dei conti Guidi del Casentino, molto probabilmente come oratore. A Roberto indirizzò le rime VII e XII.
La XII, datata al 1396, è una canzone scritta «a recommendazione» del conte «a Firenze» (Rime, a cura di E. Pasquini, 1965, p. 37) e documenta come Serdini si applicasse, in qualità di uomo di lettere, per favorire la rappacificazione di questi con i fiorentini. La VII, di datazione più incerta, è una richiesta di perdono indirizzata al conte per «un certo errore» (Rime, cit., p. 20), affinché lo facesse uscire di prigione.
La didascalia premessa alla canzone XIV (nel codice Berlino, Staatsbibliothek, Hamilton 500) informa che Serdini si spostò dal Casentino a Firenze, dove strinse un forte legame con il condottiero Gian Colonna, capitano al servizio della Repubblica fiorentina nel biennio 1397-98 in occasione degli scontri con i Visconti. A questa prima fase del rapporto con Colonna risale la canzone IX. È probabile che Serdini fosse in quegli anni a Firenze, dove ebbe modo di consolidare un legame con la cultura cittadina attivo da anni, come si evince dalla raccomandazione di Salutati del 1392. In particolare, fu in contatto con Palla degli Strozzi e Giovanni di Niccolò Soderini, cui dedicò rispettivamente le canzoni X e XI, che descrivono le vicende amorose dei due fiorentini.
La canzone dedicata a Soderini, in particolare, narra dell’amore di questo per una «nobile giovane donna detta Cosa» (Rime, cit., p. 34) che, secondo Alessandro Wesselofsky (in Giovanni da Prato, Il Paradiso degli Alberti..., 1867, I, p. 67), potrebbe essere la «venerabile e giovane donna di grande intelletto e di costumi molto gentile il cui nome Cosa sì era» della brigata del Paradiso degli Alberti (III, p. 27). Proprio il cenacolo descritto nel Paradiso fu il contesto culturale di riferimento di Serdini in questo periodo, probabilmente per il tramite dell’amico Salutati. A questo periodo è riconducibile la coppia di sonetti dedicati a una giovane fiorentina (XLIV e XLV), ma si potrebbe anche ipotizzare che il ciclo di rime sulla Fortuna (XXXVI, XXXVII, XXXVIII e XXXIX) rifletta l’influsso degli ambienti che Serdini frequentò a Firenze, dove in quegli stessi anni Salutati avviava la stesura del De fato et fortuna.
Nell’agosto del 1400 Serdini avanzò una petizione al Comune di Siena, chiedendo di potersi avvalere dell’amnistia concessa quello stesso anno a tutti i cittadini banditi (Malavolti, 1599, parte II, p. 190), nonostante la lontananza dalla città non gli avesse permesso di rispettare i termini legali per farlo, e che gli atti relativi ai crimini commessi venissero cancellati dai registri dei notai di Biccherna; a tal fine ottenne il perdono ufficiale, depositato presso il notaio ser Salerno di Giannino senese, delle vittime delle aggressioni del 1388-89 (Archivio di Stato di Siena, Concistoro, 1862, 2140, c. 105). Il Comune accolse positivamente la petizione il 17 agosto 1400 (Consiglio generale, 199, c. 126), imponendogli di pagare le due gabelle di millequattrocento lire (per l’aggressione a Nanni Spannocchi) e di duecento lire (per l’aggressione a Giovanni Ghezzi) a suo tempo comminategli. Il pagamento fu effettuato il 18 agosto dinanzi al camerlengo di Biccherna Giacomo di Niccolò di Naddo (Concistoro, 2172, inserto 455). Serdini rientrò così a Siena nell’agosto del 1400: a questa congiuntura può essere ricondotto il capitolo XXVII, composto «essendo a Siena durissima pestilenza» e risolto in un’invocazione alla Vergine affinché salvasse la città non solo dall’epidemia, ma anche dalle divisioni politiche interne, riducendo «la Republica a meglior concordia» (Rime, cit., p. 168). Nel 1401, a Siena, divenne priore del Terzo di Camollia per il bimestre luglio-agosto (Volpi, 1890, p. 12).
Il ritorno a Siena, appena sottomessasi a Gian Galeazzo Visconti, coincise con l’avvicinamento di Serdini all’orbita viscontea. Nel 1402 indirizzò al duca di Milano la canzone XIX, in cui celebrò la vittoria alla battaglia di Casalecchio del 26 giugno salutando Gian Galeazzo come nuovo signore d’Italia, capace di unificarla e riportarla alla grandezza della Roma antica. Nel settembre dello stesso anno, poi, compose il lamento LXIX in morte del duca di Milano. Tra gli alleati dei Visconti, Serdini strinse un particolare legame con i Malatesta.
Dedicò rime, oltre che a Pandolfo (il capitolo amoroso XXIV), anche a Malatesta da Cesena (la canzone I), Malatesta Malatesta (il sonetto XXIX e il madrigale LXXIX); celebrò inoltre Malatesta di Pandolfo Malatesta, signore di Pesaro (canzone V); inviò una richiesta di perdono per un non meglio precisato delitto a Carlo Malatesta (sonetto XXXII); entrò in corrispondenza poetica con gli stessi Pandolfo e Malatesta con una serie di tre sonetti, nel primo dei quali (LVIa) Pandolfo si dichiara innamorato, ottenendo una risposta per le rime sia da Malatesta (LVIb), che lo invita a non cedere alla passione amorosa, sia da Serdini (LVIc), che invece lo esorta a seguire il proprio amore. A questo periodo possono essere fatti risalire anche i tre sonetti che Serdini dedicò alla donna di un giovane gentiluomo riminese (XLVI, XLVII e XLVIII).
Secondo la didascalia che nei manoscritti (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Conventi, 122; Siena, Biblioteca comunale, Mss., I.IX.18) accompagna il sonetto XLVI, l’avvicinamento ai Malatesta coincise con uno spostamento da Siena a Rimini, dove Serdini trascorse i primi anni del XV secolo. Il dato è confermato da Benedetto da Cesena, che lo annovera tra i poeti della corte malatestiana (De honore mulierum, c. 96). La didascalia che nel codice Berlino, Staatsbibliothek, Hamilton 500 precede la canzone I, invece, informa che Serdini fu a Bologna nel settembre del 1403, in occasione dell’ingresso in città di Carlo Malatesta; Volpi ritiene che vi si trovasse sin dal 1402, quando Pandolfo ne divenne governatore per conto di Gian Galeazzo Visconti (Volpi, 1890, p. 14).
In ogni caso, Serdini fu, tramite i Malatesta, nell’orbita della lega antiviscontea promossa dal papa e da Firenze dopo la morte di Gian Galeazzo, nell’ambito della quale, almeno a partire dal 1403, fu vicino, oltre che a Pandolfo Malatesta, a Gian Colonna, allora entrambi al soldo dei fiorentini.
A parte la canzone XIV, che celebra l’innamoramento di Colonna per una giovane pisana, tutte le rime indirizzate in questo periodo al condottiero sono riconducibili alla realizzazione di un codice dantesco, commissionatogli da Colonna e databile al 1404 (Pasquini, 1976). Il codice è ricostruibile grazie alle rime d’accompagnamento scritte da Serdini in quell’occasione. Il capitolo XXVI, composto «a stanza del generoso principe Janni Colonna» (Rime, cit., p. 99), è una sorta di accessus alla Commedia in versi; il congedo della canzone XIII informa che Serdini copiò e commentò il poema per Colonna (vv. 121-122); il sonetto XC è una breve celebrazione della gloria poetica di Dante che ne presenta schematicamente la vita e le qualità, rinviando, per maggiori dettagli sull’esilio dantesco, a un altro testo (v. 14) che, a norma dell’ultima terzina, non può che essere il Trattatello di Boccaccio (vv. 15-17). Assai probabile che il sonetto accompagnasse una copia della boccacciana biografia di Dante, come del resto confermato dalla didascalia che in alcuni manoscritti accompagna il testo: «Lo infrascritto sonetto feci io, Simone de’ Serdini da Siena, a laude del poeta Dante e di messer Giovan Boccacci, che nella sopradetta prosa dice di lui appieno» (Rime, cit., p. 235). Pasquini (1976) sostiene che entrambe le rime siano parte di uno stesso manoscritto contenente, oltre ai testi di accompagnamento serdiniani e alla trascrizione della Commedia e del Trattatello, anche la Vita nova e le quindici canzoni distese (il che lo renderebbe omologo ai manoscritti danteschi dello stesso Boccaccio: il Toledano 104.6 e il codice ora smembrato nei Chigiani L.V.176 e L.VI.213).
Al 1404 è da ricondurre anche la canzone XVI, composta per l’elezione di Innocenzo VII al soglio pontificio (17 ottobre), la quale, tuttavia, mal si concilia con la rete di relazioni intrattenuta da Serdini in quegli anni, comprendente, accanto a Gian Colonna, anche altri esponenti della fazione vicina, piuttosto che al nuovo papa, a Ladislao d’Angiò-Durazzo, entro la quale svolse compiti diplomatici e latamente cortigiani. In lode della sorella di Ladislao, Giovanna II d’Angiò-Durazzo, scrisse il sonetto XLIII, mentre per celebrare l’unione di Ladislao con Maria d’Enghien (23 aprile 1407) indirizzò una lettera ai cancellieri del re di Napoli (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Conventi, 122, cc. 57r-58r).
In questa fase, Serdini fu particolarmente vicino ad Angelo Broglio, detto Tartaglia da Lavello, del quale fu oratore, secondo quanto testimoniano lo stesso figlio di Angelo, Gaspare, nella sua Cronaca universale (Cronaca malatestiana..., a cura di A.G. Luciani, 1982, pp. 33, 35) e Gambino d’Arezzo (Versi, a cura di O. Gamurrini, 1878, p. 128). Tale attività diplomatica è documentata dalla lettera inviata alla Signoria di Siena da Perugia il 5 gennaio 1405 per chiedere un salvacondotto in occasione di un viaggio per conto di un non meglio precisato «mio Capitano», che è ragionevole supporre fosse Tartaglia da Lavello (Archivio di Stato di Siena, Concistoro, 1862, lettera 78). In essa, Serdini informava anche la Signoria di essere a conoscenza di «alcune cose che s’io non conferisco con voi e voi non le sapeste potreste incorrere a grandissimo inconveniente», a testimonianza di come continuasse a mantenere legami anche con la città natale, al cui servizio fu lo stesso Tartaglia da Lavello nel 1407.
Serdini rimase, comunque, legato pure a Gian Colonna, in persona del quale scrisse la canzone XV, in cui dette voce al lamento di questo per non essere stato ben remunerato da Ladislao probabilmente quando, occupata Roma nell’aprile del 1408, il re non garantì ai Colonna, suoi alleati nell’impresa, la possibilità di rientrare in città.
La canzone XVII celebra, invece, la nomina, da parte di Ladislao, di Guidantonio di Montefeltro a gran conestabile dopo la morte di Alberico da Barbiano (26 aprile 1409). Di un legame con Guidantonio testimonierebbe anche la didascalia che, in numerosi manoscritti, precede la canzone XXI, generalmente ricondotta all’esilio da Siena del 1389, ma introdotta, in un ramo della tradizione delle rime serdiniane, da una didascalia che la riferisce all’incarceramento di Serdini allorquando era «cancelliero del conte di Urbino» (Rime, cit., p. 68). Nell’impossibilità di stabilire a quale dei due eventi la canzone faccia riferimento, bisogna concludere che l’ultimo documento databile su Serdini è la canzone XVII, del 1409 (anno in cui il re di Napoli rivolse le proprie mire espansionistiche alla Toscana, inclusa Siena).
Tutte le testimonianze quattrocentesche sulla morte di Serdini concordano su alcuni punti: venne incarcerato per un grave torto nei confronti del proprio signore e si suicidò in prigione. La didascalia che collega la canzone XXI all’incarceramento informa che il poeta, «in presone», «con uno coltello miseramente si uccise», collocandone la morte nel 1409 circa (ibid.). Tradizionalmente, però, si ritiene che Serdini, incarcerato a Tuscania da Tartaglia da Lavello, si sia suicidato nel 1419/1420 (Volpi, 1890, p. 17). La ricostruzione è basata sulla testimonianza poetica di Gambino d’Arezzo, che Volpi riferisce a una tradizione orale circa la fine di Serdini e colloca in quel biennio sulla base del fatto che Tartaglia prese Tuscania nel 1419 e morì nel 1420 (ma la data sarebbe da spostare al 1421, dal momento che ora sappiamo che solo l’8 settembre di quell’anno Martino V nominò Broglio conte ereditario e gli concesse il territorio di Tuscania). Anche volendo condiscendere con gli argomenti addotti da Volpi, non è necessario ipotizzare che Serdini non lasciasse traccia di sé per oltre un decennio, dal momento che Tartaglia da Lavello fu padrone di Tuscania sin dal 1408 e, dunque, l’incarceramento e la morte di Serdini sarebbero potuti avvenire anche entro il secondo decennio del XV secolo.
Opere. L’attività per cui Serdini è principalmente noto è quella di rimatore e la sua importanza si misura nell’essere uno dei meglio documentati tra quelli attivi tra XIV e XV secolo (centootto componimenti, trasmessi da duecentouno manoscritti). La maggior parte di queste rime s’inquadra nel contesto dell’attività di cortigiano svolta a seguito dell’esilio da Siena: si tratta di rime di occasione, spesso suscitate da concrete circostanze storico-politiche o, comunque, indirizzate ai signori con cui fu in contatto. La cifra di questa produzione si definisce nella personale rielaborazione del modello dantesco, svolgendosi all’insegna di un canone che (escluso Petrarca) assume a riferimento, oltre a Dante, Boccaccio (soprattutto quello elegiaco e in versi).
Serdini sperimentò gran parte delle forme metriche (il corpus comprende canzoni, capitoli in terza rima, serventesi, madrigali, sonetti) e dei generi poetici del periodo (scrisse, infatti, rime amorose, politiche, morali, gnomiche, religiose). Tuttavia, il suo contributo al rinnovamento poetico tra XIV e XV secolo si misura nella definizione di due generi in particolare: la disperata, cui Serdini diede la fisionomia violenta che il genere ebbe tra XV e XVI secolo (Flamini, 1891, 1977, pp. 532 s.), e il serventese elegiaco-amoroso in capitolo quadernario con protagonista femminile, che inaugura il genere delle elegie al femminile in volgare, diffusissimo nel XV secolo. Non a caso, a questi due generi sono riconducibili le rime serdiniane più fortunate, sia dal punto di vista dell’imitazione (il serventese LXXIV fu tradotto in latino da Filippo Piatesi nell’elegia Alda), sia da quello della tradizione a stampa (il capitolo LXXVII godette di larga fortuna alla spicciolata nel XVI secolo, mentre il serventese LXXIV veniva, ancora nel XIX secolo, stampato a sé, come novella in versi).
L’edizione moderna di riferimento è quella delle Rime, edizione critica a cura di Emilio Pasquini, Bologna 1965.
Fonti e Bibl.: Berlino, Staatsbibliothek, Hamilton, 500; Bologna, Biblioteca universitaria, Mss., 1739; Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Conventi, 122; Archivio di Stato di Siena, Concistoro, 1862, lettera 78, 2140, 2172; Consiglio generale, 199; Siena, Biblioteca comunale, Mss., I. X.18; Giovanni da Prato, Il Paradiso degli Alberti. Ritrovi e ragionamenti del 1389. Romanzo di Giovanni da Prato dal codice autografo e anonimo della Riccardiana, a cura di A. Wesselofsky, I-III, Bologna 1867 (rist. anast., 1968); Gambino d’Arezzo, Versi di Gambino d’Arezzo, a cura di O. Gamurrini, Bologna 1878; C. Salutati, Epistolario, a cura di F. Novati, Roma 1911; G. Broglio Tartaglia, Cronaca malatestiana del sec. XV (dalla Cronaca Universale), a cura di A.G. Luciani, Rimini 1982.
O. Malavolti, Historia del sig. Orlando Malauolti, De’ fatti, e guerre de Sanesi, cosi esterne, come ciuili. Seguite dall’origine della lor città, fino all’anno 1555..., Venetia 1599; C. Cittadini, Le origini della toscana favella, Siena 1628; G. Volpi, La vita e le rime di S. S. detto il Saviozzo, in Giornale storico della letteratura italiana, 1890, vol. 15, pp. 1-43; F. Flamini, La lirica toscana del Rinascimento anteriore ai tempi del Magnifico, Pisa 1891 (rist. anast. a cura di G. Gorni, Firenze 1977); A.A. Strnad, Broglio, Angelo, in Dizionario biografico degli Italiani, XIV, Roma 1972, pp. 437-439; E. Pasquini, Saviozzo e la poesia cortigiana nel Quattrocento, in Dizionario critico della letteratura italiana, a cura di V. Branca, Torino 1973, pp. 317-323; Id., S. S. detto il Saviozzo, in Enciclopedia dantesca, V, Roma 1976, pp. 181 s.; P. Partner, Colonna, Gian, in Dizionario biografico degli Italiani, XXVII, Roma 1982, pp. 339-342; The British Library catalogue of printed books to 1975, London 1987, s.v.; D.E. Rhodes, Le antiche edizioni a stampa delle poesie di S. S., in La Bibliofilia, 1998, vol. 100, pp. 253-266; Id. - A. Tura, Aggiunte agli annali delle edizioni a stampa di S. S., ibid., 2001, vol. 103, pp. 63-65; I. Pantani, «La fonte d’ogni eloquenzia». Il Canzoniere petrarchesco nella cultura poetica del Quattrocento ferrarese, Roma 2002, pp. 84-93.