LUZZATTO, Simone (Simchah Ben Itzaq)
Nacque da Itzaq, presumibilmente intorno al 1580, a Venezia, dove visse per tutta la vita. Il nome Luzzatto, o Luzzatti, deriva dal toponimico "Lausitz" (in latino Lusatia), provincia tedesca del Brandeburgo, da dove la famiglia era emigrata nel secolo XVI.
Il L. trascorse il periodo dell'infanzia e dell'adolescenza ricevendo un'educazione di buon livello da maestri privati, grazie alle disponibilità economiche della famiglia. Durante gli anni della formazione, oltre agli studi ebraici, si dedicò alla letteratura greca e latina e alle materie scientifiche, nonché all'approfondimento di altre numerose discipline, come si evince da alcune sue lettere scritte fra il 1604 e il 1622 al maestro Ya'aqov Hailpron (Y. Hailpron, Nachalath Ya'aqov, Padova 1623, pp. 37r, 38v, 41v, 42r, 43).
La prima firma per una decisione di carattere rituale risale al 1606, in seguito al lungo responso intitolato Mish'an Mayìm, scritto intorno alla questione del bagno rituale di Rovigo (Fulcrum aquae Resp. seu dissertatio de balneo adiecta expositione loci Mishnae, conservato manoscritto e segnalato da Steinschneider). Il L. svolse la mansione di rabbino per cinquantasette anni insieme con l'insegnamento. A differenza del contemporaneo Leone Modena, egli visse in una condizione economica di relativa ricchezza che gli permise di svolgere in tutta tranquillità il proprio lavoro. In seguito alla morte del Modena (1648) divenne presidente dell'assemblea dei rabbini di Venezia, carica mantenuta fino alla morte, e fu anche traduttore ufficiale dall'ebraico per le autorità della Repubblica fino al 1662.
La sua attività di rabbino fu rinomata per l'impegno su fronti diversi. Il L. ebbe particolarmente a cuore il sostegno delle comunità più indigenti e dei poveri, ricevendo nel 1618 dai dirigenti della comunità ebraica di Padova la nomina di responsabile della raccolta di denaro da inviare in beneficenza a Gerusalemme e a Salonicco (1661). Nota è anche la cura che ebbe per il riscatto di prigionieri ebrei, catturati per essere venduti come schiavi. Similmente al Modena, il L. si adoperò per favorire l'accettazione della comunità ebraica all'interno della società veneziana del tempo, intessendo rapporti con le autorità locali e impegnandosi assiduamente contro intolleranze e pregiudizi, attraverso la promozione della comunicazione e del dialogo con l'esterno. In tal senso vanno letti i suoi rapporti con allievi non ebrei e la lotta che condusse per ottenere un responso favorevole circa la questione dell'andare in gondola il giorno del sabato, il quale però, portato di fronte al Va'ad Katan (Consiglio minore), non fu accettato (edito da Lampronti nella sua enciclopedia Pachad().
Il L. fu rinomato anche come insegnante: in una poesia del Modena egli è citato in qualità di direttore della scuola ashkenazita, della quale fu probabilmente uno dei fondatori, nel 1631.
Nel 1638 fu pubblicato a Venezia il suo Discorso circa il stato de gl'hebrei, et in particolar dimoranti nell'inclita citta di Venetia, utilizzato da vari autori fino al XVIII secolo per sostenere l'argomento della tolleranza nei confronti della nazione giudaica (notorio l'uso diretto che ne fece il filosofo di origine irlandese J. Toland, esponente di spicco dell'illuminismo radicale, nel suo Naturalization of the Jews in Great Britain and Ireland del 1714). È assai probabile che il Discorso non sia stato il primo libro pubblicato dal L., poiché nell'opera stessa è citato un Trattato dell'opinioni e dogmi de gl'hebrei dall'universal non dissonanti e de riti loro più principali, del quale non si hanno più notizie e che, secondo una cronaca ebraica anonima, potrebbe corrispondere al "libro in italiano e bello stile" accolto dai ministri veneziani (Sippur ha-tzarot she-'avru be-Italiah, Storia delle disgrazie accadute agli ebrei in Italia). La cronaca, redatta fra il 1637 e il 1663, è stata pubblicata a cura di M.A. Shulvass in Hebrew Union College Annual, XXII (1949), pp. 1-20.
Il Discorso va interpretato come un chiaro tentativo apologetico nei confronti della comunità ebraica, in risposta alla paventata decisione da parte delle autorità veneziane di espellere gli ebrei dalla città a causa del coinvolgimento di alcuni di loro in un caso di furto e corruzione. Il testo è composto di diciotto "considerazioni", che possono essere divise in due parti principali: la prima riguardante il consistente contributo ebraico alla vita economica della città, soprattutto dal punto di vista commerciale (1-10); la seconda dedicata alla cultura e alla religione (14-18). Particolare attenzione merita la Quindicesima considerazione e l'utilizzazione ambivalente fatta dal L. del pensiero di Cornelio Tacito. Se, infatti, per difendere la comunità ebraica, egli critica la convinzione dello storico latino che i Giudei nutrissero "ostile odio verso tutti gli altri" (Historiae, V, 5), al contempo si serve di Tacito per introdurre in modo implicito il pensiero machiavellico della "ragion di Stato" e l'idea che la religione sia in definitiva un mezzo necessario ai governanti per mantenere l'ordine politico. Memore dei problemi incontrati da Leone Modena con le censure poste dall'autorità veneziana, il L. non si slancia mai esplicitamente contro le pagine dell'antigiudaismo cristiano a lui contemporaneo (che peraltro si scatenò nelle parole polemiche di Melchiorre Palontrotti, autore della Breve risposta a S. Luzatto ebreo, Roma 1641) o a favore delle invise teorie di N. Machiavelli.
Il medesimo atteggiamento dissimulatorio emerge anche nell'altra opera fondamentale del L., il Socrate overo Dell'humano sapere (Venezia 1651).
Dedicato al doge Francesco Molin e al Senato veneziano, il Socrate narra del processo intentato dai membri dell'Accademia di Delfi al filosofo greco, accusato di avere voluto distruggere l'impianto del sapere umano. Socrate si difende con una lunga arringa affermando che non esiste la possibilità di fondare la conoscenza in modo certo su alcun argomento. L'opera si conclude con un compromesso proposto da Platone, il quale chiede ai giurati di astenersi da ogni sentenza definitiva.
Nonostante il sottotitolo inserito in copertina - "opera nella quale si dimostra quanto sia imbecille l'humano intendimento, mentre non è diretto dalla divina rivelatione" -, il L. non affronta mai il tema della rivelazione divina, come ha acutamente messo in luce A. Viterbo (1999, p. 127), definendo il Socrate una "confessione mascherata". Il L., consapevole che la tematica avrebbe suscitato polemiche in campo sia ebraico sia cristiano, utilizza una serie di espedienti volti a dissimulare un'interpretazione gnoseologica collocabile nell'alveo dello scetticismo seicentesco, caratterizzato dalla tendenza a dubitare di criteri certi per la definizione o risoluzione dei problemi, dal rinnovato interesse per gli scritti degli scettici classici e dalla lettura critica del testo biblico iniziata soprattutto in campo protestante.
Il Socrate dà anche nota della vasta e composita cultura generale del personaggio, acquisita soprattutto da autodidatta in moltissimi campi, dalla filosofia greca alla letteratura classica e medievale, all'astronomia, la zoologia, la matematica, la medicina, la geografia, la mitologia e la fisica. L'opera assume il valore di un testamento, una biografia culturale dell'autore e una testimonianza del proprio percorso intellettuale che, se rivelato apertamente, avrebbe portato a frizioni e contrasti all'interno dell'ambiente in cui egli viveva e a problemi con l'attività rabbinica.
Vissuto in un'epoca di scoperte, cambiamenti, novità, il L. rappresenta (al pari dei suoi contemporanei Leone Modena e Samuele Aboab) la punta estrema di una nuova mentalità nata all'interno della società ebraica italiana la quale riconosceva validità anche al sapere scientifico, separandolo dalla sfera del sacro. Perciò il Socrate può essere letto anche come uno strumento di propaganda finalizzata a dimostrare l'affidabilità degli ebrei in campo culturale, interpretando il sapere scientifico come espressione della bontà divina e non più come una minaccia alle credenze religiose.
L'apertura mentale e culturale dimostrata dal L. potrebbe essere la chiave di interpretazione del controverso episodio narrato da Giulio Morosini, allievo del L. convertitosi al cristianesimo, il cui nome ebraico era S. Nachmias. Nel suo La via della fede (Roma 1683), riportò alcune parole del L. a favore del cristianesimo, proferite durante l'arbitraggio di una disputa fra due fratelli di origine spagnola, uno dei quali si era convertito alla fede cristiana, sull'interpretazione da dare alla profezia delle settanta settimane di Daniele (Daniele 9, 24-27). La testimonianza, seppure tarda e riportata da un ebreo converso, fu confermata anche dal francescano L. Benetelli (I dardi rabbinici infranti, Venezia 1705), il quale narra che i rabbini veneziani non permisero ai cristiani di avvicinarsi al letto di morte del L. per il timore che egli si convertisse in extremis. Non vi sono altre fonti che confermino questa tendenza "evangelica" del personaggio.
Il L. morì il 6 genn. 1663 a Venezia e fu sepolto nel cimitero ebraico del Lido.
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