DEL POZZO, Simone
Nacque nella prima metà del sec. XIV da famiglia messinese, ma abitante a Castroreale. Entrato a Messina nell'Ordine dei frati predicatori, passò in seguito nel convento domenicano di Palermo. Si trasferì poi a Napoli, dove fu lettore di Sentenze in S. Domenico e godette il favore della regina Giovanna 1 e di Ruggero Sanseverino. Nominato dal capitolo generale lettore a Parigi, non vi si poté recare perché gravemente malato e ottenne dal papa Urbano V, il 16 dic. 1362, di potere invece leggere le Sentenze in Provenza. Ad Avignone, dove si recò al seguito del conte di Mileto, fu esaminato dal maestro generale e nel maggio 1363 venne assegnato per la lettura delle Sentenze a Parigi, dove conseguì il magisterium verso il 1364. Nel settembre 1365 era di nuovo a Napoli, dove teneva l'insegnamento di teologia in S. Domenico.
In tale veste fu uno dei tre esaminatori del confratello Domenico da Parma per l'ammissione al magisterium in quel convento, e fu coinvolto nell'incidente che ne seguì, provocato dall'arcivescovo Pierre Ameilh, il quale ritenne che la bolla di concessione pontificia esibita dal frate fosse un falso. L'arcivescovo ne proibì quindi l'insegnamento nel convento napoletano, che era già stato accordato dal D. e dagli altri due esaminatori, e il 29 settembre ordinò al provinciale, al priore domenicano e allo stesso D. di provvedere all'arresto di Domenico da Parma e al suo invio sotto scorta alla Curia avignonese. Il 2 ottobre il D. era a Torre del Greco per comunicare all'arcivescovo di Napoli i primi risultati dell'indagine svolta sulla provenienza della falsa bolla pontificia.
Tornato in Sicilia, dove divenne cappellano e consigliere del re Federico III (IV) d'Aragona, verso il 1369 fu nominato inquisitore dal pontefice Urbano V per combattere l'eresia nell'isola; fu poi confermato da Gregorio XI.
Il D. ebbe anche il compito specifico di impedire che le sinagoghe ebraiche superassero il numero consentito. Inquisì tra gli altri fra' Nicolò da Agrigento, ex provinciale dei frati minori. A Palermo, il 14 marzo 1372, domenica di Passione, il D. ebbe con lui un vivace diverbio teologico, interrompendone la predica nel convento di S. Francesco alla presenza dell'arcivescovo. La disputa si ripeté, con reciproche accuse di eresia, la successiva domenica delle Palme, quando fra' Nicolò interruppe a sua volta il D. che predicava in S. Domenico. A calmare temporaneamente gli animi fu necessario l'intervento pacificatore di Giovanni Chiaramonte, quale dominus cittadino. Ma a Nicolò da Agrigento giunse intanto notizia che il D., come inquisitore, aveva iniziato segretamente un processo contro di lui. Fece allora professione di ortodossia e ricusò l'inquisitore e lo stesso procedimento, appellandosi alla Sede apostolica e accusando di complotto un suo avversario nell'Ordine francescano, fra' Ubertino da Corleone (futuro vescovo di Patti e Lipari e poi di Gaeta). Il 6 sett. 1373 il D. non negò i fatti, ma respinse la ricusazione, richiamando sia il proprio obbligo come inquisitore di ricevere ed esaminare sotto pena di scomunica qualsiasi denuncia di eresia gli pervenisse, sia la propria volontà di procedere comunque sempre d'accordo con l'arcivescovo di Palermo.
Il 20 dic. 1373 il re Federico III (IV) ordinò ai propri sudditi siciliani di collaborare col D. e con gli officiali dell'Inquisizione, ai quali consentì di portare armi e di andare a cavallo, e autorizzò l'uso della tortura contro gli inquisiti. Ricordando con orgoglio la sua passata attività come inquisitore nel Regno siciliano, lo stesso D. dichiarerà più tardi di avere consegnato molti eretici al braccio secolare perché fossero bruciati sul rogo.
A seguito del riconoscimento ufficiale da parte pontificia del Regno di Trinacria, per effetto dei trattato concluso nel 1372, la Sicilia costituì una nuova provincia domenicana e il D. ne fu il primo vicario generale nominato dal capitolo tenuto nel 1378 a Carcassonne e, per breve tempo, probabilmente anche il primo ministro provinciale. Il 17 dic. 1378 Urbano VI lo nominò vescovo di Catania, sede resasi vacante per la deposizione dei vescovo Elia, il quale, risiedendo alla Curia pontificia con funzioni di vicetesoriere, aveva aderito con la grande maggioranza dei curiali allo scisma di Clemente VII. La sostituzione poté avere effetto per il consenso del dominus cittadino, il vicario del regno Artale d'Alagona. Il D. venne anche nominato da Urbano VI, o forse già da Gregorio XI, collettore generale della Camera apostolica per il Regno siciliano. Tali funzioni gli vennero poi confermate da Bonifacio IX il 10 nov. 1389.
Dai pochi documenti rimasti, rendiconti presentati dai succollettori incaricati delle riscossioni (spesso frati domenicani) e quietanze rilasciate loro, abbiamo frammentaria notizia sulla natura ed entità degli introiti percepiti dal D. in Sicilia e qualche maggiore dato su modalità, difficoltà e spese di riscossione. Alla morosità e alla inadempienza di alcuni debitori si aggiungeva l'infedeltà di chi era addetto alle riscossioni. Attraverso l'opera del D. la Sicilia contribuì comunque concretamente alle finanze di Urbano VI e poi di Bonifacio IX, entrambi in gravi difficoltà economiche a causa dello scisma. Alcuni ordini pontifici di pagamento rivolti al D. dimostrano come le entrate siciliane fossero impegnate anticipatamente dalla Camera apostolica, ma non sempre i pagamenti, spesso a favore di banchieri, poterono essere effettuati prontamente dal collettore.
Come vescovo di Catania, il D. operò in connessione e in appoggio agli Alagona, signori della città e delle terre circostanti. Al vicario Artale il D. rinnovò la concessione del castello di Aci. Una serie di altri atti a favore di officiali e familiari alagonesi è documentata per il periodo successivo al 1387. Attivo ed energico sembra essere stato anche il suo impegno religioso. Un sinodo da lui riunito stabilì tra l'altro che i sacerdoti beneficiari di altari funerari fossero tenuti a celebrarvi, o farvi celebrare, una messa la settimana, se l'altare era dotato di un reddito di 6 fiorini l'anno, o un numero maggiore o minore di messe in proporzione al reddito. In applicazione della norma sinodale, che interessava gran parte del clero, per il gran numero di altari de requie, nel dicembre 1389 privò del beneficio il prete Stefano di Ravello, il quale da lungo tempo trascurava completamente la celebrazione dell'ufficio divino. Un altro intervento noto del D. fu contro la pratica diffusa nel clero di recare per via l'eucarestia nelle case private senza accompagnamento di ceri accesi e senza il suono della campanella. Contro tale irriverente amministrazione del sacramento minacciò nell'aprile 1390 l'applicazione delle sanzioni canoniche. Ai medici della sua diocesi ordinò insistentemente e ripetutamente di esortare i malati, secondo la gravità della malattia, a confessarsi e ricevere i sacramenti, prima di somministrare le medicine e sottoporli alle cure, disposizione che, nonostante la scomunica, continuava ad essere trascurata dai medici catanesi. Nel 1381-82 e nel 1391 sono anche testimoniati suoi interventi nelle controversie che dividevano i domenicani della provincia siciliana.
Il D. si oppose energicamente all'occupazione del Regno di Sicilia da parte dell'infante d'Aragona Martino il Vecchio duca di Montblanch: alla vigilia dello sbarco aragonese tenne una violenta predica nella chiesa catanese di S. Domenico, il 7 marzo 1392, invocando l'intervento divino contro il duca Martino e il figlio re Martino il Giovane, quali scismatici aderenti a Clemente VII. Sostenne, poi la ribellione di Artale, figlio di Manfredi d'Alagona, approvandone pubblicamente l'ingresso in Catania (24 giugno 1392) con preghiere nelle chiese, con processioni di reliquie, con luminarie, con la propria presenza e fornendogli aiuto in uomini e vettovaglie.
Martino il Vecchio, rioccupata Catania, ordinò il 10 luglio a Tommaso Crispo, luogotenente del gran giustiziere, di sottoporre il vescovo ad inchiesta. Il processo iniziò il 12 luglio con l'interrogatorio del D. e proseguì fino al 23 con l'escussione dei testimoni in sei udienze successive. L'imputazione, articolata in dodici capi d'accusa, non era soltanto di tradimento politico, ma anche di indegnità personale e di illegittimità nell'esercizio delle funzioni episcopali. Il vescovo si difese dall'accusa di ostilità politica cercando di minimizzare i fatti e di dare alla sua azione una motivazione esclusivamente religiosa, trincerandosi dietro la fedeltà a Bonifacio IX. Respinse sdegnosamente l'accusa di avere usurpato il seggio episcopale, tolto ad uno scismatico. Non negò del tutto il lungo elenco di rampogne, gesti e atti di violenza, torture, inflitti al clero della diocesi e ai monaci benedettini della cattedrale, giustificandone la legittimità con l'esercizio delle proprie funzioni episcopali, fino a respingere l'accusa di omicidio, dichiarando che la morte di un monaco, da lui condannato al carcere perpetuo, era segno del favore della giustizia divina e che sperava di guadagnarne gloria nei cieli, più ancora che dagli eretici da lui mandati al rogo. Il processo si interruppe senza la condanna e la deposizione del vescovo. Il 15 nov. 1392 Martino il Vecchio lodava la fedeltà del D., concedendogli l'estrazione di 100 salme di frumento. Tre giorni dopo gli ordinava di estromettere dalla chiesa di S. Maria d'Ognina il prete Filippo de Combaldo, perché ribelle alla Corona, e di reintegrarvi il precedente beneficiale Giovanni de Cultellis, che il D. stesso aveva sostituito perché nominato dallo scismatico vescovo Elia, riservandosi il duca ogni ulteriore esame della questione, che sottraeva al D., delegando un ecclesiastico catalano del suo seguito, Francesco Borradino. Martino il Vecchio continuò anche a riconoscerlo come collettore apostolico. Difatti nel luglio 1393 confermò la nomina da parte del D. di un nuovo succollettore, il domenicano catalano Giovanni da Montessono. Il 29 ottobre lo chiamò a far parte della solenne ambasceria che dalla Sicilia avrebbe dovuto recarsi a Roma da Bonifacio IX. Due giorni dopo gli concedeva l'estrazione dal porto di Catania di 60 salme di frumento.
Al rinnovato appello pontificio contro i Catalani barbari e scismatici il D. tornò a fiancheggiare la ribellione di Artale d'Alagona. Ad aprile del 1394 Martino il Vecchio ormai lo escludeva dall'ambasceria che, nonostante il mutato atteggiamento pontificio, continuava a dire di volere inviare a Bonifacio IX. L'11 agosto attuava contro il D. quella deposizione, dalla quale si era salvato due anni prima. Già aveva dovuto rinunciare, a titolo formalmente spontaneo, alla metà dei redditi del proprio episcopato per soccorrere alle necessità della Corona: al momento della deposizione, era ormai prigioniero dell'infante Martino. Le truppe aragonesi, rioccupata Catania, lo avevano catturato mentre fuggiva dalla città, armato di tutto punto.
Con gli altri ribelli che avevano cercato la fuga fu escluso dal provvedimento generale di clemenza. I suoi beni furono confiscati (insieme con quelli del nipote Nicolò de Meliorato, che era stato magister hospici episcopalis e rector iurium et proventuum della Chiesa catanese) e nel gennaio 1395 vennero assegnati in risarcimento per un valore di 85 onze al miles Giovanni da Paternò. La detenzione del D. durava ancora il 26 ott. 1395. In maggio, costretto dal duca, nominò dal carcere un succollettore generale, Simone Rosso.
Tra la fine del 1395 e i primi del 1396 il D. venne liberato e costretto all'esilio. Il 24 febbr. 1396 Bonifacio IX gli dette in commenda, perché potesse vivere in maniera confacente alla sua dignità, il monastero benedettino di S. Basilio a Naso e i due priorati di S. Maria di Giummarra a Sciacca e della S. Trinità di Delia a Caltagirone, con un reddito complessivo di 500 fiorini. Il D. rimase in Sicilia, in territorio ribelle alla Corona, continuando con la parola e con l'opera a dare sostegno alla rivolta antiaragonese. A fine ottobre del 1396 Martino il Vecchio ripeté contro di lui vecchie e nuove accuse di tradimento, ribellione, lesa maestà, omicidio e irregolarità nel sacerdozio e nell'episcopato e per autorità propria e di Benedetto XIII - l'antipapa Pedro Martinez de Luna - nominò Pietro Serra amministratore della diocesi di Catania.
Sembra che il D., lasciata la Sicilia, abbia terminato sul finire del secolo (forse nel 1398) i suoi giorni a Roma, dove sarebbe stato sepolto nella chiesa della Minerva (S. Maria sopra Minerva).
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