SIMONE ATUMANO
ATUMANO. – Nacque a Costantinopoli, presumibilmente prima del 1318.
Egli stesso, in una supplica a papa Urbano V del 1363, si definiva «Symon de Constantinopoli» e in una lettera a Pierre Ameilh «Symon Constantinopolitanus»; nella stessa direzione vanno altre testimonianze. Nella epistola indirizzatagli da Clemente VI in occasione della nomina a vescovo di Gerace viene menzionato come «monachus monasterii sancti Iohannis Studii Constantinopolitani ordinis sancti Basilii». Il cognome compare nella forma «Athomanus» nella stessa lettera di Clemente VI, come τουμάνου nel titolo di un opuscolo di Matteo Angelo Panareto, e si deve ritenere che tutte le altre forme non siano che l’esito di alterazioni. Il fatto che τουμάνος rientri, nelle fonti greche, nell’ambito dell’onomastica turca sembrerebbe avvalorare la notizia che egli fosse di padre turco, come si ricava dalla supplica di Pietro IV, re d’Aragona, a papa Urbano VI dell’11 settembre 1380, nella quale si aggiunge che la madre è scismatica, cioè greca («ipse de Constantinopoli ortus est paterque eius fuit turcus et mater eius cismatica»), seppure non sia stato un collegamento autoschediastico alla forma esotica del nome a suggerire il dato. Nella bibliografia più recente è sovente citato soltanto come Atumano.
È probabile che Atumano si allontanasse da Costantinopoli nel 1347 insieme con Barlaam (al secolo Bernardo Massari), che si trovava nella capitale in missione diplomatica, avendo aderito alle sue posizioni contrarie agli esicasti e alle dottrine teologiche di Gregorio Palamas, e si recò ad Avignone. Il 23 giugno 1348, quando aveva evidentemente già fatto professione di fede cattolica, Clemente VI lo nominò vescovo di Gerace in Calabria in sostituzione appunto di Barlaam, da poco defunto.
Fu lui stesso ad annotare nella c. 1r del manoscritto della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze (Plut., 32.2), contenente i tragici ed Esiodo e a lui appartenuto, le tappe della sua successiva progressione ecclesiastica, conseguente al fatto che aveva solo la prima tonsura clericale: il 16 luglio 1348 ricevette gli ordini minori, il 6 dicembre il presbiterato, il 7 la consacrazione episcopale. La nomina implica che dovesse, a quella data, avere almeno trent’anni, età minima per accedere all’episcopato.
Si può ipotizzare che arrivasse nella sede di Gerace, al più presto, nei primi mesi del 1349; abbiamo però notizia della sua presenza ad Avignone in epoca posteriore. Qui insegnò gli elementi di greco a Francesco Bruni, dal 1362 segretario apostolico, e ancora ad Avignone firmò il 27 marzo 1363 con altri dodici prelati un documento che accordava indulgenze alla chiesa di S. Gudula di Bruxelles.
Da una lettera di Cidone (epistola 93 Loenertz) apprendiamo che, probabilmente prima del 1362, Atumano si recò a Costantinopoli ‒ non è chiaro con quale funzione ‒, dove fu ricevuto da Giovanni V Paleologo, al quale consigliò di sollecitare l’organizzazione di una crociata, e dove ebbe occasione di conoscere lo stesso Cidone. A Costantinopoli sostenne con il questore e teologo Matteo Angelo Panareto una disputa sul valore dell’acqua aggiunta nel calice consacrato prima della comunione nella liturgia ortodossa. In realtà nessuna data si ricava dall’opuscolo di Panareto da cui si apprende il fatto, ma qui Atumano è chiamato vescovo di Reggio Calabria, con uno scambio evidente tra sede suffraganea e sede metropolitana, e ciò costringe a collocare la disputa nell’unico suo viaggio a Costantinopoli prima del 1366, perché in quest’anno fu promosso all’arcidiocesi di Tebe.
Il 17 aprile 1366 Urbano V, considerate, come recita il decreto di nomina, le virtù di Atumano e i suoi meriti nel governo della chiesa di Gerace, lo promosse all’arcivescovado di Tebe, capitale del Ducato di Atene e di Neopatria, retto da Federico III d’Aragona. Prima che fosse nominato, tuttavia, ricevette l’episcopato della chiesa di Cassano, senza prendere mai possesso della nuova sede ‒ non menzionata pertanto nella successiva designazione ad arcivescovo di Tebe ‒, e rimanendo quindi titolare del seggio di Gerace. Di questa nomina fa fede un documento pontificio dell’8 luglio 1363 e una successiva supplica che Atumano rivolse il 5 agosto 1363 a Urbano V, in cui si presentò appunto come «episcopus Cassanensis», e a essa fanno probabilmente eco le parole di Cidone nell’epistola 93 Loenertz, con le quali si congratulò della sua promozione.
Tebe era città popolosa ed economicamente fiorente, tanto che disponeva di un reddito annuo di 1500 fiorini (rispetto ai 210 di Atene), un terzo dei quali era soggetto al servitium commune. Della presenza di Atumano a Tebe fa fede l’epistola 103 Loenertz di Cidone, che rispose a una missiva in cui l’amico lo informò della sua nomina e del suo arrivo in città. Dalla lettera di Cidone, databile all’inverno del 1367-68, traspaiono le difficoltà economiche che Atumano doveva avere incontrato inopinatamente in città. In una lettera di Gregorio XI a Federico III d’Aragona, del 17 dicembre 1372, si lamentano le vessazioni cui gli ufficiali dell’Aragonese sottoponevano l’arcivescovo ‒ indicato dal papa come congiunto a lui da una familiarità che risaliva a prima dell’ascesa al soglio papale ‒, e lo stesso giorno il pontefice scrisse un’altra lettera di raccomandazione al doge di Venezia, dove Atumano intendeva recarsi, non è chiaro per quali ragioni.
Infatti, l’11 aprile 1373 Andrea Contarini (Archivio di Stato di Venezia, Commemoriali, l. VII, c. 169) il doge Andrea Contarini concesse ad Atumano la cittadinanza veneziana, collocandolo tra le persone «reverendas et honorabiles sibi devotas et fideles». La concessione aveva valore in «Venetiis et extra»; accordava pertanto il massimo privilegio, e consentiva di godere dei benefici della cittadinanza in tutti i luoghi del commercio veneto.
Il 25 luglio 1374 Gregorio XI incaricò Atumano (che è possibile si trovasse ancora a Venezia) di un’ambasceria a Costantinopoli, della cui missione avrebbe dovuto inviare in Curia, tramite gli stessi ambasciatori, un resoconto scritto. Sono forse da ricondurre a questo periodo ‒ se effettivamente Atumano fece parte dell’ambasceria ‒ i contatti con Giovanni Cantacuzeno e la composizione dell’epigramma sull’ex imperatore trascritto a c. 208r del Ms. di Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, gr. Z. 151 (=393). Fu invece nel 1377-78, secondo Loenertz, che Atumano, «hebraea, graeca et latina linguis et litteris sufficienter imbutus» (così definito dall’arcivescovo di Atene, Antonio Ballester, come riferisce Pietro de Marca), tradusse in latino, su invito del priore dei domenicani di Perpignano, un epigramma greco in onore di s. Giovanni Battista.
Furono anni particolarmente travagliati per il Ducato di Atene e Neopatria, di cui Tebe era capitale, per la successione a Federico III. Nella primavera del 1379 Juan de Urtubia, alla guida di una compagnia di ventura navarrese, occupò Tebe, e solo dopo lunghi negoziati Pietro IV d’Aragona fu riconosciuto legittimo duca. In mezzo a questi torbidi Atumano rimase nella sua sede di Tebe, e forse il fatto di essere rimasto durante l’occupazione navarrese portò all’accusa di tradimento da parte del re Pietro IV, e alla conseguente richiesta a Urbano VI di deporlo per tradimento e indegnità morale e di sostituirlo con Juan Boyl, vescovo allora in esilio di Megara (lettera dell’11 settembre 1380, reiterata nel 1382). Ma il pontefice non diede ascolto alle richieste, e il 29 maggio 1383 concesse anzi ad Atumano, che si trovava in Curia a Roma dal 1380, un salvacondotto perché si recasse a Costantinopoli, forse per un viaggio privato che non aveva scopi istituzionali.
È l’ultimo documento noto che lo riguardi. Atumano morì non più tardi del 1386 o dei primi mesi del 1387: il 1° giugno 1387 Garcia, il nuovo arcivescovo di Tebe, si obbligò infatti al pagamento del servitium commune per sé e per i predecessori Stefano ‒ del cui episcopato non si conosce la durata ‒, Simone e Paolo.
Atumano fu esperto di greco, latino ed ebraico. Alla sua raccolta libraria possono essere ascritti il Laur. 32.2, con i tre tragici ed Esiodo, e i due mss. di Vienna (Nationalbibliothek, Phil. gr. 21), con una serie di dialoghi platonici, e Phil. gr. 56, con l’Odissea, con marginalia autografi. Fu lui a incaricare della trascrizione del ms. Monaco, Staatsbibliothek, gr. 238 Boemondo, secondo canonico e didaskalos della chiesa cattedrale di Gerace, il quale sul margine di c. 1r appone la nota di copia che menziona la commissione da parte di Atumano. Il codice contiene l’introduzione all’aritmetica di Nicomaco di Gerasa, e probabilmente servì come manuale per l’insegnamento. Non pare condivisibile il collegamento con Atumano di un altro codice contenente Eschilo, Sofocle e Licofrone, il Laur. 31.8, nel quale Turyn (1970) ravvisa note di sua mano.
Sopravvivono testimonianze anche di una sua attività letteraria, nel campo degli studi sia profani sia religiosi: ad Avignone, il 20 gennaio 1373, dedicò al cardinale Pietro Corsini la sua traduzione latina del De cohibenda ira di Plutarco, condotta letteralmente secondo il metodo medievale e rielaborata in seguito da Coluccio Salutati, una copia della quale è conservata nel manoscritto di Siviglia, Biblioteca Capitular Colombina, 8.55.34. Giovanni Mercati dimostrò con buone ragioni che la versione greca di parte del testo ebraico del Vecchio Testamento contenuta nel Marc. gr. Z. 7 (= 377), per i primi 81 fogli autografo del traduttore, è da ascrivere ad Atumano (l’invocazione «ave Maria», anch’essa ritenuta autografa da Mercati, sul margine superiore di ogni foglio del codice, è risultata presente anche nei due manoscritti viennesi appartenuti ad Atumano), e che costituisce quanto rimane della nuova versione greca e latina da lui elaborata del Vecchio Testamento e presentata a papa Urbano VI nella forma di una Bibbia triglotta, ebraica, greca e latina. Del tutto perduta è invece la sua traduzione in ebraico e in latino del Nuovo Testamento.
Fonti e Bibl.: Petri de Marca, Opuscula, Parisiis 1681, pp. 403-413; Graecus Venetus: Pentateuchi Proverbiorum Ruth Cantici Ecclesiastae Threnorum Danielis versio graeca, a cura di O. Gebhardt, prefazione di F. Delitzsch, Lipsiae 1875; F. Lo Parco, Gli ultimi oscuri anni di Barlaam e la verità storica sullo studio del greco di Francesco Petrarca, Napoli 1910, pp. 33 s.; G. Mercati, Se la versione dall’ebraico del codice Veneto Greco VII sia di S. A. arcivescovo di Tebe, Roma 1916; K M. Setton, The archbishop S. A. and the Fall of Thebes to the Navarrese in 1379, in Byzantinisch-Neugriechische Jahrbücher, XVIII (1945-1949, pubbl. 1960), pp. 105-122; Démétrius Cyolonès, Correspondance, a cura di R.J. Loenertz, I-II, Città del Vaticano, 1956-1960; A. Pertusi, La scoperta di Euripide nel primo Umanesimo, in Italia medioevale e umanistica, III (1960), pp. 101-152; G. Fedalto, Per una biografia di S. A., in Vita e Pensiero, XL (1966), pp. 445-467; A. Turyn, The byzantine manuscript tradition of the tragedies of Euripides, Roma 1970, pp. 226-228; R. Weiss, Medieval and humanist greek, Padova 1977, pp. 204-226; R.J. Loenertz, Byzantina et franco-graeca, series altera, Roma 1978, p. 376; S. Lucà, La diocesi di Gerace e Squillace, tra manoscritti e marginalia, in Calabria bizantina. Civiltà bizantina nei territori di Gerace e Stilo, Soveria Mannelli 1998, p. 297; G. Fedalto, S. A. Monaco di Studio, arcivescovo latino di Tebe. Secolo XIV, Brescia 2007.