PELLICO, Silvio
Patriota e scrittore, nato di modesta famiglia a Saluzzo il 25 giugno 1789, morto a Torino il 31 gennaio 1854. Stabilitosi ventenne a Milano, divenne amico del Foscolo, il quale lodò la sua prima tragedia, Laudamia; ma lo consigliò di buttare al fuoco la seconda, Francesca da Rimini. Questa invece, rappresentata il 18 agosto 1815, ebbe grande successo, e durò poi applauditissima sulle scene per oltre mezzo secolo. Scoppiata nel 1816 la polemica tra classicisti e romantici, il P., dopo qualche esitazione, si schierò con questi ultimi, e nel 1818 (dopo che da qualche tempo era entrato in casa del conte Luigi Porro come segretario e precettore) collaborò attivamente al Conciliatore, con articoli di vario genere, ma specialmente di critica drammatica. Soppresso dall'Austria il periodico, pubblicò una nuova tragedia, Eufemio di Messina (1820), e, stretta relazione con Pietro Maroncelli, fu da questo aggregato alla Carboneria. L'arresto del Maroncelli, avvenuto poco dopo, portò di conseguenza quello del P. (13 ottobre 1820). Affidata l'istruzione del processo alla Commissione speciale di Venezia della quale era inquirente Antonio Salvotti, egli venne condannato alla pena di morte, commutata poi in 20 anni di carcere duro da scontarsi nella fortezza morava dello Spielberg, dove egli giunse il 10 aprile 1822. Ne uscì graziato alla fine d'agosto del 1830, ma così mal ridotto dalle terribili sofferenze fisiche e morali, da non esser altro ormai che un "languido cadavere ambulante". Stabilitosi presso la famiglia, a Torino, riprese tuttavia la sua attività letteraria; pubblicò quattro cantiche (novelle in versi sciolti di argomento medievale) e due tragedie, Ester d'Engaddi e Iginia d'Asti, scritte in carcere a Venezia, e poco dopo ne pubblicò altre (Leoniero da Dertona, composta allo Spielberg, Gismonda da Mendrisio, Erodiade).
Intanto egli che, uscito di famiglia religiosissima, era in gioventù divenuto incredulo, per tornare poi alla fede nella solitudine del carcere, si era accinto, per consiglio del confessore e della madre, a scrivere le sue memorie di prigionia, allo scopo di dimostrare, col suo esempio, di quale conforto sia la religione nella sventura. Sennonché, quando Le mie prigioni videro la luce ai primi di novembre del 1832, i cattolici reazionarî, tra i quali Monaldo Leopardi, non si mostrarono convinti della sincerità della sua conversione, e i patrioti più accesi lo tacciarono di bacchettoneria e di tradimento dei principî liberali. Il grosso dei lettori però, senza far caso di tali sospetti e invettive, accolse il libro con grande favore, commosso da quella narrazione, evidentemente sincera, delle inaudite sofferenze inflitte al P. e ai suoi compagni di sventura. E specialmente ispirava simpatia il buon Silvio, che non inveiva mai contro gli aguzzini e non mancava anzi di farne l'elogio, se scorgeva in essi qualche segno di bontà. Inoltre, sebbene egli non avesse avuto l'intenzione di fare un'opera d'arte, cosicché difetti di lingua e d'altra natura sono evidentissimi nel suo libro, tuttavia aveva rivelato con tanta efficacia l'anima sua onesta e buona, e aveva con tanto garbo disegnato scene, riferito dialoghi, schizzato tipi e macchiette, che il libro divenne in breve popolarissimo. Donde una conseguenza che l'autore non aveva preveduta, e cioè che esso, più che alla propaganda etico-religiosa, servì a quella patriottica, prima in Italia e poi anche all'estero, dove ebbe ristampe e traduzioni numerose suscitando ovunque simpatia per l'Italia e odio contro lo straniero oppressore. Di ciò ben s'accorse il Metternich, che invano tentò di far confutare il racconto del P. e di farlo mettere all'indice, onde non ebbe torto chi disse (ma non fu il Metternich, come vuole la tradizione) che esso danneggiò l'Austria più di una battaglia perduta. Nel 1834 il P. dava poi alla luce I doveri degli uomini, trattatello tutto ispirato dalla morale religiosa, che conseguì larga diffusione come libro di pia lettura e come testo scolastico, ma che, se valse in parte a dissipare le diffidenze dei cattolici intransigenti, inasprì le ire di molti patrioti. Questi ultimi si sentirono anche più maldisposti verso il P. quando egli divenne amico e poi anche segretario dei marchesi di Barolo, che avevano fama di reazionarî. Essi sfogarono perciò il loro malumore fischiando una sua nuova tragedia, Corradino (1834); sicché il P., afflitto, non scrisse più tragedie. Nel 1837 pubblicò invece due volumi di Poesie inedite (sette cantiche e molte liriche, per lo più di argomento religioso); intraprese anche, ma non condusse a termine, un'autobiografia, e scrisse qualche rappresentazioncella di argomento sacro per le giovinette di un rifugio fondato dalla marchesa. Nel 1845 accompagnò quest'ultima a Roma e nel 1847 di nuovo a Roma e a Napoli. Gli avvenimenti pubblici del 1848 lo commossero vivamente; augurò il trionfo delle armi italiane, e deplorò gli eccessi demagogici.
La sua fama è specialmente raccomandata alle Mie prigioni. Le tragedie, se lo fecero un tempo proclamare il maggior tragediografo italiano dopo l'Alfieri ed emulo di Euripide e di Racine, valgono quasi solo per una certa abilità scenica e per qualche carattere femminile che si prestava all'interpretazione delle prime attrici. Le sue cantiche (anche le migliori, Tancreda e La morte di Dante) se ebbero, per la loro novità, larga fama e imitatori, non sono gran cosa, e anche più scarso è il valore poetico delle liriche. Più notevole, per il suo interesse psicologico, è l'Epistolario.
La raccolta più ampia delle Opere è quella di Firenze 1856-1860. Tra le numerosissime edizioni delle Mie prigioni, le più notevoli sono quelle di D. Chiattone, Saluzzo 1907, di G. Mazzoni, Firenze s. a., e di F. Ravello, 4ª ed., Torino 1933 (con molte indicazioni bibliografiche).
Bibl.: I. Rinieri, Della vita e delle opere di S. P., Torino 1898-1901 (con molte lettere e scritti inediti); A. Luzio, Il processo Pellico-Maroncelli, Milano 1903; e le biografie di E. Bellorini, Messina 1916; di R. Barbiera, S. P., Milano 1926; di B. Allason, La vita di S. P., Milano 1933.