Pellico, Silvio
La personalità, i tempi, il mondo poetico di D. interessarono più la fantasia che la riflessione del P. (Saluzzo 1789 - Torino 1854), anche se sul poeta egli si soffermò più volte in veste critica, esponendo nelle confidenze epistolari il suo modo di concepire la poesia o chiarendo le ragioni della sua scelta nella polemica classico-romantica. La sua mente, più incline al consenso e all'entusiasmo, che a un rigoroso itinerario di pensiero, si apriva senza pregiudizi di generi o di epoche a ogni schietta voce di poesia: " Tutto il bello è bello, Omero, Schiller, Dante e Virgilio " (Lettere milanesi, Torino 1963, 66). Ma questa ampia disponibilità non gl'impediva di cogliere fra l'arte antica e la moderna una sostanziale differenza, riconducibile alla diversa concezione dell'uomo e dell'universo. Alla base della poesia moderna - romantica - vi è il bando cristiano con la sua complessa articolazione metafisica ed etica, con il profondo rivolgimento che opera nella vita sociale (" la civilizzazione antica è stata spenta totalmente dai Barbari, e quella che è rinata dopo deriva tutta dal cristianesimo e dal genio cavalleresco ", ibid., p. 389). La genesi del Romanticismo va collocata dunque nel Medioevo, di cui D. è la più alta espressione poetica. E, perché cristiano e moderno, D. è poeta romantico del pari al Petrarca, all'Ariosto, al Tasso. In questa definizione si riflette un pensiero che il P. ebbe in comune con il Di Breme e con altri scrittori della cerchia del " Conciliatore ", ai quali ci riporta pure l'idea dell'originalità come sinonimo di genio poetico e ulteriore caratteristica della nuova scuola, alla quale D. è riconducibile anche sotto questo profilo, per avere cioè reso " originalmente i propri pensieri, invece di andarli a cercare belli e fatti in altrui " (ibid., p. 389). Ma l'indipendenza dagli antichi ai tempi di D. derivava anche, secondo il P., dalla scarsa conoscenza che allora si aveva del mondo classico. La modernità del poeta è nell'adesione al Medioevo: non c'è bisogno, per dirlo moderno, di spingerlo antistoricamente verso l'Umanesimo, che segnò il tramonto di una letteratura aderente alla realtà sociale e il sorgere del canone dell'imitazione che trasformava l'arte della parola in un raffinato esercizio accademico. La presenza del mondo classico con i suoi miti e i suoi personaggi era nella poesia della Commedia altra cosa che una pedissequa imitazione, perché D. si pose di fronte a quel mondo " da filosofo e non da pedante ": sensibile ai mutamenti storici che rendono inattuali certe situazioni e certi personaggi, capì che riproducendo un Laocoonte " farebbe meno terrore e pietà, che non avea fatto agli antichi quel di Virgilio " (ibid., p. 30), sicché, cercando ispirazione nella realtà politica dei suoi tempi, ci diede l'Ugolino, più consono alla sensibilità moderna.
Nel giugno 1815 il P. pose mano a una tragedia politica, il cui argomento era D., " la sua influenza nella repubblica di Firenze; i partiti de' Bianchi e de' Neri; l'arrivo di Carlo di Valois in Firenze; e l'esilio del poeta " (ibid., p. 16); ma un mese dopo, pur avendola " tutta tessuta e cominciata a verseggiare " (ibid., p. 19), l'abbandona per un nuovo tema, né più la riprende. Di essa ci restano alcuni abbozzi in prosa e qualche squarcio di primi tentativi di verseggiatura, oltre a vari appunti di carattere storico, tra cui un profilo biografico di Dante. L'interesse per questo come per altri argomenti medievali, su cui il P. venne esercitandosi come tragediografo fin dagli anni della giovinezza, nasceva dalla suggestione esercitata su di lui dal Sismondi, delle cui idee si era fatto caldo sostenitore. Sul piano della struttura e dello stile non rinnegava la grande esperienza alfieriana, anche se finiva per piegarla a zone di più morbida sensibilità e a un dettato più dimesso, nonostante considerasse la poesia come nobile espressione di un mondo ideale. Il successo della Francesca da Rimini, portata sulle scene al teatro Re di Milano il 18 agosto 1815 da una compagnia in cui lavorava la giovanissima e già straordinaria Carlotta Marchionni, fu determinato in parte da certi accenti patriottici (per questo motivo fu attaccata dalla critica ufficiale, che pur nascondeva la vera natura dell'opposizione sotto il dissenso di carattere letterario) e in parte dalla sentimentalità romantica, che interpretava una diffusa inclinazione del tempo. Con il dramma dantesco nudo e severo della passione e del peccato avevano poco a che fare la psicologia dei personaggi del P., legati da scambievole affetto, ma che finiscono per farsi male a vicenda sopraffatti e divisi dalla cieca forza dell'amore; la morbida tenerezza dei sentimenti, su cui sparge romanticamente una patina di nobiltà il dolore; la vaga religiosità che si traduce in una condanna esterna degli amanti e in un contrasto tra passione e dovere, privo di un vero scontro e di una vera catarsi tragica. Sicché proprio laddove il P. riecheggia l'episodio dantesco più scade la sua Francesca, perché le reminiscenze restano tali e non si fondono con lo spirito diverso della tragedia, come quando la donna morendo profetizza l'eternità del martirio suo e dell'amante (atto V, scena ultima), o quando Paolo rievoca il suo incontro con la cognata nel giardino, la lettura dei casi di Lancillotto, la fuga improvvisa di lei dopo la rivelazione dell'amore, scena intorno alla quale il P. si travagliò a lungo, ma senza riuscire a evitare quella coloritura melodrammatica, che induceva il Foscolo a consigliargli di dannare il suo lavoro alle fiamme. Ma il significato storico e artistico della tragedia non è qui e .non va ricercato attraverso un confronto con l'episodio dell'Inferno dantesco.
Nel 1837 il P. pubblicò la cantica La morte di D., testimonianza del profondo cambiamento generato in lui dalla conversione: si pensi, per esempio, al diverso giudizio intorno a Cola di Rienzo, una volta esaltato e ora condannato come autore di un tentativo insano. L'ultimo discorso di D. alla presenza di Guido da Polenta è tutto intessuto delle idee politiche e religiose del reduce dallo Spielberg. La storia d'Italia si dispiega nella visione profetica del morente come una serie di sciagure e di lotte, a cui non sono estranei nemmeno gli ordini religiosi lacerati da rivalità e discordie, fino all'approdo a un'umanità docile all'impero del pontefice. L'ossequio alla Chiesa porta D. a condannare come espressione di passionale e fiero carattere le invettive sue di una volta. Lo scopo del P. era polemico: reagiva all'interpretazione ghibellina di D., sostenendo, come apertamente dichiarava nella premessa alla cantica, che il poeta non poteva considerarsi né scismatico, né eretico, perché " consonissimo a tutte le cattoliche dottrine ". La cantica va ricordata non certo per qualità poetiche, ma come documento delle idee intorno a D. del secondo P. e di certi ambienti cattolici ottocenteschi più intransigentemente conservatori.
Bibl. - M. Parenti, Bibliografia delle opere di S. P., Firenze 1952; I. Rinieri, Della vita e delle opere di S. P., Torino 1898-1901. Della vasta bibliografia sul P. della Francesca da Rimini ci limitiamo a segnalare: D. Chiattone, Come fu accolta la " Francesca da Rimini " di S. P., in " Piccolo Arch. Stor. dell'antico Marchesato di Saluzzo " I (1901) 342-348; I. Del Lungo, Medio Evo dantesco sul teatro, in " Nuova Antol. " XCVIII, marzo-aprile 1902; E. Bertana, La tragedia, Milano 1906, 375-381; M. Forte Simonetti, S. P. poeta tragico, Napoli 1914; F. Montanari, S. P. della mediocrità, Genova 1935; A. Romanò, Le tragedie del P. anteriori alle " Mie Prigioni ", in " Paideia " I (1946) 321-339; ID., S. P., Brescia 1948; G. Trombatore, Saggi critici, Firenze 1950; M. Apollonio, Storia del teatro italiano, IV, ibid. 1950; C. Curto, S. P., in Letteratura italiana, I Minori, Milano 1961, III 2397-2412.