MORETTI, Silvio
MORETTI, Silvio. – Primo di sette figli nacque a Comero, in Val Sabbia (provincia di Brescia), il 17 luglio 1772, da Pietro Francesco, un piccolo possidente allevatore di ovini, e da Anna Maria Pilotelli. Battezzato col nome di Silvestro Antonio, «che forse riteneva per lui alcun che di sacerdotale» (De Castro, 1896, p. 5), assunse quello di Silvio all’inizio della carriera militare.
Ricevuti i primi rudimenti dal parroco del suo paese, passò poi in un comune vicino a studiare il latino e infine fu iscritto da uno zio paterno al seminario vescovile di Brescia, dove seguì per cinque anni i corsi di teologia e di diritto canonico. Lo scarso entusiasmo manifestato verso tale sistemazione confermerebbe che, come avrebbe dichiarato in seguito, era entrato in seminario contro voglia, per consentire – si disse poi – che «la famiglia entrasse in possesso di un’eredità» (Montini, 1937, p. 101). Tuttavia terminò gli studi e il 5 aprile 1794 ricevette il suddiaconato per conseguire, il 4 marzo 1797, l’ordinazione sacerdotale.
Aveva appena celebrato la prima messa e ricevuto la nomina di coadiutore a Concesio quando nelle valli bresciane ebbe inizio l’insorgenza contro il governo provvisorio democratico insediatosi in città con l’aiuto delle truppe francesi. Senza pensarci due volte, Moretti depose l’abito talare e imbracciò il fucile per correre a combattere contro gli invasori: subito ferito e fatto prigioniero, si convertì rapidamente alle nuove idee e, accettato il grado di sottotenente offertogli dal governo provvisorio bresciano, entrò nelle milizie del comandante Giuseppe Lechi, passando con lui nel dicembre 1797 al servizio della neonata Repubblica Cisalpina. Si mise subito in mostra come elemento di indubbio valore e, quando ebbe luogo la controffensiva austro-russa, seguì Lechi, che si era unito alle truppe del generale Bonaparte e aveva costituito la Legione italiana.
Continuò poi la carriera nei corpi scelti di Napoleone, prima aggregato col grado di capitano – guadagnato a Marengo – alla guardia presidenziale (4 aprile 1804), poi, dopo avere assistito a Parigi all’incoronazione di Napoleone (2 dicembre 1804), nel corpo dei veliti reali, coi quali prese parte alla battaglia di Austerlitz (2 dicembre 1805). Seguirono, nel 1809, la campagna contro gli Austriaci come capo-battaglione della 4a divisione dell’armata d’Italia comandata dal generale Teodoro Lechi, con il quale prese parte alle battaglie di Illasi, Raab e Wagram; nel 1812 la spedizione in Russia e nel 1813 la campagna di Germania, che per lui si concluse con un encomio solenne per aver preso parte a vari combattimenti distinguendosi in quello di Lützen.
Il passaggio al servizio nel II battaglione leggero austro-italiano, avvenuto dopo la caduta di Napoleone, non significò per Moretti e per molti dei suoi commilitoni una rinunzia al proprio passato. Anzi fu proprio con alcuni ex ufficiali della guardia reale, in particolare con il colonnello Gian Paolo Olini e col generale Teodoro Lechi, che il colonnello Moretti organizzò la congiura militare-massonica del 19 maggio 1814, fallita sul nascere per la delazione di una spia francese al servizio degli Austriaci.
Se, come era negli intenti dei cospiratori, si fosse riusciti a far sollevare Bergamo, Brescia e Cremona, quindi a occupare Mantova e Verona, e se Moretti, apparso subito tra i più decisi, avesse preso alcune fortezze e portato la sollevazione fino a Milano, si sarebbe potuto consegnare a Napoleone un nuovo regno italico dal quale rilanciare la guerra contro la coalizione avversaria.
Alla scoperta della congiura tennero dietro indagini, perquisizioni e alcuni processi: arrestato il 7 gennaio 1815 mentre si trovava a Graz, dove era stato destinato dopo l’arruolamento nell’esercito austriaco, tradotto a Mantova e portato un mese dopo davanti a una speciale commissione militare, il 18 novembre 1815 Moretti fu condannato a morte mediante impiccagione, pena poi commutata in otto anni di detenzione in fortezza e ridotta infine a quattro anni (di cui due già scontati) per buona condotta. I restanti due anni li passò nella fortezza di Koeniggratz, in Boemia.
Quando tornò in patria la polizia austriaca non smise di sorvegliarlo, malgrado avesse cambiato residenza stabilendosi nel comune di Sabbio e avesse trovato un impiego in apparenza tranquillo come collaboratore (nonché titolare di una quota azionaria) del tipografo-editore Nicolò Bettoni, per il quale tradusse dal tedesco e pubblicò tra il 1821 e il 1822 i cinque volumi di un trattato sulle passioni del filosofo Johann Georg Heinrich Feder che nella versione italiana fu intitolato Ricerche analitiche sul cuore umano (Brescia): era evidentemente un tema che Moretti, personaggio quasi stendhaliano, sentiva molto. Sempre per Bettoni stava lavorando alla traduzione di alcune opere teatrali di August von Kotzebue quando incappò nel secondo arresto della sua vita, il 13 ottobre 1822. A portarlo in carcere, e questa volta definitivamente, furono l’aggregazione alla società dei Federati facente capo al conte Federico Confalonieri e la parte avuta nella preparazione di un progetto insurrezionale studiato per fornire il contributo dei cospiratori bresciani alla presenza lombarda nel coevo moto costituzionale piemontese.
In effetti, a cose finite, le indagini, condotte per conto di una commissione istituita a Milano dai giudici Antonio Salvotti e Michele de Menghin, raccolsero non prove ma confessioni: fu dunque solo grazie alle ammissioni di altri cospiratori, tra i quali apparve decisivo, col suo costituto del 9 ottobre 1822, il conte Ludovico Ducco, che gli inquirenti appresero che nelle settimane precedenti l’inizio del moto Moretti aveva compiuto viaggi nel Comasco per stringere le fila del complotto; che il 16 e il 17 marzo 1821 era stato presente alle riunioni in casa di Camillo Ugoni e dello stesso Ducco; e che, soprattutto, nel corso della prima riunione si era mostrato il più risoluto a dare il via alle operazioni chiedendo che gli fossero messi a disposizione 400 uomini per potere assalire il convoglio che trasportava le casse pubbliche da Milano a Mantova e poter attaccare quindi le fortezze di Peschiera e Rocca d’Anfo. Lo compromise anche, agli occhi degli inquirenti, il ritrovamento nella sua casa di una lettera di Teodoro Lechi e di un’ode in morte di Napoleone non scritta da lui ma ritenuta indizio di collegamento pericoloso con altri militari reduci dalle guerre napoleoniche.
Mentre lo trasportavano a Milano, Moretti tentò il suicidio tagliandosi la gola con un coltellino sfuggito alla perquisizione: soccorso, negò di essersi colpito, forse temendo che il suo gesto potesse apparire come un’ammissione di colpevolezza. Sin dai primi interrogatori gli furono contestate le rivelazioni a suo carico degli altri inquisiti: ciò non lo indusse a cambiare la linea difensiva che fin dall’inizio consistette nel negare ogni addebito, sapendo che, per una precisa disposizione del codice penale austriaco, era questo l’unico modo per evitare la pena capitale. Perfino un uomo come Salvotti fu impressionato dalla sua fermezza e dalle parole con cui Moretti rivendicò la bontà della sua strategia spiegandogli che «quando si entra in una congiura bisogna essere disposti a morire per la causa che si abbraccia e che se tutti avessero osservato il suo sistema sarebbero stati tutti salvi» (Luzio, 1901, p. 138). Forte di questa certezza resistette a lusinghe e minacce, passò indenne tra l’ottobre 1822 e il maggio 1824 per otto costituti e il 1° febbraio 1823 superò brillantemente, continuando a proclamarsi innocente, anche il confronto con i suoi accusatori, alcuni dei quali ritrattarono almeno in parte.
Come aveva previsto, riconosciuto comunque reo di alto tradimento, non sfuggì alla condanna a 15 anni di carcere duro e al pagamento delle spese processuali, ma scampò alla forca. Da notare che Salvotti aveva chiesto per lui venti anni, il massimo della pena, usando come aggravante anche «la sua irreligiosità sfacciata, il disprezzo che spiega contro la Sacrosanta nostra Religione, e il suo sacerdotal carattere » (Solitro, 1910, p. 110); e la sentenza tenne conto anche di questo addebito specificando che la pena inflitta a Moretti andava scontata «previo accordo con la Curia di Brescia per la degradazione» (Storia di Brescia, 1964, p. 148). Più tardi, la Penitenzieria romana gli avrebbe fatto sapere tramite il confessore dei detenuti che gli era stata accordata l’assoluzione.
La sentenza divenne esecutiva dopo che l’imperatore Francesco I l’ebbe confermata il 27 ottobre 1824 destinando Moretti allo Spielberg. Vi arrivò, già logoro nel fisico e nello spirito, nei primi giorni del dicembre 1824 e subito ne patì le durezze. Ad aggravare la condizione carceraria contribuirono i maltrattamenti psicologici procuratigli da un confessore, don S. Pavlovich- Lucich; l’incompatibilità caratteriale con quasi tutti gli altri detenuti – tra i quali inizialmente il solo Alexandre Andryane fu un compagno di cella con cui andò d’accordo –; la sordità delle autorità e dell’imperatore a tutte le richieste – sue e dei parenti – di revisione del processo (l’ultima di cui si abbia notizia, del 1829, fu respinta il 4 aprile 1830); le umiliazioni morali riservategli da un sistema afflittivo che aveva come obiettivo la spersonalizzazione del reo e non il suo recupero. Inascoltati rimasero pertanto i due memoriali che Moretti scrisse nel 1825 e nel 1830, come inutile fu il colloquio che ottenne con il governatore di Brünn per chiedere la libertà promettendo collaborazione per il futuro: caduto in uno stato di semi-alienazione mentale, non fu preso sul serio. La compagnia di un nuovo detenuto, Giovanni Bacchiega, lo aiutò a risollevarsi moralmente, ma ormai il suo organismo era troppo provato.
Morì di consunzione il 21 agosto 1832 e fu sepolto nella fossa comune dello Spielberg.
Nel 1909 il Comune di Sabbio Chiese, forse sulla base di un giudizio di Alessandro Luzio stando al quale Moretti con la sua determinazione aveva costituito «l’unica eccezione, splendida eccezione» fra tutti i processati del 1821 (Luzio, 1901, p. 135), dedicò alla sua memoria una lapide la cui epigrafe fu dettata da Giuseppe Cesare Abba.
Fonti e Bibl.: V.A. Vannucci, I martiri della libertà italiana dal 1794 al 1848, I-II, Milano 18877, ad ind.; G. De Castro, Congiurati lombardi del 1814, Milano 1896; A. Luzio, Antonio Salvotti e i processi del Ventuno, Roma 1901, pp. 135-138; A. Luzio, Il processo Pellico-Maroncelli secondo gli atti officiali segreti, Milano 1903, pp. 203, 205, 489-501; V. Tonni Bazza, S. M. 1772- 1832. Discorso pronunziato inaugurandosi la lapide a Sabbio Chiese il 26 luglio 1909, Roma 1909; G. Solitro, Un martire dello Spielberg (il colonnello S. M.), su docc. inediti degli archivi di Milano e di Brünn, Padova 1910; A. Luzio, Studi critici, Milano 1927, pp. 343, 377-380; R.U. Montini, I processi spielberghiani, Roma 1937, ad ind.; I processi del ’21 nel carteggio di Antonio Mazzetti, a cura di P. Pedrotti, e Le memorie defensionali di S. M., a cura di G. Solitro, Roma 1939, ad ind.; Storia di Brescia, IV, Milano 1964, ad ind.; Processi politici del Senato Lombardo-Veneto 1815-1851, a cura di A. Grandi, Roma 1976, ad ind.; U. Vaglia, La finta vendita di S. M., martire dello Spielberg, in Commentari dell’Ateneo di Brescia, CXCI (1992), pp. 149-154; F. Della Peruta, Esercito e società nell’Italia napoleonica: dalla Cisalpina al Regno d’Italia, Milano 1996, p. 421; E. Pigni, La guardia di Napoleone re d’Italia, Milano 2001, ad ind.; Rosi, Diz. Risorgimento nazionale, III, s. v. (I. Bellini); Spielberg. Documentazione sui detenuti politici italiani. Inventario 1822-1859, a cura di L. Contegiacomo, Rovigo 2010, ad indicem.