LONGHI, Silvio
Nacque a Vestone, presso Brescia, il 20 apr. 1865 da Luigi, direttore della R. Scuola navale superiore di Genova, e da Caterina Fanzago.
Nel 1889 il L. vinse il concorso in magistratura, e iniziò una carriera che lo appassionò tanto da farlo rinunciare alla cattedra universitaria (non divenne mai, per sua scelta, professore ordinario). Nel 1898 pubblicò a Milano La bancarotta. Esposizione teorico-pratica e contributi per una riforma legislativa, sui delicati rapporti tra giudizio civile e giudizio penale in materia di fallimento: tema che lo accompagnò per diversi anni di studio e sul quale scrisse in seguito un'altra monografia, Bancarotta ed altri reati in materia commerciale (Milano 1913).
L'attenzione del L. si incentrò in particolare sul rapporto tra concordato e procedimento penale; oggetto della sua analisi era la deroga, determinata dall'incidenza del primo sul secondo, al principio dell'indipendenza dei due giudizi e la questione di giustizia sostanziale che ne derivava: "Il giudice civile, che taglia corto ad un procedimento penale senza averne esaminati gli atti, senza alcuna istruttoria in proposito, che motiva le gravi decisioni a cui arriva se non colla frase generica e formale che il fallito è "meritevole di speciale riguardo", esercita un atto legale, perché gli deriva dalla legge; ma in realtà quell'atto sa di arbitrario o di grazia" (La bancarotta. Esposizione…, p. 30).
Il 19 giugno 1901, con decreto del ministro della Pubblica Istruzione, il L. fu abilitato alla libera docenza di diritto e procedura penale; depositò il titolo presso l'Università di Bologna, dove tenne corsi liberi fino al 1903, quando trasferì la docenza a Roma, chiamato dal consiglio della facoltà di giurisprudenza per un insegnamento destinato a protrarsi ininterrottamente fino ai primi anni Trenta. Ancora nel 1903 pubblicò a Milano La riprensione giudiziale e l'evoluzione delle pene morali, in cui, sulla base di un'ampia esposizione dottrinale che andava dagli scritti di C. Beccaria alle teorie di G.D. Romagnosi e di C. Lombroso, evidenziava il fondamento sociologico dell'ammonimento giudiziale e descriveva la pena nel suo svolgimento storico e razionale.
In queste pagine manifestava la sua piena conformità alla teoria unitaria del diritto penale, ovvero dell'integrazione del sistema repressivo col sistema preventivo, rimanendo fedele a quell'impostazione tradizionale che sarebbe entrata in conflitto con la logica del legislatore degli anni Trenta, pronto a vedere solo nel momento della repressione e nell'idea del "castigo" la più efficace controspinta al delitto. Non a caso il L. parlava di "sostitutivo penale d'ordine morale" (p. 11) per quella cerchia di delinquenti che, non avendo una tendenza attiva al delitto, "vi cadono piuttosto per l'incentivo delle tentazioni offerte dalle condizioni personali o dall'ambiente esterno, fisico e sociale" e per i quali "occorrono piuttosto cure preventive che repressive" (p. 12).
Il 31 genn. 1909, molto probabilmente a seguito dei suggerimenti dell'autorevole famiglia di appartenenza, inviò i suoi titoli per un concorso all'Università di Sassari, del cui esito non si hanno notizie. Tuttavia, nel novembre del 1911, quando si trattò di accettare l'incarico di professore straordinario a Siena, rifiutò e, in una lettera indirizzata al ministro della Pubblica Istruzione, motivò la sua decisione con il desiderio di non lasciare la magistratura e la città di Roma, dove proprio dal 1911 prese a insegnare anche presso il R. Istituto superiore di studi coloniali e commerciali.
Pubblicò quindi Repressione e prevenzione nel diritto penale attuale (ibid. 1911), che dedicò a V.E. Orlando, ricordandone il contributo al progresso della scienza giuridica.
Il L. intervenne nella polemica tra scuola classica e scuola positiva e pose come soluzione concreta alla questione tanto dibattuta del considerare o meno le misure di prevenzione come norme di diritto penale l'idea che non solo quelle garantite dalla minaccia della pena possono essere ritenute come tali, ovvero giuridicamente rilevanti, perché il fine ultimo della legislazione penale è la riduzione della delinquenza cui, prima della repressione, giova sicuramente la prevenzione.
Il 26 sett. 1915 divenne consigliere della Corte di cassazione e mantenne tale incarico fino al 2 dic. 1923, quando, avviandosi alla conclusione della sua carriera di magistrato, fu nominato procuratore generale della stessa Corte. In questo arco di tempo speso nel palazzo di Giustizia continuò i suoi studi e approfondimenti sulla natura del diritto penale, tenendo come riferimento le teorie di G. Carmignani, fondatore della scuola criminale toscana, e pubblicò Per un codice della prevenzione criminale (ibid. 1922) in cui denunciò apertamente l'insufficienza di un sistema esclusivamente repressivo: "Le pene mutilatrici e di morte divenivano così non soltanto frequenti ma vieppiù terrificanti; fino a che, raggiunti negli ultimi secoli i confini estremi della crudeltà e insieme dell'assurdo, alle società civili non altro restava da farsi che di tornare indietro e procedere alla revisione del problema sul fondamento e gli scopi del diritto penale" (p. 27).
L'adesione al partito fascista fin dai primi anni gli permise di divenire presidente del Collegio centrale dei probiviri e del Sindacato dei giornalisti e, dal 22 dic. 1928, senatore del Regno.
La formazione culturale, la vasta produzione di saggi afferenti a tematiche specifiche e dal contenuto innovativo, la solida amicizia con A. Rocco furono i fattori che gli consentirono di partecipare al comitato scientifico istituito per redigere il progetto preliminare del nuovo codice penale, destinato a essere approvato, a norma della legge di delegazione, da una Commissione parlamentare mista, che terminò i suoi lavori il 22 marzo 1930.
Nell'ambito dei lavori preparatori, cui partecipò assiduamente, il L. si inserì con creatività nelle principali problematiche affrontate dalla riforma, ovvero l'esigenza di realizzare un sistema fondato sulla bipartizione dei reati, tale da includere sia i delitti, sia le contravvenzioni e l'introduzione del sistema del "doppio binario", che prevedeva l'aggiunta o la sostituzione delle misure di sicurezza alla pena. Questi suoi interventi muovevano sì dal tentativo, peraltro comune a tutta la dottrina del tempo, di razionalizzare il diritto penale secondo i principî di pubblicizzazione dei beni tutelati e di ideologizzazione delle fattispecie criminose, sulla base anche dell'autoritarismo e, segnatamente, del rigorismo sanzionatorio tipico di quegli anni, ma anche da una concezione nuova di reato, inteso come "un ente giuridico complesso" (Progetto preliminare di un nuovo codice di procedura penale con la relazione del guardasigilli on. A. Rocco, Roma 1929, V, parte II, p. 70), capace, a differenza di quanto stabilito nel codice Zanardelli del 1889, di riconoscere, e per questo di selezionare a vari gradi, la colpevolezza del reo. Distaccandosi dalla posizione di Rocco e dando l'idea di una visione diversa e più matura del diritto penale e del diritto in genere, il L. riteneva che il codice penale non dovesse assurgere a dignità di norma costituzionale e questo non per arrivare a criticare semplicemente il principio della completezza e della centralità del codice, tanto caro alla dottrina ottocentesca ed ereditato dai più raffinati pensatori dei primi del Novecento, ma per sottolineare l'importanza del momento formativo del diritto, che non può calare dall'alto, da un luogo trascendente, ma sale dal basso, come risultato della ponderazione delle esigenze sociali inderogabili: "Anche se ci sia una legge in contraddizione col Codice penale, vale di più l'interesse immediato che l'ha ispirato, che non l'intangibilità dei principi di un Codice, anch'essi destinati a cadere e a rinnovarsi" (ibid., pp. 140 s.). Significativa, come una voce fuori dal coro, la tesi del L. sulla pena di morte considerata pena di eccezione, la cui applicazione era volta solo a difendere i supremi interessi dello Stato e pertanto come sanzione da porre fuori dal codice e da inserire nella legge che disciplinava il tribunale speciale con competenza sui gravi reati pubblici e politico-sociali.
Il L. morì a Roma il 29 giugno 1937.
Fonti e Bibl.: Roma, Arch. centr. dello Stato, Ministero dell'Educazione nazionale, Direzione generale dell'ordine universitario, f. personale; Ibid., Università degli studi "La Sapienza", Archivio storico, f. personale; V.E. Orlando, I criteri tecnici per la ricostruzione giuridica del diritto pubblico, in Arch. giuridico, XLII (1889), pp. 107 ss. (poi in Id., Diritto pubblico generale: scritti varii (1881-1940) coordinati in sistema, Milano 1940, pp. 3 ss.); V. Manzini, Codice penale, in Digesto italiano, VII, Roma 1927, pp. 497 ss.; Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, Roma 1929, V, parte II; V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, I, Torino 1950, pp. 73 ss.; F.P. Gabrieli, L. S., in Nuovissimo Digesto italiano, Torino 1963, p. 1071 (con elenco completo delle opere del L.); F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, Padova 2001, pp. LVII-LIX.