GIOVANINETTI, Silvio
Nacque a Saluzzo, il 29 genn. 1901, da Vito e Giuseppina Moiso. La famiglia si trasferì ben presto a Genova, dove il G. compì i suoi studi e dove visse stabilmente fino all'inizio della seconda guerra mondiale.
Fin da ragazzo egli aveva rivelato sicure propensioni per il giornalismo e per il teatro, in particolar modo per la scrittura drammaturgica e la critica teatrale militante.
Nel 1926 la compagnia di Tatiana Pavlova mise in scena il suo atto unico Ombre al politeama Regina Margherita di Genova; presso lo stesso teatro, nel 1930, fu rappresentato dalla compagnia primaria Merlini-Cimara-Tofano La signora di Belmonte, dramma in tre atti; l'anno successivo fu la volta di Le avventure di un bastone (Salsomaggiore, teatro Ferrario); e, di nuovo al politeama di Genova, nel 1932, la compagnia Palmer allestì Gli ipocriti; questo dramma in tre atti rivelò all'attenzione del pubblico teatrale e della stessa critica le potenzialità espressive del Giovaninetti. Con la scrittura di Gli ultimi romantici, in tre atti, messo in scena dalla compagnia di Paola Borboni all'Argentina di Roma nel 1934, si chiude il periodo iniziale del lavoro drammaturgico del G., poi in gran parte da lui stesso ripudiato. Dal 1931 al 1942 aveva svolto anche attività di critico drammatico e cinematografico per il Giornale di Genova.
Nel primo lavoro, Ombre, possiamo dire che si evidenziano due degli aspetti fondamentali della sua drammaturgia più matura; il primo di tipo contenutistico: il pensiero e i fantasmi mentali dei personaggi sono trattati come azioni reali; il secondo di tipo formale: battute e dialoghi si sviluppano con un linguaggio dimesso, franto, nervoso, a volte banalmente veristico. Le due commedie successive, La signora di Belmonte e Le avventure di un bastone, si basano sull'intreccio e sulla variazione di alcuni meccanismi tradizionali. Anche Gli ultimi romantici si pone nel solco della tradizione, in particolar modo di quella della "pièce bien faite", con la vicenda scandita parabolicamente attraverso un antefatto, l'esposizione dei nodi drammatici, lo scioglimento finale di essi. Solo Gli ipocriti preannuncia i lavori della maturità e l'inquieta, mai del tutto compiuta, ricerca di adeguare contenuti nuovi a forme altrettanto originali, che si sottraessero soprattutto ai modelli pirandelliani. In questo testo, in cui sono protagoniste due coppie coniugali tra loro amiche, il pensiero dell'adulterio sta di fatto per l'azione stessa del tradimento, e ciò non in senso morale ma per denotare come la forza di istinti irrefrenabili domini i personaggi e i loro grovigli di odi, risentimenti, ricatti, vendette; i fatti concreti, però, vengono a loro volta riassorbiti dai relativi atti di pensiero, bloccandoli in un'apparenza di immobilità, senza vie d'uscita che non siano quelle delle loro peripezie mentali.
La guerra, alla quale partecipò nonostante la non più giovanissima età, fu un'esperienza che segnò profondamente la personalità del G., già chiuso, timido, riservato, schivo. Al termine del conflitto si stabilì a Milano, dove svolse nuovamente attività di critico drammatico per il settimanale Visto e per l'edizione milanese de Il Popolo (dal '46 al '56). Non furono anni facili, perché segnati da una salute malferma (soffriva di un enfisema sempre più minaccioso), da ristrettezze economiche e dalla solitudine, interrotta solo dalle visite che faceva alla vecchia madre nella villa che possedeva a Nervi. Collaborò come redattore alla "fabbrica" della Enciclopedia dello spettacolo e fu per un anno presidente del Sindacato nazionale autori drammatici, che, alla memoria, gli avrebbe assegnato la medaglia d'oro per "merito teatrale".
Nell'immediato dopoguerra, con l'atto unico Ciò che non sai del 1946 (rappresentato lo stesso anno al Festival dell'atto unico a Milano da Lilla Brignone e T. Carraro), inizia la produzione più significativa del G., che passa per il rappresentativo (e molto rappresentato) L'abisso del '48 (Milano, teatro Odeon, compagnia Torrieri-Carraro); Lidia, o L'infinito del '49 (Venezia, stessa compagnia); L'oro matto del '51 (Piccolo Teatro di Milano); Sangue verde del '53 (Schauspielhaus di Zurigo); di minor interesse Carne unica del '58 e I lupi del '62 (pubblicato e rappresentato postumo).
Partendo da una cifra realistica di stampo tradizionale, il G., attraverso influenze prettamente psicoanalitiche, finì per approdare al mistero. I suoi drammi creano atmosfere angosciose, in cui tematiche esoteriche e dimensioni oniriche, momenti ironici e sdoppiamenti, gusto dell'occultismo e ipotesi di reincarnazioni, danno corpo a uno dei tentativi più seri di virare il modello pirandelliano verso il contesto del cosiddetto teatro dei "processi morali" dell'immediato secondo dopoguerra. In realtà il G. si discosta molto da tale contesto sia perché il suo teatro è piuttosto lontano dai problemi determinati dalla realtà storica (con l'eccezione de L'abisso), sia perché per il G. le responsabilità morali sfuggono al controllo dell'individuo, giacché - come dimostrano i personaggi di Lidia, o L'infinito e di Oro matto - questo è portato a sviluppare un misterioso dialogo, fonte di stupore e sbigottimento, con entità cosmiche, forze superiori che lo determinano, istinti inconsci che lo attanagliano; e quando pure l'individuo sia in grado di decidere autonomamente, la responsabilità morale grava sulle sue intenzioni, prima ancora che le sue azioni portino a concreti risultati. Nella visione del G., poi, non è praticabile l'invocazione a una pietà che assolve, come nel teatro di U. Betti; i personaggi dei suoi testi più importanti sono tutti, chi più chi meno, preda e vittime di complessi inconfessabili o di segreti impulsi, in opposizione a quanto essi credono di conoscere di se stessi e a quanto le regole dell'ordine sociale compatiscano. Di fatto, il rischio sotteso all'ispirazione creativa del G. è quello di una cerebralistica e a volte superficiale risoluzione di problematiche di difficile impatto, affidata alla concezione postcartesiana dell'occasionalismo per cui l'atto umano e l'uomo stesso sono "l'occasione" a Dio per rendersi manifesto. È anche per questo che l'opera del G. è stata inquadrata da alcuni critici nell'ambito del teatro spiritualista, in posizione di distacco dalla civiltà tecnologica e dal determinismo scientifico.
Nell'opera sua più riuscita, L'abisso, che potrebbe far parte di un'ipotetica crestomazia della drammaturgia italiana del Novecento, questi temi e forme si realizzano in un equilibrio compositivo di grande vigore drammatico. L'azione si svolge durante la guerra, nell'abitazione di Vera e del marito Donato; la coppia ospita una dottoressa, che ha in cura la loro figlia Bianca, e un professore. Bianca, mai in scena, soffre di crisi depressive in misteriosa corrispondenza con quelle che colpiscono il professore durante le notti di luna piena e mentre gli aerei sorvolano la città. Una medesima frase detta da questi due personaggi, "oltre la barriera", nello stesso momento e in luoghi diversi, dà l'avvio a un'indagine sul comportamento di lui da parte degli altri tre. Il professore, assillato dalle domande, finisce per condurre un autoprocesso, sollecitando i suoi giudici per vanificarne le argomentazioni. Viceversa, in un clima di crescente tensione metafisica, i sospetti aumentano: sarebbe lui il responsabile dell'influsso negativo che agisce sulla psiche della ragazza, creando una sorta di intesa erotica dei loro sistemi sensitivi e di mutua difesa dalle angosce della guerra (simbolo di un "abisso" interiore). Solo vietandogli di chiudersi nella sua camera al primo passaggio degli aerei, i genitori di Bianca riescono a liberarla da quella misteriosa, angosciante influenza.
Il G. morì a Milano il 9 genn. 1962.
Poco prima della sua scomparsa il G. aveva curato, escludendo quasi tutti i testi del periodo prebellico, un'edizione completa e definitiva delle sue opere teatrali, pubblicata postuma: Teatro, I-II, Roma 1962-63. Sono rimasti inediti, e non rappresentati Il sentiero e L'isola nera. Il G. ha anche pubblicato la raccolta di novelle Il paradiso notturno, Bologna 1929; come traduttore va segnalata la sua versione del Gian Gabriele Borkman di H. Ibsen, Torino 1945.
Fonti e Bibl.: Necrologi in Corriere della sera, 10 genn. 1962; Il Tempo, 27 genn. 1962; Sipario, XVII (1962), 190, pp. 17-19. Vedi anche: E. Ferrieri, Novità di teatro, Torino 1952, pp. 158-162; S. D'Amico, Palcoscenico del dopoguerra, Torino 1953, pp. 334-337; A. Fiocco, Correnti spiritualiste nel teatro moderno, Roma 1955, pp. 105-113; E. Possenti, Guida al teatro, Milano 1955, pp. 359-362; V. Pandolfi, Teatro italiano contemporaneo (1945-1959), Milano 1959, pp. 51 s.; S. Torresani, Il teatro italiano negli ultimi vent'anni (1945-1965), Cremona 1965, pp. 138-148; G. Pullini, Teatro italiano del Novecento, Bologna 1971, pp. 108-110; G. Calendoli, S. G., in Letteratura italiana. I contemporanei, diretta da G. Grana, IV, Milano 1974, pp. 415-433; G. Antonucci, Storia del teatro italiano del Novecento, Roma 1986, pp. 172-175; Autori e drammaturgie, a cura di E. Bernard, Roma 1933, s.v.; Enc. dello spettacolo, III, coll. 1322 s.