GAVA, Silvio e Antonio
Silvio Gava nacque il 25 aprile 1901 a Vittorio Veneto da Giambattista e da Domenica Carlet, di modesta famiglia contadina giunta dal vicino Comune di San Vendemmiano. Il padre, un tecnico minerario, morì quando Silvio aveva quattro anni. Dopo la scuola ginnasiale, seguita presso il Seminario vescovile, si trasferì a Treviso per frequentare il Liceo classico e sin da quando era molto giovane iniziò a far parte dell'Azione cattolica. La Grande Guerra sconvolse la sua vita e quella della famiglia, che sfollò a Castellammare di Stabia, dove i Gava ebbero il sostegno e l'aiuto dell'avvocato Adolfo Limarzi, la cui figlia, Irma, sarebbe diventata moglie di Silvio. Limarzi, segretario generale del Comune, trovò lavoro sia a Silvio sia a due sue sorelle, e una nuova casa all'intera famiglia. Quando, il 18 gennaio 1919, Luigi Sturzo fondò il Partito popolare italiano (PPI), Gava s'iscrisse alla sezione di Castellammare, di cui divenne presto segretario. Nel novembre del 1920, durante il secondo congresso nazionale, Sturzo gli propose di assumere la carica di segretario dell'Unione provinciale del lavoro della Provincia di Salerno, con uno stipendio mensile di 600 lire (S. Gava, 1999).
La provincia di Salerno era allora distinta in due zone molto diverse: quella gravitante verso Napoli, con un'agricoltura ricca, industrie conserviere e tessili, con l'industria del ferro a Salerno e con l'artigianato amalfitano; e quella gravitante verso la Calabria, priva di industrie, con la prevalenza di grandi proprietà terriere che privilegiavano l'allevamento del bufalo. In un primo momento Gava si occupò dell'industria tessile e della difesa dei lavoratori di quel settore, per poi passare alla grande questione sociale della terra.
Vi era innanzitutto il problema della valorizzazione delle terre incolte nella pianura del Sele e della revisione dei contratti agrari nella zona di Eboli, temi su cui nell'ottobre del 1921 si giunse a duri scontri: i contadini si contrapposero soprattutto alle grandi famiglie dei Farina, dei Conforti, dei Moscati, dei principi di Angri e dei principi di Migliano, che possedevano quasi il 60% della pianura. Si arrivò così all'occupazione delle terre. Contemporaneamente iniziò un'agitazione per la ripartizione delle terre incolte, che nella piana del Sele raggiungevano circa 30.000 ettari, sfruttate dai grandi proprietari e dai grandi affittuari per il pascolo dei bufali. Il 24 ottobre 1921 Gava organizzò un comizio a Bellizzi e il 26 alla Fabbrica Nuova, dei grandi affittuari fratelli Rago. Della situazione fu informato anche Giovanni Gronchi, nuovo segretario generale della confederazione bianca, che il 29 ottobre si recò dal sottosegretario agli Interni Camillo Corradini e gli fece una dettagliata relazione dei fatti esposti da Gava. Corradini telegrafò al prefetto, che tuttavia difese i proprietari, dopo aver ricevuto l'onorevole Mattia Farina, deputato popolare e capo della potente Associazione agraria salernitana. Anche con Luigi Rago e alcuni suoi dipendenti, tutti armati, si ebbero ulteriori scontri e feriti. Il sindacato cattolico guidato da Gava continuò nella sua azione rivendicatrice che, però, divenne sempre più difficile. Soprattutto dopo che Farina, nel 1924, trovò posto nel listone del Partito nazionale fascista (PNF).
Nonostante il totale impegno politico, Silvio Gava riuscì a laurearsi in giurisprudenza nel luglio del 1923. Il 12 dicembre 1925 sposò, quindi, Irma Limarzi, dalla quale ebbe otto figli: Antonio, Rosario, Laura, Livia, Maria, Gianni, Roberto e Anna. Con il fascismo non potè più occuparsi di politica e si dedicò alla professione, per esercitare la quale dovette, comunque, iscriversi al sindacato.
Con il declino del fascismo e la fine della guerra riprese la vita politica, mantenendo a Roma i contatti con Giuseppe Spataro, che teneva le fila clandestine. Per Napoli e la Campania a tenere i contatti erano l'avvocato generale dello Stato Francesco Selvaggi, l'avvocato Mario Riccio e, saltuariamente, l'ingegnere Mario Origo. Molto attivo sul piano sindacale fu Domenico Colasanto. Intanto, nel 1944, un gruppo di amici, sotto l'influenza di Giulio Rodinò, fondò il quotidiano Il Domani d'Italia di cui Gava divenne il direttore. Con l'elezione a senatore, il 2 novembre 1948, lasciò il giornale a Gustavo Selva.
A Napoli non fu facile organizzare la Democrazia cristiana (DC): i cattolici napoletani non riuscirono subito a rappresentarsi organicamente nella vita politica. I migliori esponenti appartenevano a famiglie eminenti della città o della provincia, al mondo delle professioni; erano legati alla Curia, all'associazionismo, al sindacato. La leadership era sicuramente in mano a un gruppo ristretto, molto coeso, a volte anche da vincoli parentali, ma soprattutto da scambi continui che lo rendevano un po' chiuso e, comunque, cementato dalla frequentazione assidua e comune delle associazioni cattoliche e della Chiesa: non è un caso che tra le prime figure di rilievo si debba annoverare Rodinò, come molti dei suoi figli e, poi, Francesco Degni, docente di diritto, avvocato, sottosegretario di Giovanni Giolitti, suo figlio Beniamino, Leopoldo Rubinacci, Angelo Raffaele Jervolino, l'avvocato Mauro Leone e suo figlio Giovanni. Verranno in seguito Domenico Colasanto e Silvio Gava, ambedue sindacalisti. Si trattava, quindi, di un mondo un po' refrattario all'organizzazione e, tanto più, alla macchina di partito.
In realtà, Il primo che avrebbe pensato alla necessità di un partito organizzato, proprio per fronteggiare l’efficienza del Partito comunista italiano (PCI), sarebbe stato negli anni Sessanta solo il figlio di Silvio, Antonio, anticomunista convinto e fautore di una spersonalizzazione della politica a vantaggio di un rafforzamento del sistema di partito. A partire dalla metà degli anni Cinquanta Silvio Gava poteva quindi dirsi un notabile legato alla destra cattolica della città e alla destra economica, rappresentata da Giuseppe Cenzato, Giulio Rodinò; Marcello Rodinò, dirigente della Sme (la Società meridionale elettricità dell'IRI, passata negli anni Sessanta al settore agro-alimentare) e della Rai; e Achille Lauro, su posizioni contrarie a qualsiasi intervento dello Stato in economia (Napoli, Carte della famiglia Rodinò, diario inedito di Marcello Rodinò, vol. 4, pp. 17-19).
Tra il 1953 e il 1955 il segretario provinciale a Napoli della DC era un fanfaniano che cercò il compromesso con l'amministrazione Lauro; alla fine del 1955, al congresso provinciale, riuscì invece vincitrice la corrente gronchiana. In generale, però, i notabili del Partito continuarono a prevalere. Ancora tra il 1958 e il 1959 la DC napoletana si presentava come un arcipelago di individui che formavano alleanze secondo convenienze del momento e tendenze personali. Non a caso durante i dibattiti l'accusa di 'personalismo' diveniva frequente e le differenze ideologiche non rappresentavano che pure e semplici schermature per motivare nuovi e vecchi posizionamenti, nuove alleanze, ritorni e confluenze. D'altra parte era la stessa fluidità e inaffidabilità delle alleanze a rendere debole il Partito. Insomma la DC, alla fine degli anni Cinquanta, non era ancora in grado di fornire sul piano politico proposte concrete e un'alternativa alla destra locale.
Agli inizi degli anni Sessanta non si poteva, dunque, dire che Silvio Gava fosse il leader della DC napoletana: una DC, oltretutto, molto più presente e viva in provincia che nel capoluogo. Tra i promotori prima del PPI e poi della DC, Gava lo si poteva ritenere tra le figure che contavano sul piano nazionale, così come sul piano locale. E fu, probabilmente, proprio il ruolo avuto a Roma a fargli acquisire una certa influenza in provincia. Napoli, comunque, non sarebbe mai stata conquistata. Tanto è vero che anche nel governo di quella città, alla fine della 'prima repubblica', le più lunghe amministrazioni sarebbero risultate quella laurina (1952-1958 e 1960-1961) e quella del sindaco comunista Maurizio Valenzi (1975-1983). Napoli avrebbe avuto sindaci democristiani per poco più di cinque anni.
Con Paolo Emilio Taviani, Aldo Moro, Antonino Gullotti, Flaminio Piccoli e Mariano Rumor, Gava fece parte di quegli «uomini nuovi, usciti dal convegno della Domus Mariae, che assunsero la gestione del Partito» (De Rosa, Introduzione a Rumor, 2007, p. 20). Esauritasi la «vecchia guardia popolare» (Rumor, 1970, p. 159), furono questi uomini a governare. Tra loro, secondo Rumor, anche Antonio Segni, Ezio Vanoni, Adone Zoli, Stanislao Ceschi, Umberto Merlin e Mario Scelba. «Erano [uomini con] uno spiccato senso del potere, uno spirito di fazione e una venatura di intemperanza che adombravano l'immagine del raggruppamento con un certo velo di arroganza» (p. 159). Gava, che si era messo in evidenza già prima del fascismo, dopo la seconda guerra mondiale venne riconosciuto tra i capi nazionali, e da frequentatore della politica romana divenne esperto sia delle dinamiche del partito centrale, sia della macchina statale. Fu un politico moderato-conservatore, un mediatore tra le posizioni a volte estreme della DC. Forse più che Alcide De Gasperi, fu Sturzo il suo riferimento ideale.
La sua carriera si sviluppò attraverso incarichi ministeriali e parlamentari. Nel novembre del 1949 fu nominato sottosegretario al Tesoro. Iniziò, quindi, a collaborare con Giuseppe Pella, allora ministro. Nel settimo governo De Gasperi divenne sottosegretario di Vanoni, ministro delle Finanze. Nell'ottavo governo De Gasperi fu nominato ministro dell'Industria. Dopo la crisi dell'ottavo governo De Gasperi, dal luglio del 1953 al maggio del 1957, si susseguirono i governi Pella, Fanfani, Scelba, nei quali Gava fu confermato ministro del Tesoro. Alle elezioni per il presidente della Repubblica, nel 1955, votò per Cesare Merzagora, non condividendo la politica interna ed estera di Gronchi, che risultò però eletto: un contrasto che si sarebbe tradotto nelle linee di politica economica, essendo Gronchi per una politica da parte dello Stato più interventista, mentre Gava era rispettoso della continua conferma della copertura di bilancio. Questo contrasto lo avrebbe condotto, il 10 gennaio 1956, a dimettersi da ministro: nella seduta dell'8 gennaio 1956 in Consiglio dei ministri, si svolse un'accesa discussione sulla proposta, sostenuta da Segni, di aumentare la spesa per il trattamento economico degli insegnanti. La tesi del presidente del Consiglio e del ministro della Pubblica istruzione fu approvata dalla maggioranza con il voto contrario di Vanoni, ministro del Bilancio e, appunto, di Gava, che decise di dimettersi. In Senato, il 15 febbraio 1956, le dimissioni furono discusse, tra gli altri, da un Vanoni che, nonostante le gravi condizioni di salute, confermò la stima nei confronti del senatore stabiese.
Con l'avvento del centro-sinistra e con l'inaugurazione di una politica economica più interventista da parte dello Stato, Gava smise di ricoprire cariche ministeriali. Dal 1960 al 1968 fu presidente del gruppo democristiano al Senato. Tornò al governo con Rumor, come ministro della Giustizia. Nel secondo governo Rumor tornò all'Industria. Dal 1972 al 1974 fu, infine, ministro senza portafoglio per la riforma della Pubblica amministrazione. Nelle sue memorie è chiaro, comunque, un giudizio positivo degli anni Cinquanta e uno negativo dei successivi. «I primi accenni al tramonto della stagione innocente li avvertii da ministro del Tesoro del Governo Segni». In occasione della vicenda relativa agli insegnanti, dopo che in Consiglio si era finalmente raggiunto l'accordo, un ministro democristiano concesse alla stampa dichiarazioni di dissenso non disapprovate dal Presidente del Consiglio. Fu questo per Gava il segno del «tramonto di un costume politico, mai più ripristinato» (S. Gava, 1999, p. 441).
Silvio Gava, dopo queste esperienze, si ritirò di fatto dalla politica. Morì a Roma il 23 dicembre 1999.
Antonio Gava fu tra i figli di Silvio quello con maggiore predisposizione per la politica. Nato a Castellammare di Stabia il 30 luglio 1930, seguì un percorso diverso da quello del padre. Laureatosi in giurisprudenza nel 1954, si dedicò alla professione forense e alla ricerca, conseguendo nel 1959 la libera docenza in contabilità di Stato, materia che insegnò, poi, come incaricato della facoltà di economia e commercio dell'Università di Napoli. Formatosi nelle file dell'Azione cattolica, di cui rimase sempre attivo militante, fin da giovanissimo fece attività politica nella DC, dirigendo prima il movimento giovanile e poi ricoprendo incarichi direttivi nella sezione di Castellammare. A ventidue anni fu eletto nel comitato provinciale di Napoli e nominato componente della giunta provinciale esecutiva con l'incarico di dirigente dell'Ufficio elettorale e poi dell'Ufficio provinciale enti locali. Divenne in seguito presidente dell'Unione provinciale enti locali di Napoli. Nel novembre del 1960 fu eletto consigliere provinciale e capo gruppo consiliare della DC, incarico che ricoprì fino al 14 luglio 1961, quando divenne presidente dell'amministrazione provinciale di Napoli. Forte sul piano elettorale soprattutto in provincia di Napoli, Gava non riuscì mai ad avere un grande consenso nella città di Napoli. Solo tra il 1965 e il 1970 sarebbe riuscito a controllare la DC sia sul piano cittadino, sia su quello provinciale. Con sindaco Giovanni Principe, suo uomo, si giunse, per la prima volta nella storia della città, a un governo stabile a conduzione DC. Allora si realizzarono le più significative trasformazioni urbanistiche. Protagonista di questa politica fu l'assessore alla programmazione economica e urbanistica Alberto Servidio, appartenente alla corrente fanfaniana.
Dopo pochi anni, nel momento del massimo controllo da parte di Gava del partito napoletano, iniziarono a manifestarsi forti opposizioni. Gava iniziò a essere definito un conservatore sia per la linea politica, sia per la conduzione del Partito. Durante l'attività precongressuale dei primi mesi del 1969, proprio Gava, polemizzando con Vincenzo Scotti, insisteva sul fatto che non si potesse assegnare con facilità l'etichetta di 'avanzato' o di 'conservatore' e che tali etichette non potevano essere «apposte da tizio e da caio a proprio comodo, perché gli uomini si misurano per le loro azioni e per il loro passato, oltre che per ciò in cui effettivamente credono: lasciamo volentieri agli altri – continuava Gava nei confronti di Scotti – la patente di progressista». «A chi parla di feudo di potere doroteo a Napoli» – aggiungeva – «citiamo ad esempio proprio l'on. Scotti; venne venticinque giorni prima delle elezioni e fu accolto con la consueta ospitalità napoletana, certo perchè capace ed intelligente, ma anche perchè a Napoli forse vi è maggiore libertà che in altra parte della regione campana, che pure aveva coltivato per anni» (Il Mattino, 8 maggio 1969).
Al congresso regionale, tenutosi al Teatro Mediterraneo a partire dal 14 giugno, furono presentate sette mozioni: dai dorotei, dai fanfaniani, dalla sinistra di Base, dalla Nuova Sinistra, dai morotei, dai tavianei e una da Forze Nuove (Il Mattino, 15 giugno 1969). Le forze in campo a livello regionale vedevano i dorotei con leader Antonio Gava, la Nuova Sinistra guidata da Fiorentino Sullo, la Sinistra di Base da Ciriaco De Mita, Forze Nuove da Vincenzo Scotti, i morotei dal sottosegretario Elio Rosati, mentre i fanfaniani avevano capi provinciali come Giacinto Bosco per Caserta, Bernardo D'Arezzo per Salerno e Paolo Barbi per Napoli (Il Mattino, 16 giugno 1969). Il congresso elesse al congresso nazionale della DC venti delegati della corrente dorotea, sedici fanfaniani, undici della Base, otto di Nuova Sinistra, sei morotei, quattro tavianei e due di Forze Nuove. Particolarmente incisivo fu l'intervento di Ciriaco De Mita che, esplicitamente, sottolineò l'urgenza per il Partito di crearsi una nuova maggioranza. Dopo aver fatto una serrata critica al doroteismo, come momento moderato e involutivo attestato su posizioni di pura logica di potere, senza alcun tentativo di giustificare politicamente le varie scelte, De Mita sostenne che «questa azione moderata della DC ha provocato le involuzioni del PSU ed il pericolo della sua spaccatura verticale, con grave danno per la democrazia del nostro paese» (Il Mattino, 17 giugno 1969). In pratica, il congresso rappresentò il momento iniziale di uno scontro tra Gava e De Mita. Il leader avellinese cercò di delegittimare il leader stabiese secondo la dicotomia progresso/conservazione e tenne a presentarsi come politico più sensibile alle aperture verso il PCI. I due posero le premesse per una vera e propria lotta nel Partito e di potere.
Nel frattempo mutarono gli equilibri nazionali. A Piccoli, segretario nazionale della DC da gennaio a dicembre del 1969, e al quale Gava era molto legato, successe, infatti, Arnaldo Forlani, con De Mita vicesegretario. Le ripercussioni si fecero sentire soprattutto a livello regionale, dove cambiarono molte alleanze. In particolare, l'ex segretario cittadino di Napoli lasciò Gava per il gruppo Colombo-Andreotti, mentre le sinistre, anche napoletane, trassero forza dalle prevalenze nelle altre province. De Mita e Fiorentino Sullo finirono per conquistare Avellino e Salerno e i morotei il Casertano. Una intesa di massima finì infine per delinearsi tra De Mita, Ferdinando Clemente e Scotti. Anche la sinistra di Ugo Grippo aderì al gruppo delle sinistre. In qualche modo, i fanfaniani finirono per diventare gli arbitri della situazione (Il Mattino, 31 gennaio 1970). Come previsto, il congresso si caratterizzò per il duro attacco di De Mita ai dorotei e all'egemonia napoletana (Il Mattino, 2 febbraio 1970). Il risultato finale fu favorevole al vicesegretario nazionale. Nel nuovo comitato regionale entrarono ventitre rappresentanti del cartello delle sinistre, quattordici dei fanfaniani, tredici del gruppo Rumor-Piccoli, quattro dei tavianei, tre degli amici di Colombo e Giulio Andreotti, tre dei coltivatori diretti (Il Mattino, 3 febbraio 1970). Ai primi di luglio i fanfaniani ottennero la segreteria regionale del Partito e il capogruppo consiliare alla Regione.
La nascita della Regione Campania provocò una trasformazione dei vecchi e collaudati equilibri di potere. In effetti, come avrebbe dichiarato lo stesso Gava, «a Napoli esiste un problema e riguarda la lotta tra noi e la “base” di De Mita» (L. Giurato, Gava nega tutto, anche le sezioni occupate dai ribelli contro di lui, in La Stampa, 14 gennaio 1972), un De Mita che non aveva mai digerito il predominio gavianeo e di Napoli, a partire dalla localizzazione dell'Alfa Sud: l'area più razionale per far sorgere l'Alfa Sud era stata indicata nella zona tra Nola e Baiano, ovvero verso l'Avellinese; invece lo stabilimento fu realizzato a Pomigliano, in provincia di Napoli. De Mita avrebbe voluto investimenti lungo la direttrice Caianello-Benevento-Salerno piuttosto che sempre e solo verso Napoli. La lotta divenne, dunque, non solo tra De Mita e Gava, ma anche tra De Mita e il napoletano Leopoldo Medugno, direttore generale dell'Iri (M. Monicelli, I provinciali vanno all'assalto, in L'Espresso, 27 agosto 1972; G. Invernizzi, Sua maestà Ciriaco Primo, in L'Espresso, 2 dicembre 1973). Lo scontro finì per accentuarsi intorno al controllo della Regione.
Il passaggio dal piano provinciale a quello regionale comportò una nuova configurazione del potere locale e determinò un primo ridimensionamento dell'influenza di Antonio Gava, che nel 1972 decise di farsi eleggere al Parlamento e di non impegnarsi più direttamente nella politica locale (Musella, 2000, pp. 35 s.). A livello nazionale continuò a ricoprire cariche interne al Partito, che divenne sempre più una sua preoccupazione, anteposta a una politica personale e di primo piano. Ritenne, quindi, priotaria, «una organizzazione diffusa sul territorio, strumento di elaborazione programmatica e di orientamento a vari livelli, dalle amministrazioni locali fino alla rappresentanza parlamentare e a compiti di governo» (Forlani in Gava, 2005, p. XIII). Con Piccoli segretario, nel 1979 Gava divenne capo della segreteria.
A Roma seppe distinguersi come tessitore di alleanze e come conoscitore e padrone della macchina dello Stato. «Posso affermare» – dichiarò poi ai magistrati un suo alleato politico, Raffaele Russo – «che nessun incarico di rilievo, sia nella magistratura che in altri settori istituzionali, per un lungo lasso di tempo era possibile acquisire senza il beneplacito o la non opposizione di Gava. Questo valeva per i capi degli uffici direttivi giudiziari, per i dirigenti degli uffici di polizia, come per qualsiasi altro incarico istituzionale o paraistituzionale» (Musella, 2000, p. 38).
Al governo Antonio Gava ci arrivò nel 1980, come ministro dei Rapporti con il Parlamento. Presidente del Consiglio era Arnaldo Forlani. Il governo durò poco meno di un anno per i contrasti tra Giorgio La Malfa e Beniamino Andreatta. Tra il 1983 e il 1987 fu ministro delle Poste e delle Telecomunicazioni nei governi presieduti da Bettino Craxi. Si trovò, quindi, «nel mezzo dello scontro fra Craxi e De Mita, segretario della DC, sulla riforma del sistema televisivo» (Gava, 2005, p. 184). Riforma che trovò definitiva sistemazione nella legge preparata dal ministro repubblicano Oscar Mammì e approvata dal Parlamento il 1° agosto 1990. Con Gava ministro si giunse al decreto n. 807 del 1984 che consentì alle emittenti private di trasmettere su tutto il territorio nazionale attraverso le videocassette. Il decreto fu preparato dal capo di gabinetto di Gava, il presidente Mario Napolitano, e dall'ufficio legislativo del ministero. Nel governo Goria ricoprì la carica di ministro delle Finanze, in quello De Mita e in quello Andreotti fu, infine, ministro dell'Interno.
Il 17 agosto 1990, Gava, in vacanza con la moglie, Giuliana Marson, originaria di Vittorio Veneto e madre di Angelo, Marco e Antonella, fu colpito da un ictus: fu l'inizio del suo declino.
Quando si poteva ritenere finito il suo percorso politico, Antonio Gava fu accusato di aver avuto rapporti con la camorra. «Gava il camorrista». Con questo titolo sulla prima pagina del 21 settembre 1994 uscì, infatti, la Repubblica. Gava era stato arrestato all’alba e gli erano stati sequestrati beni per migliaia di miliardi di lire (G. Marino - O. Ragone, Arresto all’alba per Gava, in la Repubblica, 21 settembre 1994). L’accusa era associazione criminale di stampo mafioso. «L’ultima scena di un pezzo di storia contemporanea – scriveva il quotidiano –, la storia del patto scellerato tra politica e grande crimine, è quella di un uomo malfermo sulle gambe; seduto su una branda del carcere militare romano di Forte Boccea». «Don Antonio» – sempre secondo il giornale – «in segreto aveva flirtato con la camorra di Raffaele Cutolo prima, di Carmine Alfieri poi» (Marino - Ragone, 1994). Il giornale raccontava «che dal terremoto dell’80 ai nostri giorni lo sviluppo sociale ed economico della Campania era stato frenato, inquinato dall’accordo tra le istituzioni e il crimine». La «radice del malessere», sempre secondo la Repubblica, stava nel «caso Cirillo», già assessore regionale della Dc. «Sequestrato nell’81 dalle Br, Ciro Cirillo, amico personale di Gava, fu liberato tre mesi più tardi dopo una torbida trattativa tra camorra, brigatisti, servizi segreti e capi dello scudocrociato». Per Cirillo, contrariamente a quanto si era fatto per Moro, la DC trattò. A partire dall’agosto del 1992 aveva iniziato a parlare Pasquale Galasso, boss di un paese dell’area vesuviana. «Galasso, colletto bianco del clan Alfieri, si pente e conferma ai giudici i sospetti che correvano a Napoli: Gava fa parte della camorra, cerca il sostegno dei clan per rafforzare il suo prestigio politico». In pratica, secondo la Repubblica, ma anche un po’ secondo un’immagine che si era andata costruendo nel tempo, il clientelismo finiva per confondersi e per associarsi alla camorra. «La rete clientelare di don Antonio in Campania coincide con la zona controllata da Alfieri» (Marino - Ragone, 1994). Il sistema si articolava ovviamente secondo precise gerarchie.
Le accuse di associazione mafiosa formulate nei confronti di Antonio Gava trovavano le argomentazioni prevalenti nella richiesta al giudice per le indagini preliminari formulata dalla Procura di Napoli il 18 agosto 1994. L’indagine si era occupata del rapporto tra camorra, imprese e politici, del sistema degli appalti pubblici, della gestione del voto elettorale. In effetti, aveva dichiarato nel dicembre del 1992 il 'pentito' Pasquale Galasso, «il rapporto fra i politici e gli amministratori trovava una sua completa realizzazione e totale fusione nel meccanismo degli appalti». In particolare, «mi è risultato evidente che il politico che gestisce il finanziamento dell’appalto e quindi l’assegnazione dello stesso o della relativa concessione fa da mediatore fra la ditta quasi sempre del settentrione o del centro Italia e la camorra». Tale mediazione comportava all’impresa una tangente per il politico e l’assegnazione dei subappalti a ditte controllate dalla camorra. Ciascun politico aveva, poi, proprie ditte di fiducia, che pagavano tangenti non solo al politico cui dovevano quell’assegnazione, ma anche agli altri che controllavano politicamente il territorio (Procura della Repubblica di Napoli, Direzione Distrettuale Antimafia, Richiesta al Gip in relazione al procedimento n° 9086/1992 D. D. A. nei confronti di Agizza Antonio + 101 del 18 agosto 1994, pp. 103 s.). Un tale meccanismo, sempre secondo Galasso, era possibile in quanto esisteva un collegamento stabile tra politici e camorristi. Le «personalità del mondo politico coinvolte» erano tante. «Fra queste la più importante figura era sicuramente quella del senatore Antonio Gava», che aveva nell’area vesuviana «una serie di riferimenti fedelissimi» che gestivano i «suoi interessi politici sulle varie realtà sociali». «Di fatto tutte queste persone o quasi erano altresì in strettissimo rapporto con Carmine Alfieri, e gli assicuravano sia una potentissima base elettorale ed anche una solidissima ed efficiente cerniera per la gestione di quel meccanismo di appalti e subappalti» (pp. 87 s.).
La più completa difesa di Gava si esercitò durante l’audizione di fronte la Commissione parlamentare antimafia, il 10 dicembre 1993. In quell’occasione dichiarò indimostrabile una sua diretta azione a favore della camorra e affermò che l’accusa era del tutto indiretta: «non è che si dica: questo è colpevole perchè Gava ha […]. No, si dice: ha realizzato questo dato di fatto e appartiene alla corrente di Gava» (Commissione Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia, XI Legislatura, Seduta di venerdì 10 dicembre 1993, p. 3277). Non solo insomma, sembrava sostenere Gava, non si può fondare un’accusa su relazioni indirette, ma nemmeno su relazioni che si fondano più sui 'si dice' che su una reale constatazione del rapporto. In realtà, ammettendo pure la realtà di alcuni rapporti tra camorristi e amministratori locali, il coinvolgimento diventava il frutto di un vero e proprio «teorema» (p. 3273). In qualche modo, secondo l’esponente politico, con il modo di ragionare dell’accusa si mettevano in discussione le stesse regole della democrazia che, e non solo in zona di camorra, si erano sempre basate su relazioni che partivano dalla base di una piramide composta essenzialmente da esponenti e capielettori politici che controllavano l’elettorato sul territorio e che conducevano su su fino ai parlamentari, considerati appunto vertice della piramide.
Il 29 novembre 2000 la Corte d'assise assolse con formula ampia l'ex leader democristiano. L'innocenza di Gava venne sancita da una sentenza che fu, invece, assai dura per gran parte degli imputati (solo 17 su 102 le assoluzioni).
Dopo una lunga malattia, Antonio Gava morì a Roma l'8 agosto 2008.
B. Degni, I cattolici di Napoli nella vita politica del paese. Appunti di cronaca di vita vissuta dal 1913 ad oggi, Napoli 1970; P. Allum, Potere e società a Napoli nel dopoguerra, Torino 1975; G. Galasso, Intervista sulla storia di Napoli, a cura di P. Allum, Roma-Bari 1978; S. Minolfi - F. Soverina, L'incerta frontiera: saggio sui consiglieri comunali a Napoli. 1946 - 1992, Napoli 1993; G. Gribaudi - L. Musella, Il processo alla clientela. Il caso di Napoli nelle inchieste giudiziarie degli anni Novanta, in Quaderni storici, 1998, n. 1, pp. 115-142; S. Gava, Il tempo della memoria. Da Sturzo a oggi, presentazione di G. De Rosa, Cava de' Tirreni 1999; L. Musella, Clientelismo. Tradizione e trasformazione della politica italiana tra il 1975 e il 1992, Napoli 2000; P. Allum, Il potere a Napoli. Fine di un lungo dopoguerra, Napoli 2001; Id., Napoli punto e a capo. Partiti, politica e clientelismo: un consuntivo, Napoli 2003; G. Gribaudi, Guerra totale. Tra bombe alleate e violenze naziste. Napoli e il fronte meridionale 1940-1944, Torino 2005; L. Musella, Napoli. Dall'Unità a oggi, Roma 2005; A. Gava, Il certo e il negato, prefazione di A. Forlani, Milano 2005; R.P. Violi, La DC nell'Italia liberata. La dirigenza napoletana e la formazione del partito nel 1943-1944, Napoli 2006; M. Rumor, Memorie (1943-1970), Vicenza 2007, ad ind. (con introduzione di G. De Rosa); L. Musella, Napoli nel racconto della politica 1945-1997, Roma 2016, pp. 71-147.
Foto: ASSR, Fondo Crescente, Ia legislatura, n. 6742