SILVESTRO di Giacomo di Paolo, detto Silvestro Aquilano
SILVESTRO di Giacomo di Paolo, detto Silvestro Aquilano. – Silvestro di Giacomo di Paolo, citato dai documenti anche come Silvestro di Giacomo della Torre e come Silvestro di Giacomo da Sulmona (Chini, 1909, p. 21), è il principale esponente della scuola artistica aquilana del tardo Quattrocento. Figlio dell’orafo Giacomo di Paolo da Sulmona, la cui unica opera ancora esistente, benché alterata, è l’urna di s. Franco nella cripta di S. Maria Assunta ad Assergi (Boffi, 2014), iniziò probabilmente a praticare l’arte nella bottega paterna. La data di nascita, così come il luogo, rimane incerta, anche se è possibile che egli avesse i natali negli anni Quaranta del Quattrocento all’Aquila, dove il padre doveva risiedere stabilmente da tempo, considerato che nel 1467 risultava presente nelle magistrature cittadine (Chini, 1909, p. 15). La sua figura, oggi riconosciuta come tra le significative del suo tempo, anche oltre il panorama aquilano, ha avuto difficoltà ad affermarsi negli studi moderni non solo per i diversi nomi con cui compare nei documenti, e per una possibile sovrapposizione con lo scultore Andrea dell’Aquila (sul quale: Mack Bongiorno, 1944; Caglioti, 1993), ma più in generale per un’assodata disattenzione verso l’arte aquilana. Questa insufficiente considerazione si rintraccia del resto in una delle prime fonti che nominano l’artista, La breve descrittione della città dell’Aquila di Marino Caprucci (La Relazione, 2018, p. 150): «Et passando all’arti pregiate, non mi maraviglio se l’author delle vite degli huomini eccellenti nella scultura et nella pittura [Vasari] non habbia fatto mentione di mastro Silvestro dall’Aquila, scultore a’ suoi tempi eccellentissimo sicome anco fu valentissimo pittore et architettore, perciò ché come huomo non molto ambitioso si contenti dell’opere che lasciò nella sua padria, dove hebbe molto da fare senza cercar la pratica di Roma et delle città più famose in Italia, et però a’ forastieri non ha dato di sé molta notitia»; dove singolarmente si imputa all’artista e non al Vasari la mancata menzione nel testo guida dell’arte italiana (Pezzuto, 2018, p. 45). Prima del Caprucci il nome di Silvestro era comparso nella Breve descrittione di sette città illustri d’Italia pubblicata nel 1582 da Girolamo Pico Fonticulano (1996, p. 73): «Silvestro e Salvato dell’Aquila, scultori eccellentissimi, ferno il portico di Castel Novo di Napoli, il diavolo nel frontespizio della chiesa d’Orvieto, il tabernacolo di s. Bernardino, la sepoltura di Maria Camponesca, et altre opere per l’Italia, nelle quali par che la natura ceda all’arte», citazione che lo avvicina al poco noto Salvato di Girolamo romano, il suo principale collaboratore nella realizzazione della tomba di s. Bernardino nell’omonima chiesa aquilana, e lo sovrappone ad Andrea dell’Aquila imputandogli i lavori napoletani di quest’ultimo. Ancora nel Cinquecento l’unica ulteriore citazione proviene da un altro testo erudito, l’Istoria sacra di Giovan Giuseppe Alferi, che si sofferma su varie opere dell’artista (1589-1590, 2012). La sua fortuna critica e la tarda riscoperta si ebbero a partire dalla metà dell’Ottocento con Angelo Leosini (1848) e altri, ed è discussa dal più attento studioso dell’artista, Mario Chini (1909, pp. 9-11).
Anche se attualmente valutiamo Silvestro principalmente come scultore, le testimonianze antiche ci raccontano di un artista poliedrico, a iniziare dai documenti (Chini, 1909) o dal già citato Caprucci, che nella Relazione sugli apparati effimeri realizzati per l’ingresso all’Aquila di Margherita d’Austria (1569) lo presentava come un maestro in grado di dominare ogni arte: «Né lascieno a dietro maestro Silvestro, il quale havendo in mano lo scarpello, la squadra et il pennello, mostrava in un altro luogo essere stato, sì come fu a’ suoi dì rarissimo scultore, bonissimo architettore, et pittore, come ne fan fede l’opere sue che sono nella città nostra e fuori» (La Relazione, 2018, p. 109), artista completo insomma, capace di esercitare anche l’architettura e la pittura.
Edifici a lui riferibili in modo unanime o documentati tuttavia non esistono, e l’unico dato certo sulla sua attività di architetto è un documento del 1508 che ci ricorda come, prima dell’intervento di Cola dell’Amatrice, la facciata della basilica di S. Bernardino era stata affidata a Silvestro (Chini, 1954, pp. 400-407). Le altre testimonianze relative a cappelle, ovvero una in S. Domenico, nel 1488, in compagnia del fiorentino Francesco Trugi, e una non realizzata e girata a Michele Alemanno (o Tedesco) per S. Maria di Bagno (ibid., pp. 139, 177 s., 426-429), sul finire dell’ottavo decennio del Quattrocento, non sono univoche sul suo ruolo, ovvero se si trattasse di lavori di sola scultura o anche di architettura e pittura. A queste deve essere aggiunta un’altra cappella per Collemaggio (Pezzuto, 2018, p. 41), non eseguita, forse in ragione dell’impegno immane della tomba di s. Bernardino. Il Chini poi, sulla scorta di una tradizione risalente al Leosini (1848, pp. 98, 183), gli attribuisce il palazzo Carli Benedetti e la facciata della chiesa del Soccorso all’Aquila (Chini, 1954, p. 391), attribuzioni recentemente confermate, anche se con cautela, da Carla Bartolomucci (2018) con confronti convincenti, e il palazzo Franchi Fiore, rifiutato all’aquilano da Adriano Ghisetti Giavarina (2019 [2020]), che riconduce entrambi i palazzi alla lezione diretta o indiretta del vicentino Girolamo Pittoni. Anche Mario Centofanti, mentre avalla l’intervento di Silvestro o della sua scuola in palazzo Carli Benedetti, esprime perplessità su palazzo Franchi Fiore (Centofanti, 1997).
L’attività di Silvestro come pittore, pur ampiamente documentata, è oggi praticamente perduta. Di fatto solo la policromia di alcune statue lignee, laddove può essere considerata originale, è l’unico avanzo della sua produzione pittorica. È questo il caso del S. Sebastiano, che reca l’iscrizione «HOC OPV(S) FECIT FIERI DOMINICVS / ANTONII DE [CAPRINIS] DA AQVILA 1478», proveniente dalla chiesa aquilana del Soccorso, e oggi al Museo nazionale d’Abruzzo: per esso si conserva il documento di allogagione, datato al 1° dicembre 1478 (Chini, 1929, pp. 48 s.), in cui si specifica che la statua, secondo un uso assai attestato in città, sarebbe stata «cum tabernacolo, portie et suis historiis». Nel 1476 Silvestro aveva già realizzato qualcosa di simile, ovvero una statua di S. Giacomo «cum tabernacolo storiato de storiis spectantibus et pertinentibus ad dictam imaginem, cum auro et coloribus bonis et perfectis finis» (ibid., pp. 47 s.), su commissione dell’arciprete della cattedrale aquilana e di un membro non specificato della famiglia Paparisco, probabilmente quel Iacopo di Marino de Iacobo alias de Paparisco citato in alcuni documenti coevi (Di Stefano, 1900). Nel 1481 Silvestro si impegnò con i rappresentanti della nazione lombarda – la più potente e numerosa tra quelle presenti all’Aquila – a dipingere, nella loro cappella intitolata a S. Ambrogio nella cattedrale dei Ss. Massimo e Giorgio, una Madonna con i ss. Pietro e Paolo e una Pietà, entrambe con «azzurro fino» (Chini, 1929, p. 49), e successivamente, nel 1485, lavorò nella stessa cappella, senza che il documento specifichi alcunché (Chini, 1954, p. 239). Un ulteriore documento che attesta la sua competenza come pittore è la stima che nel febbraio 1495, insieme a Sebastiano di Cola da Casentino, rese per gli affreschi di Saturnino Gatti in S. Panfilo a Villagrande di Tornimparte (Chini, 1929, pp. 63 s.).
La formazione di Silvestro, dopo il probabile alunnato presso il padre, è ancor oggi oscura, ma è possibile che, seguendo l’esempio di alcuni orafi abruzzesi e aquilani (Nicola da Guardiagrele, Silvestro di Giovanni «de Aquila»), egli si recasse a Firenze scoprendo la sua attitudine alle arti cosiddette maggiori. A Firenze si sarebbe avvicinato all’ambiente degli scultori post-donatelliani, Verrocchio e Antonio Rossellino soprattutto, mentre appare improbabile che abbia potuto conoscere Desiderio da Settignano (sulla congiuntura verrocchiesca dell’arte aquilana: Angelini, 2003). Sulla sua educazione esiste anche un’opinione minoritaria che lo ritiene formatosi a Roma (Torlontano, 2008), per i molti rimandi alla cultura bregnesca, i quali però, vale la pena di sottolinearlo, sono sempre e solo di schema architettonico e mai di stile. Il primo documento che riguarda Silvestro data appunto all’8 dicembre 1471 («Apotissa locationis apothece pro Silvestro Iacobi de Sulmona et Iohanne Blasciutii de Fonte Iannis Vignuni»), ed è la locazione per cinque anni, assieme allo scultore Giovanni di Biasuccio da Fonteavignone, di un locale posto davanti all’antica chiesa parrocchiale di S. Lorenzo nel quartiere di S. Vittorino, di proprietà della parrocchia di S. Anza (Chini, 1909, p. 30; Id., 1954, p. 423; Torlontano, 2008, p. 504). Tenuto conto della datazione e del tipo di atto, è ragionevole immaginare che Silvestro, sebbene non ancora pienamente affermato, fosse già in grado di sostenere l’onere di una bottega, anche se in condivisione con un artista più anziano come Giovanni di Biasuccio, e che quindi fosse nato nel quinto decennio del Quattrocento (Di Gennaro, 2010, p. 60).
Le opere di scalpello, di sgorbia e di stecca di Silvestro pervenuteci sono assai meno di quelle documentate, e tale corpus non è univoco. I documenti riguardanti questa disciplina partono dal 1476, quando ricevé l’allogagione per la già citata statua lignea del S. Giacomo, ben cinque anni dopo la prima attestazione concernente l’affitto della bottega. Nel 1477 Tommaso d’Ocre, arciprete di S. Vittorino, affidò a Silvestro Aquilano la realizzazione di un fonte battesimale per la chiesa di S. Biagio (Chini, 1954, p. 178). Le due opere sono entrambe perdute, mentre, anche se molto modificata e dispersa, esiste ancora la tomba di uno dei più importanti aquilani di tutti i tempi, il cardinale Amico Agnifili, commissionata verosimilmente dai rappresentanti del capitolo della cattedrale dopo la morte dell’alto prelato, avvenuta il 9 novembre 1476 (Di Gennaro, 2010, p. 65). Il sepolcro si trovava nella cappella a destra dell’altare maggiore, fatta edificare precedentemente dallo stesso cardinale (De Nicola, 1908, p. 4), ed era composto, come è possibile ricostruire sulla base di un prezioso contratto stipulato tra Silvestro stesso e un maestro lapicida lombardo di nome Giovanni, che gli fornì i pezzi già sgrossati di pietra della cava di Poggio Picenze (Chini, 1954, pp. 188 s.; Di Gennaro, 2010, p. 65, nota 22), dall’arca vera e propria con il gisant al di sopra, e dalla base con i putti che reggono lo stemma del cardinale (un agnello sormontato da un libro), mentre più in basso sono altri due stemmi Agnifili, ascrivibili però agli eredi del celebre porporato, come si evince dalla presenza di elmi cavallereschi al posto del galero cardinalizio. A queste parti, che dal 1887 sono murate nella controfacciata della cattedrale (Serra, 1929) per effetto del terremoto che sconvolse l’Aquila nel 1703, si deve aggiungere il S. Massimo, posto all’ingresso della sacrestia, che insieme al S. Giorgio, venduto dai canonici del duomo all’inizio del Novecento (Chini, 1954, p. 186), doveva trovarsi ai lati del monumento, secondo la tipologia funeraria invalsa a Roma con Andrea Bregno. Alla sommità era posta la lunetta con la Vergine col Bambino benedicente tra due serafini che attualmente orna l’ingresso laterale della chiesa di S. Marciano (Leosini, 1848, p. 136). Questo lavoro, se dal punto di vista strutturale dipende anche dagli esempi romani (ma a differenza del modello bregnesco i santi dei pilastri laterali sono completamente liberi nello spazio), ha come riferimento principale la tomba Marsuppini di Desiderio da Settignano in S. Croce a Firenze, rivisitata nello stile del Verrocchio (Di Gennaro, 2010, pp. 65-67). L’opera fu terminata nel 1480, come riporta l’epigrafe scolpita sulla cassa, ed è l’unica che reca il nome di Silvestro «OPVS SILVESTRI AQVILANI MCCCCLXXX».
Durante la lavorazione del monumento Agnifili, nel dicembre del 1478, per celebrare la fine di una pestilenza particolarmente grave, Silvestro fu chiamato da Domenico Caprini da Arischia a realizzare la già citata statua lignea del S. Sebastiano, con la sua cassa e attorno storie della vita del martire, per la chiesa di S. Maria del Soccorso; dopo i grandi monumenti lapidei si tratta della sua opera più celebre. Oggi conservata al Museo nazionale d’Abruzzo, presenta la sua policromia originale, ma ha perso le frecce che tormentavano il corpo del santo aggiungendo ulteriore pathos (in alcune foto d’epoca – De Nicola, 1908, p. 4 – sono ancora visibili gli strali, ma certo non quelli originali, perduti in data imprecisabile).
Nel 1488 Silvestro ricevette da Maria Pereyra Camponeschi la commissione della tomba per la figlioletta Beatrice, premortale, e per lei stessa (Di Gennaro, 2010, p. 76). A partire da Ferdinando Bologna (1996a, pp. 490 s., ma già Pasquale Rotondi nel 1952 aveva proposto per la formazione di Silvestro una poco credibile esperienza marchigiana sotto l’egida di Francesco di Simone Ferrucci), è stato visto in quest’opera un punto di svolta, con l’avvicinamento alla cultura urbinate, pur con la persistenza di influssi romani e fiorentini.
La tomba consiste in una profonda nicchia ad arco con all’esterno candelabri e festoni vegetali. Dai semipilastri che reggono la struttura si stagliano sulla sinistra i ss. Maria Maddalena e Giovanni Battista e sulla destra i ss. Caterina d’Alessandria e Francesco. Al centro il sarcofago della vedova di Lalle Camponeschi – un tempo conte di Montorio, ovvero l’uomo più potente dell’Aquila – con sopra la figura della defunta rappresenta, insieme al simulacro sottostante della figlia Beatrice, il vero apice dell’arte di Silvestro. Ai lati della bambina sono due putti di sapore rosselliniano con lo stemma dei Camponeschi (cinque monti) e nello zoccolo gli stemmi Camponeschi e Pereyra.
In contemporanea con l’esecuzione della tomba, e in stretta connessione con la figura della defunta, si deve collocare la Madonna della Pace di Ancarano (TE), commissionata il 9 settembre 1489 (Bologna, 1996a), mentre alla metà del decennio successivo lo scultore realizzò la Madonna dei Lumi di Campli, posta nel 1532 in un altare firmato da Sebastiano da Como, dove furono ricollocati anche due pannelli con una serie di Santi di Cola dell’Amatrice (Bologna, 1996b) pensati ab origine (1510) quali completamento del gruppo scultoreo (De Gennaro, 2018).
Nel 1487 fu segnalata la disponibilità da parte di un anonimo donatore, da identificare con Jacopo di Notar Nanni, di finanziare una nuova tomba di s. Bernardino (Berardi, 2005). I lavori, tuttavia, dovettero iniziare qualche anno più tardi, forse per i molti impegni di Silvestro in quel periodo. Per realizzare quello che può essere considerato il suo contributo principale all’arte scultorea italiana, soprattutto in fatto di complessità, Silvestro si avvalse della collaborazione di Salvato di Girolamo detto Salvato Romano e di Angelo di Marco da Arischia, suo nipote ed erede (Chini, 1954, p. 345). La tomba ha una pianta quadrangolare allusiva a un tempio classico (o, ancor meglio, all’idea che si poteva avere al tempo del mausoleo di Alicarnasso, richiamato nell’iscrizione posta sul retro – la laus operis – dai nomi di tre dei suoi quattro autori, Briasside, Timoteo e Skopas; sull’importanza della lapide per la storia della ricezione dell’arte greca in Italia: Beschi, 1986, p. 302) con un rivestimento ornamentale di paraste e candelabre, ma invece di un timpano triangolare presenta una fronte ad arco. Sul donatore – oltre alle considerazioni di Francesco Caglioti (2011, p. 52, nota 88) –, sui rapporti dell’opera con precedenti micro-architetture all’interno di edifici sacri e più in generale sulla struttura della tomba, avvicinabile a varie soluzioni bregnesche, come l’ancona del cardinal Rodrigo Borgia in S. Maria del Popolo a Roma o l’edicola che conserva l’immagine miracolosa della Madonna della Quercia nei pressi di Viterbo, si sono soffermati gli studi di Pavla Langer, riassunti da ultimo nella sua tesi di dottorato (2020). Se la struttura e parte dell’apparato decorativo aniconico rimandano alla cultura romana, lo stile è indubitabilmente, almeno per le parti riferibili a Silvestro e a suo nipote Angelo, orientato verso Firenze, vero faro del maestro aquilano, come dimostra anche l’analisi delle proporzioni interne della tomba, fondate sull’unità di misura fiorentina del braccio (Ruggieri, 2006, p. 232).
La tomba, costruita con la pietra delle cave di Vigliano, nonostante il crollo della volta durante il sisma del 1703 è ancora ben conservata salvo alcune cadute e rotture (Maccherini, 2018, pp. 51 s.). Volendo considerare il monumento complessivamente come opera di Silvestro, è però necessario distinguere certe parti più deboli, ma omogenee nello stile, da riferire al nipote Angelo, e alcune assolutamente lontane dalla cultura dell’aquilano, come gli angeli che coronano nella parte alta il Dio Padre, eseguiti in blocchi separati dalla figura principale, e forse frutto di un restauro successivo al terremoto del 1703 (Rusconi, 1906, p. 38), l’Imago Pietatis nel retro, e infine la Commendatio animaeovvero la raffigurazione centrale con s. Bernardino che introduce Iacopo di Notar Nanni alla Vergine e al Bambino alla presenza di Giovanni da Capestrano. La cultura espressa da questi rilievi ricorda certi personaggi del coté romano vicino al Bregno, come Luigi Capponi (cfr. Bologna, 2018, che però lo evoca per altre parti della tomba), e saranno da riferire a Salvato di Girolamo.
La tomba fu terminata nel 1505, come ricorda una lapide nella parte anteriore, quando sia il donatore sia l’autore principale erano scomparsi da un anno. È possibile che nel progetto originale la fronte della tomba dovesse accogliere una gloria del santo e che solo dopo la morte di Jacopo si decidesse di celebrarne la pietà e generosità (per il suo testamento: Pansa, 1894, pp. 14 s.). Ancora vivo, per il diritto canonico, non sarebbe stato possibile raffigurare Jacopo di Notar Nanni in una forma così manifesta. Allo stesso modo, se non fosse venuto a mancare anche Silvestro, difficilmente sarebbe stato affidato a un aiuto il rilievo principale.
Mentre Silvestro approntava il mausoleo di s. Bernardino, il 6 di novembre 1494 ricevette la commissione per una Madonna col Bambino da parte di «Madonna Vannuccia moglie et herede delli Venga della Genca» con successivi pagamenti il 15 aprile 1499 e il 20 settembre 1500. Si tratta di un’opera in terracotta che al tempo del Leosini, che per primo rese noti i documenti, si trovava nella sagrestia di S. Bernardino (1848, p. 202). L’opera è oggi da identificare con quella posta nella cappella delle Grazie ma, a causa dei numerosi restauri, risulta difficilmente giudicabile.
Sempre in S. Bernardino, a partire da Salvatore Massonio (1614), vengono attribuiti a Silvestro il S. Francesco e il S. Bernardino dell’altare maggiore, che recentemente invece sono stati riferiti a Pietro Torrigiano (Caglioti, 2019).
Altre opere attribuite a Silvestro sono la Madonna col Bambino del Museo nazionale d’Abruzzo, proveniente della chiesa di S. Margherita (Di Gennaro, 2010, pp. 62 s.); il S. Giovanni Evangelista in pietra pubblicato per la prima volta da Germano Boffi, ma attribuito da Giancarlo Gentilini (Boffi, 2008, p. 41), che deve essere datato, come ha poi rettificato Rosanna Torlontano (2008, pp. 491, 503), alla sua prima fase; una Madonna lignea affine a quella di Ancarano, pubblicata da Ferdinando Bologna (1996a, p. 493); un’altra Madonna lignea, proveniente dalla cattedrale dei Ss. Massimo e Giorgio, e di qualità inferiore, riferita a Silvestro da Leo Planiscig (secondo quanto riportato in Bellini, 2009); un’ulteriore Madonna in terracotta, purtroppo ridotta al solo busto, al Davis Museum at Wellesley College (Massachusetts), pubblicata per la prima volta nel 1915 (Bapst, 1915); e un S. Sebastiano ligneo nella chiesa di S. Maria ad Nives a Rocca di Mezzo (Principi, 2015), certamente affine al nostro, ma forse di qualità non sufficiente per aspirare alla completa autografia. Per le sovrabbondanti ridipinture non pare giudicabile, invece, il S. Giovanni Battista riferitogli da Germano Boffi (2010).
Non sono note le circostanze della morte di Silvestro, ma è possibile ricavare la data dal libro dei fuochi del 1508 per il quartiere di S. Giusta, nel quale è censito Angelo di Marco di Stroncone «nepote de Silvestro di Iacopo da Sulmona. Morse so zio so anni 4» (Chini, 1954, p. 357).
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*Voce pubblicata nel 2020