significare
Gli usi danteschi di questo termine e dei suoi corradicali, per lo più analoghi a quelli del lessico latino medievale, vanno osservati soprattutto nell'ambito della ricerca terminologica dell'autore connessa al suo problema della teoria e dell'uso letterario del volgare. In genere D. si limitava a riporti dell'antica teoria del signum, tranne forse nel caso di un s. chiamato a connotare la tensione poietica attraverso cui l' ‛ auctore ' sceglieva nel repertorio della lingua le forme più adatte a segnalare i fatti della sua situazione intellettuale ed emotiva: I' mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch'e' ditta dentro vo significando (Pg XXIV 54). In questo caso, nel s. è la tensione creativa che va in cerca di combinazioni di segni adatte a rendere la condizione individuale. In ordine alla resa nell'espressione poetica il s. infatti trova il momento di maggiore impegno: ella era onorata e laudata... Ond'io, veggendo ciò e volendo manifestare a chi ciò non vedea, propuosi anche di dire parole, ne le quali ciò fosse significato; e dissi allora questo altro sonetto (Vn XXVI 9; cfr. XIV 10, III 13), e D. non manca di notare l'estrema difficoltà di una significazione verbale, e quindi umana, costretta a cimentarsi con l'espressione di fatti inattingibili (Trasumanar significar per verba / non si poria, Pd I 70).
Gli altri usi danteschi del termine sono qui di seguito riuniti in quattro gruppi che mettono in evidenza le sezioni della teoria del segno (v.) dalle quali sono state derivate. È da notare che in genere in D. il s. è legato all'uso di segni linguistici (salvo in Pd IX 15 Ed ecco un altro di quelli splendori / ver' me si fece, e 'l suo voler piacermi / significava nel chiarir di fori), e che i primi usi romanzi del termine, nei secoli XXII-XIII, hanno proceduto a un'inevitabile semplificazione della ricca tematica medievale e latina del significare. Da una parte questo riguardava l'atto della cifratura, l'unificare e porre in relazione, nell'unità del segno, voces, res e significati. Dall'altra l'atto della decifrazione, un processo parallelo e complementare al primo, con il quale si procedeva all'identificazione delle componenti del segno. Cifratura e decifrazione erano tra le forme essenziali del sapere medievale.
1. In Cv III VII 9 si dice che le bestie non è vero che parlino né che abbiano reggimenti, però che non hanno ragione, e che quindi il loro è soltanto un linguaggio apparente poiché non intendono per quello alcuna cosa significare. Il vero linguaggio è quindi quello proprio della natura umana (D. nega che angeli e demoni abbiano un linguaggio: cfr. VE I II), ben differenziato dalla significazione incompleta degli atti istintivi dei bruti: Oportuit ergo genus humanum ad comunicandas inter se conceptiones suas aliquod rationale signum et sensuale habere; quia, cum de ratione accipere habeat et in rationem portare, rationale esse oportuit; cumque de una ratione in aliam nichil deferri possit nisi per medium sensuale, sensuale esse oportuit... Hoc equidem signum est... in quantum sonus est; rationale vero, in quantum aliquid significare videtur ad placitum (III 2-3).
S'intende così mettere in rilievo la natura eminentemente razionale del s. e nello stesso tempo chiarire la natura del signum composto di un versante meramente sonoro (sonus) e di uno intellettuale che assume i suoi valori nell'ambito della convenzione linguistica del gruppo nel quale il segno stesso viene usato (aliquid significare... ad placitum). Si tratta di una riassunzione organica di una zona particolare della semiologia antica.
Questo tema e i suoi nessi terminologici si erano diffusi nel Medioevo grazie ai due commenti al De Interpretatione di Aristotele composti da Boezio, nei quali è presente l'impostazione, nota a D., del problema del s. e la distinzione tra voces che sono semplici suoni, e voces significativae; queste ultime vanno distinte in " voces significativae naturaliter ", qual è il gemito degl'infermi, il latrare del cane, e " voces significativae ad placitum instituentium ", capaci cioè di s. in seguito a impositio (l'atto mediante cui il parlante - impositor, institutor - lega a una sequenza fonica un certo ‛ significato ').
La distinzione introdotta tra le " voces significativae " rappresenta un rifiuto della posizione di Sesto Empirico (Adv. Math. 2, 269 ss.) che condannava tutta l'attività semiotica dell'uomo come inattendibile: anche indotti e bestie sono capaci di un σημειοῦσθαι privo di funzione conoscitiva (cfr. R. Simone, Semiologia agostiniana, in " La Cultura " VII [1969] 109). D. fa proprio questo rifiuto, privilegiando il parlare propriamente umano rispetto ai vari ‛ segnali ' emessi dagli animali, o dall'uomo stesso in quanto animale, considerato cioè al di fuori di una società che abbia un proprio sistema di comunicazione; cfr., oltre ai testi ricordati, anche VE I II 7, dove si dice della parola degli uccelli che locutio non est, sed quaedam imitatio soni nostrae vocis, dov'è evidente l'eco del Tresor di Brunetto Latini, nel quale era detto del pappagallo che " dice parole articolate sì come l'uomo se gli è insegnato l'anno ch'egli nasce " (I V 32) e della ‛ simia ' che " volontieri contraffà quello che lo vede fare all'uomo " (I V 62; dall'ediz. Chabaille-Gautier, Bologna 1877, 194 e 262, dov'è notato come si tratti di una posizione a sua volta derivata da Solino: I V 32, p. 301). Brunetto Latini si limitava a escludere che il s. animale fosse altro che mera riproduzione di suoni e si allineava ai dati della discussione medievale sull'intelletto e le facoltà animali (per la quale cfr. Alb. Magno De Animal. XXIX 1, 5; e per il pigmeo che è quasi " medius inter hominem... et alla multa animalia ", XXI 1, 3). Anche per s. Tommaso le bestie non possono acquistare alcuna " virtus loquendi " (De Potentia I 6 5 ad 3; II 58 1; e cfr. N. Busetto, Saggi di varia psicologia dantesca, in " Giorn. d. " XIII [1905] 140-141) né, prive di ragione, possono procedere alla formazione del nesso significante tra parola e concetto / cosa (Sum. theol. I 16 2). Di contro ai modi espressivi dell'animale, che consistono nell'emissione di un segnale che ha tutti i caratteri del segno naturale, D. esalta il s. umano riconoscendo il valore puramente intellettuale degli atti di significazione, i quali, in quanto utilizzano segni verbali stabiliti nella loro realtà di ' segno ' in seguito a convenzione sociale, sono possibili grazie all'utilizzazione di un sistema che solo garantisce la possibilità della comunicazione tra gli uomini.
Il s. letterario, a sua volta, non consisterà nella semplice espressione del mondo interiore dell'artista, ma piuttosto in una sottile opera di cifratura da realizzarsi alla luce dell'intelletto e alla presenza dell'intelligibilità ‛ comune ' inerente al segno.
2. Accogliendo la dottrina aristotelico-boeziana, dunque, D. si orientava verso quegli usi che specificassero i valori mentalistici e prettamente linguistici del significare. Questo consiste in una relazione che lega res e voces e che va inserita in una trama di significati necessariamente collettivi presupponendo in ogni caso l'esercizio di un'attività superiore. Secondo Pd XXVI 127 ss., il linguaggio è facoltà naturale dell'uomo (Opera naturale è ch'uom favella, v. 130), ma il singolo sistema linguistico è frutto dell'arbitrio umano, della convenzione invalsa e accettata (vv. 128-129), le cui modificazioni a livello di sistema sono originate dall'oscillazione dell'uso (vv. 137-138).
D. accetta dunque tanto l'arbitrarietà del segno, e quindi dell'individualità del parlante e dell'unicità del suo sforzo espressivo, quanto la natura convenzionale e collettiva del linguaggio. Il loqui bestiale e umano si fa s. solo dopo che si sia proceduto a una " determinatio signorum ", all'edificazione di una trama semantica convenzionale e, all'interno di questa, si siano realizzati i nessi specifici delle singole lingue e dei linguaggi personali o di gruppo. Una posizione questa, oltre che di Aristotele, anche di Agostino, che aveva riconosciuto l'importanza di un fondamento sociale del s.: " cum enim mihi signum datur, si nescientem me invenit cuius rei signum sit, dovere mihi nihil potest " (De mag. 33). Un segno linguistico (verbum) è tale solo se possiede le sue due facce (articulata vox + significatus) e si realizza in una comunità in grado d'intenderne la posizione nell'insieme dei segni della lingua e d'individuare e usare le relazioni che esso stabilisce con questi e con le res di quella particolare condizione umana. Perché si realizzi l'atto semiotico l'ascoltatore dev'essere a conoscenza del fatto che non si trova dinnanzi a una inanis vox ma a un veicolo di aliud aliquid, deve intendere di che cosa quella vox sia segno e che posto essa occupi nel sistema collettivo dei segni. In questi termini Agostino sanciva il principio della radicale socialità dell'arbitrarietà del segno linguistico (Simone, op. cit., p. 104).
Il s. proprio dei singoli vocaboli riceve precisazione e delimitazioni dal contesto nel quale essi sono inseriti; così, non è corretto parlare di qualità naturalmente comuni a tutti gli uomini usando termini che fanno riferimento ai singoli individui che partecipano di quella qualità (Cv III XI 7): Ma però che l'essenziali passioni sono comuni a tutti, non si ragiona di quelle per vocabulo distinguente alcuno participante quella essenza; onde non diciamo Gianni amico di Martino, intendendo solamente la naturale amistade significare per la quale tutti a tutti semo amici, ma l'amistà sopra la naturale generata, che è propria e distinta in singulari persone.
D'altra parte, un termine non genera intendimento se la sua funzione significativa non si esplica pienamente: Lo loco nel quale dico esso [Amore] ragionare sì è la mente; ma per dire che sia la mente, non si prende di ciò più intendimento che di prima, e però è da vedere che questa mente propriamente significa (II 10).
E tuttavia, anche individuando il significato di un nome, la ratio a partire dalla quale il nome stesso è costituito come vox significativa e che è pienamente espressa dalla definizione, non si ha conoscenza della cosa significata finché non si espliciti ciò che essa è e non se ne mostrino le cause; conoscenza in senso rigoroso, infatti, si ha soltanto quando s'indichino le cause di una cosa, giacché conoscere è, secondo Aristotele (all'autorità del quale D. si rifà), " scire per causas ": Ma però che... conoscere la cosa sia sapere quello che ella è, in sé considerata e per tutte le sue c[au]se... e ciò non dimostri lo nome, avvegna che ciò significhi, sì come dice [Aristotele] nel quarto della Metafisica (dove si dice che la diffinizione è quella ragione che 'l nome significa), conviensi qui... dire che è questo che si chiama Filosofia, cioè quello che questo nome significa... E prima dirò chi questo nome prima diede; poi procederò a la sua significanza (XI 1-2).
Per fornire un'adeguata conoscenza di ciò che è Filosofia, D. si propone d'indicare colui che costituì il nome ‛ Filosofia ' nel suo valore significativo, ripercorrendone così il processo istitutivo, e poi di articolare un compiuto discorso sulla natura e l'essenza della Filosofia stessa. Alla stessa esigenza di ripercorrere il processo istitutivo di un nome al fine di rendere pienamente intelligibile la significazione di esso ubbidisce l'interpretazione proposta per il vocabolo ‛ autore ' in Cv IV VI 3-4 Questo vocabulo, cioè ‛ autore ', sanza quella terza lettera C, può discendere da due principii; l'uno si è d'uno verbo molto lasciato da l'uso in gramatica, che significa tanto quanto ‛ legare parole ', cioè ‛ auieo '... E in quanto ‛ autore ' viene e discende da questo verbo, si prende solo per li poeti, che con l'arte musaica le loro parole hanno legate: e di questa significazione al presente non s'intende.
3. Uno degli usi fondamentali del s. dantesco riguarda l'area terminologica dell'ermeneutica, dove il termine è chiamato a descrivere un tratto essenziale tanto del momento della cifratura quanto della decifrazione: il s. è ciò che lo testo intende mostrare (Cv IV XXVIII 1). Sussiste tanto un s. con il quale si figura la veritade costituendo sequenze di segni come cifre verbali di date sequenze di fatti o di altri segni, quanto sussiste un intendere, complementare e opposto al s., che connota il processo inverso di questo, ossia un trarre la figura a veritade che presiede al riscoprimento del legame contestuale che unisce segno e argomento o segno, e provvede all'identificazione della forma della loro relazione e quindi all'interpretazione del testo.
Si segua la lunga interpretazione dantesca del racconto dei rapporti intercorsi tra Catone e Marzia nel quale Lucano avrebbe figurato le quattro età dell'uomo (Phars. II 326 ss.): quando dice che Maria tornò a Catone e richiese lui e pregollo che la dovesse riprendere [g]ua[s]ta: per la quale Maria s'intende la nobile anima. E potemo così ritrarre la figura a veritade. Maria fu vergine, e in quello stato si significa l'adolescenza; [poi si maritò] a Catone, e in quello stato si significa la gioventute; fece allora figli, per li quali si significano le vertudi che di sopra si dicono a li giovani convenire; e partissi da Catone, e maritossi ad Ortensio, per che [si] significa che si partì la gioventute e venne la senettute; fece figli di questo anche, per che si significano le vertudi che di sopra si dicono convenire a la senettute (Cv IV XXVIII 13-14; cfr. § 15, quattro volte).
L'intendimento si realizza solo dopo che i segni verbali sono stati scomposti nei loro componenti e si è ricostruito l'originario processo di cifratura. Quest'accezione rendeva il termine d'obbligo in materia di discussione sui sensi delle Scritture (v. SCRITTURA, sacra); così in Cv II I 6 Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora [sia vera] eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa de le superne cose de l'etternal gloria, sì come vedere si può in quello canto del Profeta che dice che, ne l'uscita del popolo d'Israel d'Egitto, Giudea è fatta santa e libera. Ché avvegna essere vero secondo la lettera sia manifesto, non meno è vero quello che spiritualmente s'intende, cioè che ne l'uscita de l'anima dal peccato, essa sia fatta santa e libera in sua potestate (cfr. anche Mn III IV 7).
Per questa via il testo si apre a una pluralità di significati (polisemia), che sono appunto i vari ‛ sensi ' delle Scritture: Ad evidentiam itaque dicendorum sciendum est quod istius operis non est simplex sensus, ymo dici potest polisemos, hoc est plurium sensuum... In exitu Israel de Aegipto... si ad litteram solam inspiciamus, significatur nobis exitus filiorum Israel de Aegipto, ecc. (Ep. XIII 20-21). Se in questi casi l'interpretazione riguarda i segni verbali, essa può riguardare, sulla linea della teologia sacramentale e dei commentatori del Nuovo Testamento, anche i segni non verbali: Assummunt etiam de lictera Mathaei Magorum oblationem, dicentes Cristum recepisse simul thus et aurum ad significandum se ipsum dominum et gubernatorem spiritualium et temporalium (Mn III VII 1; cfr. Rime XL. 8).
4. Un uso tecnico di s. è derivato dalla dottrina astrologica, nella quale ‛ signum ' indica il " segno astrale " inteso come " segnale " o avvertimento, ma non causa, di eventi terreni: E lo cielo di Marte si può comparare a la Musica per due proprietadi... E però dice Albumasar che l'accendimento di questi vapori significa morte di regi e transmutamento di regni; però che sono effetti de la segnoria di Marte (Cv II XIII 22).
Questo discorso si colloca nel contesto della comparazione tra cieli e scienze: i cieli sono assunti a ‛ simbolo ' delle scienze in base a un'analogia, proporzione o convenienza che corre tra la realtà utilizzata come simbolo (il cielo) e la realtà che s'intende s. (la scienza). Tale analogia o convenienza per D. sussiste sia tra le due serie, dei cieli e delle scienze (cfr. §§ 6-8), sia tra ciascun cielo e la scienza della quale è simbolo; cfr. in particolare XIV 2-4 Dico che lo Cielo stellato ci mostra molte stelle: ché, secondo che li savi d'Egitto hanno veduto, infino a l'ultima stella che appare loro in meridie, mille ventidue corposa di stelle pongono... Ed in questo ha esso grandissima similitudine con la Fisica... Ché per lo due s'intende lo movimento locale... E per lo venti significa lo movimento de l'alterazione... ragionevolemente per questo numero lo detto movimento significa. E per lo mille significa lo movimento del crescere; e § 9 [il cielo Stellato] per lo polo che vedemo significa le cose sensibili, de le quali, universalmente pigliandole, tratta la Fisica; e per lo polo che non vedemo significa le cose che sono sanza materia, che non sono sensibili, de le quali tratta la Metafisica: e però ha lo detto cielo grande similitudine con l'una scienza e con l'altra; cfr. ancora §§ 10 (due volte), 11 e 12.