Sigieri (Sighieri) di Brabante
Filosofo del XIII secolo, ricordato da D. nel passo di Pd X 136, nel gruppo degli spiriti sapienti.
I dati della sua giovinezza sono molto oscuri; e, in realtà, sappiamo soltanto che all'università di Parigi egli fece parte della ‛ Nazionale piccarda ', mentre è illazione del tutto ipotetica, anzi scarsamente fondata, che fosse discepolo di Alberto Magno. Più probabile è la supposizione che S. diventasse ‛ maestro delle arti ' negli anni tra il 1264 e il 1267, benché la prima notizia documentata risalga soltanto al 26 agosto del 1266, quando egli viene indicato come fautore di tumulti e conflitti studenteschi. Comunque, anche queste date hanno un loro valore: perché ci dimostrano la presenza di S. a Parigi in un momento molto delicato della vita universitaria, allorché erano già largamente diffuse nella facoltà delle Arti quelle concezioni, ispirate non solo ad Averroè ma anche ad autori e scritti di tradizione neo-platonica (il Liber de causis, Avicenna, Proclo, ecc.), alle quali viene spesso impropriamente attribuita l'etichetta di ‛ averroismo latino '. Secondo una tradizione che sembra ben fondata e difficilmente contestabile, S. sarebbe stato uno dei battaglieri sostenitori della tendenza più radicale dei ‛ maestri delle arti ', decisi ad accettare integralmente le dottrine aristotelico-averroistiche, la scienza di origine greco-araba e le novità sconvolgenti che essa portava nel tessuto dottrinale della tradizione scolastica, e a distinguere, nel modo più reciso, l'ambito dell'indagine filosofico-scientifica da quello proprio della teologia e dell'esegesi della verità rivelata. Di questa tendenza (che ebbe tra i suoi rappresentanti anche Boezio di Dacia, Berniero di Nivelles e Gosvino de la Chapelle) sono rimaste tracce indubbie ed evidenti nella polemica universitaria ed ecclesiastica di quegli anni; e si sa che ben presto cominciarono a correre sul conto di S. e dei suoi amici accuse molto gravi e pericolose. Già infatti nel 1267 e '68 Bonaventura da Bagnoregio prendeva posizione contro le dottrine esposte nei commenti aristotelici di quei maestri; due anni dopo, alla vigilia del diretto intervento delle autorità ecclesiastiche parigine, anche Tommaso d'Aquino pubblicava il De Unitate intellectus contra averroistas, il cui principale bersaglio era probabilmente Sigieri. Infine, nello stesso anno 1270, il vescovo di Parigi, Stefano Tempier, condannava e vietava una serie di proposizioni filosofico-teologiche tra le quali alcune sostenute nei commenti e nelle lezioni dei maestri ‛ averroisti '. Nonostante la condanna, S. (il cui nome peraltro non era indicato esplicitamente nelle polemiche e condanne parigine) continuò a insegnare con molto successo alla facoltà delle Arti, come testimoniano il celebre ‛ pubblicista ' e ‛ regalista ' Pierre Dubois e il maggior teorico della teocrazia, Egidio Romano, concordi nel riconoscere la sua autorità magistrale e l'acutezza e profondità del suo pensiero. Ma, certo, il rinnovarsi delle polemiche e degli attacchi (come quelli mossi ancora da Bonaventura, nelle Collationes in Hexaemeron, 1273) rese sempre più difficile la sua permanenza sulla cattedra parigina, minacciando addirittura l'autonomia delle facoltà delle Arti, sempre guardata con sospetto dai maestri della facoltà teologica. Non è qui possibile entrare nei particolari di un conflitto universitario che divise anche la stessa facoltà delle Arti e che, dietro forme e apparenze disciplinari e accademiche, celava, in realtà, l'urto più profondo di concezioni filosofiche ormai inconciliabili. Basterà quindi ricordare che, nonostante la sentenza di compromesso emanata il 7 maggio del 1275 dal legato pontificio Simone de Brion, la posizione di S. divenne presto insostenibile. Dové così lasciare Parigi e la sua cattedra in una data non precisabile, ma certo antecedente al 23 ottobre 1276, quando l'inquisitore di Francia, Simone du Val, lo citò a comparire, con la formula usata per gli assenti. Poco dopo, l'intervento dello stesso pontefice Giovanni XXI, portava, il 17 marzo 1277, alla solenne condanna da parte del vescovo Tempier e dell'università di Parigi di un gruppo più nutrito di tesi (nel quale, insieme a dottrine tipiche di S., figuravano però alcune proposizioni tomiste e concezioni di origine e significato assai diverso), con l'espresso divieto di sostenerle anche soltanto come ipotesi vere dal punto di vista della ragione, ma false dal punto di vista della fede. Anche questa condanna non nominava però esplicitamente S. né alcuno dei suoi amici o seguaci.
Il maestro preferì appellarsi al pontefice. Si recò così alla curia papale che, in quel tempo, risiedeva a Orvieto, e qui avrebbe accettato la condanna e l'obbligo di restare internato presso la stessa curia. Non sappiamo con esattezza quando S. morì; sembra però che egli fosse ucciso da un servitore impazzito in un'epoca imprecisata tra il 1280 e il 1284, sotto il pontificato dell'antico legato pontificio Simone de Brion, regnante con il nome di Martino IV. Comunque Giovanni Peckam, in una lettera del 10 novembre 1284, parla di lui come di un maestro già morto.
La posizione di S. ha suscitato e continua a suscitare lunghe e talvolta non serene polemiche i cui riflessi pesano indubbiamente anche sulle ricerche e le indagini intorno alla filosofia di Dante. E, senza dubbio, non è facile distinguere nell'ampia trama dei suoi commenti aristotelici ciò che è semplicemente riferimento ed esegesi di dottrine altrui e ciò che è invece esplicita accettazione di alcune tesi averroistiche assai gravide di pesanti conseguenze teologiche. Per di più anche la paternità di alcune opere che trasformerebbero il quadro tradizionale del suo pensiero non è affatto pacifica, e anzi è stata oggetto di decise e intransigenti contestazioni. Nel contempo, il problema è oggettivamente complicato dall'insistenza di S. nel dichiarare che le tesi da lui esposte sono soltanto il frutto di una analisi puramente razionale dei testi di Aristotele e del Commentatore (Averroè), oppure la necessaria conseguenza di dottrine ivi sostenute, che tuttavia non inficiano in alcun caso la verità certa e assoluta della fede cristiana. Su quest'affermazione (giudicata spesso da polemisti e inquisitori una mera " astuzia volpina ") sono stati versati fiumi d'inchiostro da sostenitori e avversari della cosiddetta dottrina della ‛ doppia verità '. Ed è quindi merito degli studiosi più recenti aver almeno cercato di liquidare questo grave equivoco storiografico, tornando a una lettura meno polemica dei testi di S., collocati nel loro particolare ambiente storico e nell'ambito, obiettivamente ricostruito, delle discussioni filosofiche del suo tempo.
Se, infatti, si considerano le opere indiscutibilmente autentiche che ci sono pervenute (v. bibl.), è indubbio che S. sostenne, nei suoi scritti e nel suo insegnamento, parecchie tesi (unità dell'intelletto possibile, eternità del mondo, necessità assoluta dell'ordine universale, e quindi, negazione di ogni effettiva contingenza, ecc.) certamente contrarie alla rivelazione biblico-evangelica. Ma, anche in questo caso, non si può ignorare la diversità che passa tra la recisa affermazione di Avverroè, che identifica la ‛ verità ' sempre e soltanto con le pure dimostrazioni razionali, e la cautela con cui il maestro brabantino si rifiuta di contrapporre le deduzioni logiche dei filosofi ai discorsi persuasivi dei teologi, per presentarsi piuttosto come l'interprete e illustratore di una dottrina costruita " ex puris naturalibus " e, insomma, con i solidi strumenti della ragione. Il fatto che simili dottrine possano trovarsi in contrasto con l'insegnamento rivelato o con le verità esposte dai teologi non deve perciò preoccupare il filosofo, disposto a riconoscere la superiorità della fede, nell'ambito della religione, ma altrettanto deciso a interpretare i testi dei filosofi con metodi rigorosamente razionali. Anzi, il suo compito deve consistere proprio nel porre in esatta luce i problemi sollevati da questa lettura e risolverli per via di ragione, senza cercare affatto di stabilire un accordo capzioso e fittizio tra filosofia e teologia o interpretare, distorcendole, le parole di Aristotele allo scopo di servirsene per fini teologici. Come scrive lo stesso S., forse con un accenno polemico ai metodi tomistici, le opinioni di Aristotele e di Averroè " non debbono essere nascoste da coloro che hanno il compito di esporre i loro libri " anche quando appaiano difformi dalla rivelazione. Se non è concesso ai filosofi di tentare un'interpretazione razionale dei misteri sacri e, men che mai, di negare la verità cristiana con argomentazioni logiche, non per questo si deve rinunziare alla netta distinzione tra due piani d'indagine molto diversi, oppure nascondere le conclusioni contraddittorie cui possono giungere i sillogismi umani e la rivelazione divina. Aristotele, il cui pensiero s'identifica per S. come per Averroè con la stessa ragione umana, ha infatti sostenuto su molti punti dottrine discordanti dalla rivelazione, se non addirittura opposte; ma poiché filosofare significa cercare non tanto la verità, quanto piuttosto " l'intendimento dei filosofi ", l'interprete genuino dei suoi libri si limiterà a riferirne fedelmente le opinioni, salvo naturalmente a riconoscere la superiorità di un insegnamento salutifero che discende direttamente da Dio.
Non è facile riconoscere se quest'atteggiamento risponda alle preoccupazioni di un uomo legato agli ideali religiosi del suo tempo e, tuttavia, consapevole dell'inestimabile valore della tradizione filosofica e scientifica greco-araba, o se, invece, sia un abile ‛ schermo ', assai utile per illustrare e diffondere dottrine inconciliabili con la rivelazione cristiana. Senza dubbio la sua insistenza nel riconoscere sempre la salvaguardia della verità divina sembra sincera; così com'è difficile sollevare dubbi consistenti sulla sua costante ammissione dell'obbligo di accettare, in ultima istanza, la dottrina di fede. Eppure anche questi riconoscimenti non tolgono valore al fatto, di per sé evidente, che S. avanzava una rivendicazione difficilmente conciliabile con la tradizionale supremazia della scientia de divinis e, addirittura, eversiva per una cultura filosofica che, solo da pochi decenni, aveva cominciato a svincolarsi da una concezione del mondo squisitamente teologale e riduttiva di tutto il sapere all'interpretazione della ‛ sacra pagina '. Riconoscere, infatti, come S. dichiara in forma esplicita e chiara, che le dimostrazioni razionali possono pervenire, con procedimenti impeccabili, a conclusioni opposte a quelle affermate dai testi sacri, significava negare quell'accordo necessario e preliminare tra fede e ragione che era il presupposto della stessa utilizzazione teologica della filosofia aristotelica, già tentata da Alberto Magno e da Tommaso; e implicava altresì una distinzione sempre più netta e irreversibile tra l'ambito della ricerca naturale e filosofica, concluso entro un ordine necessario e logico, e il piano della rivelazione e della grazia, affidato soltanto all'illuminazione della fede.
Fedele a queste concezioni, S., sia nel De Aeternitate mundi, che nel De Intellectu, nel De Anima intellectiva e nel Liber de felicitate, volle soltanto enunciare " le dottrine dei filosofi ", le stesse, cioè, che compaiono nelle condanne del 1270 e 1277. Appellandosi alle parole di Aristotele e alle esposizioni del Commentatore, negò, con loro, che Dio, causa finale dell'universo, ne fosse anche la causa efficiente (e così mostrò che la ragione aristotelica non può ammettere il concetto cristiano della " creatio ex nihilo "); sostenne l'eternità del mondo e di tutti i generi e le specie di cose naturali, e non esitò neppure ad ammettere una sorta di rigoroso determinismo astrale che riconduceva tutti i fatti e gli eventi del mondo sublunare ai moti necessari dei cieli e agl'influssi degli astri, la cui identica ripetizione ha prodotto, produce e produrrà eventi sempre identici. Da questa legge di assoluta necessità non sembra che venissero escluse neppure le vicende della vita e della storia religiosa; ché anzi tornano nei testi di S. certe tipiche dottrine averroistiche e certe conclusioni classiche dell'astrologia araba di cui è difficile negare le dirette implicazioni nell'ambito etico e teologico. L'affermazione (sia pure, come si è detto, sotto forma di conclusione esegetica) che nel nostro mondo sempre si ripetono " le stesse opinioni, le stesse leggi, le stesse religioni " sembra infatti applicabile al cristianesimo non meno che a tutte le altre leges succedutesi ciclicamente nel governo spirituale e civile degli uomini.
La propensione di S. per le interpretazioni averroistiche di Aristotele è, del resto, confermata dalla dottrina dell'intelletto così a lungo studiata e discussa dagli storici e, specie nel corso degli ultimi cinquant'anni, oggetto di valutazioni assai diverse. Tuttavia l'analisi dei testi del De Intellectu e del Liber de felicitate conferma che il maestro brabantino identificò l'Intelletto agente con Dio e pose l'unica felicità possibile per l'uomo nell'eterna unione con tale Intelletto. D'altro canto, egli accettò la tesi averroista che l'anima razionale e il córpo siano uniti tra loro solo nell' " atto operativo " e che pertanto il loro rapporto si risolva nel contatto tra una " potenza operante " e il " luogo " in cui essa svolge la propria funzione. Con questo S. intendeva riconoscere (ma, certo, con una precisa sfumatura che lo distingue dalla dottrina di Averroè) non solo l'unicità dell'Intelletto agente, ma anche quella dell'Intelletto possibile (v.) o materiale proprio unicamente della specie umana. Né occorre insistere sulle implicazioni e conseguenze di una tale soluzione, considerata peraltro del tutto esatta in sede filosofica, anche se evidentemente contrastante con le diverse, superiori verità di fede. In realtà, anche in questo particolare ambito problematico, la dottrina sigieriana finiva col legittimare idee, ipotesi e conclusioni incompatibili con i principi, sia pure ancora abbastanza fluidi, dell'ortodossia teologica.
Il problema storico della valutazione della filosofia sigieriana è però complicato e reso più arduo dall'attribuzione a questo autore di un gruppo di sette scritti anonimi concernenti la filosofia naturale di Aristotele e contenuti nel codice Latinus Monacensis 9559 della Bayerische Staatsbibliothek di Monaco. Il Grabmann che li scoprì nel 1924 li attribuì tutti (meno un commento alla Fisica) al maestro brabantino; e la sua conclusione fu accettata dal Van Steenberghen, dal Delhaye e dal Graiff, concordi nel sottolineare l'atteggiamento diverso assunto da S. in questi scritti e la natura delle sue conclusioni non lontane da analoghe tesi tomiste. L'attribuzione di un gruppo così compatto e così omogeneo dal punto di vista dottrinale, se ottenne la piena approvazione di studiosi come De Wulf, Lottin e Pelster, fu però vivacemente contestata dal Nardi e dal Gilson, dando luogo a una discussione assai importante che ha investito non solo l'aspetto filologico del problema ma, più in generale, la stessa possibilità di distinguere varie fasi o momenti del pensiero di S. e d'individuare, al di là dell'opera di fedele commentatore, un suo atteggiamento filosofico coerente, ben consapevole della gravità dei problemi affrontati. Più recentemente il Duin ha poi ripreso le tesi del Van Steenberghen, non solo confermando a S. l'attribuzione degli scritti in questione, ma proponendolo anche come autore di altri sei testi anonimi contenuti nel codice lat. 16297 della bibl. Nazionale di Parigi. E attraverso l'analisi di queste opere, egli ha inteso anche confermare la sostanziale ortodossia del maestro brabantino o, comunque, un suo definito approdo su posizioni non contrastanti con i fondamenti della teologia cristiana. Infine, il recente studio di un gruppo di " quaestiones de anima " contenuto nel cod. 275 di Merton College (Oxford) ed edito dal Giele, dal Van Steenberghen e dal Bazàn, giova a chiarire le diverse posizioni assunte nella discussione intorno all'anima dalle varie tendenze, moderate o radicali, che distinguevano la linea " averroista ", e a proporre un concetto della filosofia sigieriana meno radicale di quello tracciato dal Mandonnet; mentre il Marlasca ha rilevato un notevole influsso dei testi tomisti (ma anche talune tipiche critiche delle tesi dell'Aquinate) nelle Quaestiones super librum de causis databili al 1274-76.
La discussione sulle opere e le idee di S. ha avuto, naturalmente, una diretta e notevole incidenza anche sulle indagini, ricerche e polemiche intorno al carattere della ‛ filosofia ' di Dante. È noto infatti che il poeta pone S. nel cielo del Sole, tra gli ‛ spiriti sapienti ', e che fa pronunziare proprio a Tommaso d'Aquino i celebri versi: Questi onde a me ritorna il tuo riguardo, / è 'l lume d'uno spirto che 'n pensieri / gravi a morir li parve venir tardo: / essa è la luce etterna di Sigieri, / che, leggendo nel Vico de li Strami, / silogizzò invidïosi veri (Pd X 136). Né sono meno citati i versi 9-11 del sonetto XCII del Fiore (Mastro Sighier non andò guari lieto: / a ghiado il fe' morire a gran dolore / nella corte di Roma, ad Orbivieto) che presentano il maestro brabantino nella folta schiera delle vittime di Falsembiante. Sicché non meraviglia che interpreti e studiosi delle più diverse origini, formazioni e tendenze abbiano considerato l'atteggiamento di D. nei confronti di S. come un problema storico e dottrinale di grande importanza, la cui soluzione implicherebbe anche un preciso giudizio sulle fonti del pensiero dantesco, sul suo rapporto con le molte correnti della filosofia medievale e, addirittura, sulle sue diverse possibili fasi di sviluppo e sulla sua maggiore o minore aderenza ai principi dell' ‛ ortodossia '. Simili questioni (complicate dai problemi inerenti alla storia interna delle opere sigieriane e, dunque, a una possibile diversa identificazione del suo carattere dottrinale) hanno pertanto occupato un posto preminente (talvolta persino eccessivo) nella letteratura dedicata alle fonti filosofiche della Commedia e delle altre opere, sfociando spesso nel tema più vasto e generale dei rapporti tra D. e l'averroismo (v.). Soprattutto B. Nardi (che iniziò la sua opera di dantista proprio con uno studio su S. e il significato della sua presenza nel tessuto dottrinale della Commedia) ha infatti fortemente sottolineato l'incidenza di talune tipiche dottrine sigieriane nei testi danteschi, operando spesso importanti recuperi o chiarendo, senza dubbio, l'effettiva derivazione di alcune dottrine che è impossibile ricondurre a fonti albertine o tomistiche. Ma lo stesso studioso (di cui sono ben note sia l'accentuazione di alcuni testi averroistici della Monarchia, sia l'insistenza sul carattere positivamente ‛ eclettico ' della filosofia dantesca) ha soprattutto inteso illuminare il significato spirituale e poetico dei versi del Paradiso, riconoscendo nella celebrazione di S. il proposito di " rialzare la memoria d'un onesto pensatore, grandemente stimato dai suoi contemporanei, la quale giaceva sotto il peso dei colpi inferti dall'invidia, e mostrarci riconciliati nel cospetto dell'eterna verità dei grandi pensatori a lui cari, senza settarismo di scuola ". Queste tesi egli ha sempre sostenuto, con ferma coerenza, in decisa polemica sia contro i sostenitori dell'esclusivo tomismo di D. (e in particolare con il Busnelli), sia contro coloro che, puntando sul presunto carattere tomista dell'ultimo S., toglievano al gesto dantesco ogni significato polemico o semplicemente contrastante con le condanne canoniche. Infine, ancora in alcune delle sue ultime pagine, è tornato a ripetere che la presenza di S. " fra i luminari del pensiero cristiano, alla sinistra del dottore d'Aquino " è la conferma di un atteggiamento di D. verso l'averroismo e, in particolare, verso il maestro brabantino, del tutto diversa da quella dei tomisti ed estranea comunque a qualsiasi condanna o sospetto di eresia.
Alla soluzione così energicamente affermata dal Nardi hanno però risposto, con vari argomenti, non solo gl'interpreti tornisti (che, in genere, come il Busnelli, ritengono opportuno limitare l'omaggio di D. solo all'illustre maestro di logica e di metodo scolastico), ma anche altri studiosi, preoccupati sia di attenuare la portata teorica delle dottrine sigieriane, sia di attribuire un peso meno significativo ai versi danteschi, sia ancora di revocare in dubbio la dipendenza di questa o quella concezione filosofica da testi specifici di Sigieri. Ne sono nate così vivaci schermaglie polemiche (sempre fedelmente registrate e sviluppate dalla ricca produzione del Nardi) e indagini e ricerche il cui interesse va spesso oltre il campo ben definito della critica dantesca. Né si può escludere che la passione polemica abbia talvolta indotto a ingigantire i problemi o ad attribuire un rilievo eccessivo a questioni certo importanti ma non ‛ centrali '. Una posizione a parte in questi dibattiti ha assunto un altro studioso della filosofia dantesca, il Gilson, che pure ha accettato una parte notevole delle argomentazioni del Nardi e ha respinto decisamente la singolare ipotesi del Mandonnet sulla pretesa ignoranza delle dottrine sigieriane da parte di D.; per lo storico francese, infatti, l'averroismo di S. non fu, né volle essere, una dottrina rivolta esplicitamente contro la fede o, comunque, una rottura volontaria e meditata con la tradizione teologica, ma consisté invece nella rivendicazione dell'autonomia del " commento al Filosofo ", libero da ogni ingerenza teologale e nella pura e semplice constatazione di una divergenza tra i dati della ragione e quelli della fede nella discussione di alcuni problemi filosofici fondamentali. Questa energica difesa della ‛ filosofia pura ' non andò, del resto, mai disgiunta nei suoi testi dal riconoscimento aperto e, per il Gilson, probabilmente sincero dell'indiscussa superiorità della " veritas fidei " nel suo specifico campo di competenza, costituito dalla dottrina teologica. E ciò può, dunque, perfettamente spiegare perché D. assumesse S. a rappresentare nel Paradiso la virtù della ‛ filosofia pura ', così come, sempre in netto contrasto con un giudizio di Tommaso, celebrò, nel canto XII, la ‛ veracità ' di Gioacchino da Fiore, simbolo della ‛ profezia '. Nell'economia universale del poema la celebrazione di quei due personaggi-simbolo è perfettamente logica e giustificata; anzi, nel caso di S., è del tutto coerente con la costante preoccupazione dantesca di riconoscere l'autonomia dell'ordine mondano, sia pure entro l'eterna, suprema perfezione dell'ordine sovrannaturale.‛ Vicario di Aristotele ' e continuatore dell' ‛ auctoritas Philosophi ', S. ha, insomma, agli occhi di D., pieno diritto di assidersi tra la schiera luminosa dei sapienti cristiani.
Bibl. - Opere: a) autentiche: 1) Quaestio utrum haec sit vera: homo est animal, nullo homine existente (1268 ca.); 2) Sophisma: omnis homo de necessitate est animal (1268); 3) Compendium super librum de generatione et corruptione (1268 ca.); 4) Quaestiones in librum tertium de anima (1268-1270); 5) Quaestiones logicales (dopo 1268); 6) Quaestiones supra secundum Physicae (1270); 7) Impossibilia (1271-72); 8) Quaestiones naturales (1273-75); 9) De aeternitate mundi (1271-72); 10) Tractatus de anima intellectiva (1270-71); 11) De necessitate et contingentia causarum (1272 ca.); 12) Quaestiones naturales (1273 ca.); 13) Quaestiones super II-VII Metaphysicorum (1272-74); 14) Quaestiones morales (dopo 1273); 15) Quaestiones super librum de causis (1274-76).
b) attribuite: 1) Quaestiones in libros I, Il, III, IV physicorum; 2) Quaestiones in librum I, Il, III, IV et VIII physicorum; 3) De I, Il, III, IV physicorum; 4) De VIII physicorum; 5) Commentum in I physicorum; 6) De libro IV physicorum; 7) Quaestiones in librum I, Il et IV meteororum; 8) Quaestiones in libros de generatione et corruptione; 9) Quaestiones in librum de sonmo et vigilia; 10) Quaestiones in librum de iuventute et senectute; 11) Quaestiones in libros tres de anima; 12) De V metaphysicae.
c) perdute: 1) Tractatus de intellectu; 2) Liber de felicitate; 3) De motore primo; 4) Rescriptum: significatum est...; 5) Super politica Aristotelis; 6) Utrum principia prima sint nobis ignota; 7) De caelo et mundo I et Il; 8) Posteriorum analiticorum I.
Edizioni: a, 1) in P. Mandonnet, Siger de Brabant et l'averroisme latin au XIII siècle, Friburgo 1899, 47-54 (Lovanio 1908-11², 65-70); 2) inedito, riassunto in F. Van Steenberghen, Siger de Brabant d'après ses oeuvres inédites (" Les philosophes belges ", XII-XIII), Lovanio 1931-42, 333-334; 3) inedito, riassunto in Van Steenberghen, op. cit. pp. 291-294; 4) ediz. crit. a c. di B. Bazán: Sigier De Brabant, Quaestiones in tertium de anima, de anima intellectiva, de aeternitate mundi (" Les philosophes médiévaux ", 13), Lovanio-Parigi 1972, 1-69; 5) in Mandonnet, op. cit., 1ª ediz., 37-45; 2a ediz., 55-61; 6) inedito, estratti in A. Maier, Nouvelles questiones de Siger de Brabant sur la Physique d'Aristote, in " Revue Philosophique de Louvain " XLIV (1946) 497-513; J.J. Duin, La doctrine de la Providence dans les écrits de Siger de Brabant (" Les philosophes médiévaux " III), Lovanio 1954, 60-62; in C.J. Ermatingen, Additional Questions on Aristotle's Physics by Siger of Brabant or his School, in " Didascaliae ", New York 1961, 97-120; 7) C. Baeumker, Die " impossibilia " des Siger von Brabant (" Beiträge ", II 6), Münster 1898; 8) in Mandonnet, op. cit., 1ª ediz., 57-67; 2ª ediz., 97-107; 9) ediz. con i confronti tra i vari codici in Mandonnet, op. cit., 1ª ediz., 71-83; 2ª ediz., 131-132; R. Barsotti, Sigerii de B. " de aeternitate mundi ", Münster 1933; J. Dowyer, L'opuscule de Siger de Brabant " de aeternitate mundi ", Lovanio 1937; ediz. critica a c. di B. Bazán, in op. cit., 113-136; 10) in Mandonnet, op. cit., 1ª ediz., 87-115; 2ª ediz., 145-172; ediz. critica a c. di B. Bazán, op. cit., 70-112; 11) in Mandonnet, op. cit., 2ª ediz., 111-128; in Duin, op. cit., 14-50; 12) a c. di F. Stegmuller, in " Recherches de Théologie Ancienne et Médiévale " III (1931) 177-182; 13) a c. di C.A. Graiff: Sigier De Brabant, Questions sur la Metaphysique (" Les philosophes médiévaux ", I), Lovanio 1948; alcuni passi da altri codici, a c. di A. Maurer, in " Mediaeval Studies " X (1949) 224-232; XI (1950) 233-235; XIII (1952) 48-60; altre quaestiones sono state edite del Duin, op. cit., pp. 71-111; 14) a c. di Stegmuller, Op. cit., 172-177;15) ediz. critica a c. di A. Marlasca, Les Quaestiones super librum de causis de Siger de Brabant (" Les philosophes médiévaux ", 12), Lovanio-Parigi 1972.
b, 1) ediz. parziale a c. del Duin, op. cit., 51-57; 2) a c. di Ph. Delhaye, in " Les philosophes belges ", Lovanio 1941; 3) ediz. parziale in Duin, op. cit., 63-67: 4) ediz. parziale in Duin, op. cit., 67-71; 5) e 6) in A. Zimmermann, Ein Kommentar zur Physik des Aristoteles aus der Pariser Artistenfakultät um 1273, Berlino 1968; 7) riassunto dal Van Steenberghen, Op. cit., 233-263; ediz. parziale a c. del Duin, op. cit., 111-118; 8) riassunto dal Van Steenberghen, op. cit., 268-291; 9) riassunto dal Van Steenberghen, op. cit., 223-233; 10) riassunto dal Van Steenberghen, 263-267; 11) edito dal Van Steenberghen, Op. cit., 21-160; 12) ediz. parziale a c. del Duin, op. cit., 235-241; e cfr. GRAIFF, op. cit., XVI-XVII, 293. Per l'edizione delle " quaestiones de anima " del codice 275 di Merton College cfr.: M. GIELE, F. Van Steenberghen, B. Bazán, Trois commentaires anonymes sur le traité de l'âme d'Aristote (" Philosophes médiévaux ", 11), Lovanio-Parigi 1971.
Studi: F. Bruckmüller, Untersuchungen über Sigers anima intellectiva, Münster 1908; M. Chossat, Saint Thomas d'Aquin et Siger de Brabant, in " Revue de Philosophie " XXIV (1914) 553 ss.; M. Grabmann, Neu aufgefundene Werke des Siger von Brabant und Boetius von Dacien, in " Sitzungsberichte Bayerische Akademie Wissenschaften " CXCVII (1924) 2; F. Van Steenberghen, Siger de Brabant d'aprés ses oeuvres inédites, Lovanio 1931-42; B. Nardi, Il preteso tomismo di S. di B., in " Giorn. Critico Filos. Ital. " XVII (1936) 26-35; XVIII (1937) 160-164; E. Gilson, D. et la philosophie, Parigi 1939 (1953²), passim; M. Grabmann, Siger von Brabant und D., in " Deutsches Dante Jahrbuch " XXI (1939) 109-130; B. Nardi, Due opere sconosciute di S. di B., in " Giorn. Critico Filos. Ital. " XXIV (1943) 5-27; S. Vanni-Rovighi, S. di B. nella storia dell'aristotelismo, in " Rivista Filosofia Neoscolastica " XXXVI (1944) 192-194; B. Nardi, S. di B. nel pensiero del Rinascimento italiano, Roma 1945; A. Maier, Nouvelles Questions de Siger de Brabant sur la Physique, in " Revue Philos. de Louvain " XLIII (1945) 497-513; B. Nardi, Individualità e immortalità nell'averroismo e nel tomismo, in " Archivio di Filosofia " XV (1946) 109-121; A. Maurer, Esse and Essentia in the Metaphysics of Siger of Brabant, in " Mediaeval Studies " VIII (1946) 68-86; A. Maier, Les commentaires sur la Physique d'Aristote attribués à Siger de Brabant, in " Revue Philos. de Louvain " XLVII (1949) 334-350; ID., Die Vorläufer Galileis im 14. Jahr., Roma 1949, 184 ss., 237 ss.; B. Nardi, L'anima umana secondo S., in " Giorn. Critico Filos. Ital. " XXXI (1950) 317-325; F. Van Steenberghen, Siger of Brabant, in " The Modern Schoolman " XXIX (1951-52) 11-27; A. Maier, An der Grenze von Scholastik und Naturphilosophie, Roma 1955, 97 ss., 159 ss.; J. Duin, La doctrine de la providence dans les écrits de Siger de Brabant, Lovanio 1954; G.B. da Palma Campania, La dottrina sull'unità dell'intelletto in S. di B., Padova 1955; A. Zimmermann, Die Quästionen des Sigier von Brabant zur Pbysik des Aristotele:, Colonia 1956; B. Nardi, Un'importante notizia su scritti di S. a Bologna e a Padova alla fine del sec. XV, in " Giorn. Critico Filos. Ital. " XXXVII (1956) 204-209; P. Duhem, Le système du monde, V, Parigi 1917, 574-577; VI, ibid. 1954, 13-15, 394-395; F. Van Steenberghen, Nouvelles recherches sur Siger de Brabant et son école, in " Revue Philos. de Louvain " LIV (1956) 130-147; G.B. da Palma Campania, La conoscenza intellettuale del singolare corporeo secondo S. di B., in " Sophia " XXVI (1958) 62-74; B. Nardi, L'anima umana secondo S., in Studi di filosofia medievale, Roma 1960, 151-161; A. García Astrada, Sigerio de B. y los límites de la síntesi: medieval, in " Humanitas " (Tucumàn) (1962) 39-50; F. Van Steenberghen, Le problème de l'unicité divine dans la métaphysique de Siger de Brabant, in Die Metaphysik im Mittelalter, Berlino 1963, 441-445; J. Vennebusch, Die " Questiones metaphysicae tres " des Siger von Brabant, in " Archiv für Geschichte der Philosophie " (1966) 163-189; F. Van Steenberghen, La philosophie au XIIIe siècle (" Philosophes médiévaux " 9), Lovanio-Parigi 1966, passim; A. Maier, Ausgehendes Mittelalter, II, Roma 1967, 171-206; Z. Kuksewicz, De Sigier de Brabant à Jacques de Plaisance. La théorie de l'intellect chez les averroïste: latins du XIIIe et XIVe siècles, Wroclaw-Varsavia 1968; A. Marlasca, La antropologia nigeriana en las " Quaestiones super librum de causis ", in " Estudios Filosóficos " LIII (1971) 1-37.
Sul problema dei rapporti tra S. e la filosofia dantesca cfr. in particolare: B. Nardi, S. di B. e le fonti della filosofia di D., Spianate 1912; G. Busnelli, Cosmogonia e antropogenesi secondo D.A. e le sue fonti, Roma 1922, 104-113; B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, Milano 1930 (Firenze 1967²), passim; ID., L'averroismo di S. e D., in " Studi d. " XXII (1938) 83-113; ID., D. e la cultura medievale, Bari 1940 (1949²), passim; ID., Nel mondo di D., Roma 1944, 237-238; ID., Studi di filosofia medievale, cit.; ID., Dal " Convivio " alla " Commedia ", Roma 1960; ID., Saggi e note di filosofia dantesca, Milano-Napoli 1966, 29, 158, 219, 392; A. Zimmermann, D. hatte doch Recht, in " Philosophisches Jahrbuch " LXXV (1967-68).