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La Sierra Leone è un paese dell’Africa occidentale la cui storia recente è segnata da una lunga e sanguinosa guerra civile, scoppiata nel marzo 1991 e terminata nel gennaio 2002. Oltre a rappresentare il periodo più buio della storia sierraleonese dall’indipendenza, ottenuta dal Regno Unito nel 1961, il conflitto ha destabilizzato l’intero scacchiere geopolitico regionale.
La guerra civile era scoppiata con la conquista di due città nel Sud Est, sul confine con la Liberia, da parte del Revolutionary United Front (Ruf), nelle cui fila militavano guerriglieri di Sierra Leone, Burkina Faso e Liberia. L’anno successivo, nell’aprile 1992, un golpe militare guidato da giovani ufficiali dell’esercito sierraleonese rovesciò il governo di Joseph Saidu Momoh e istituì il supremo consiglio di stato. Furono messi al bando i partiti e sospesala Costituzione. Valentine Strasser, leader del gruppo di giovani soldati, divenne, a soli 25 anni, il più giovane presidente al mondo. La regione orientale della Sierra Leone fu invece occupata dallo United Liberation Movement of Liberia for Democracy (Ulimo), impegnato a combattere contro l’esercito del presidente liberiano Charles Taylor, a sua volta alleato di Foday Sankoh, leader del Ruf.
I territori in mano ai due gruppi ribelli costiuiscono a tutt’oggi la regione più prospera della Sierra Leone, per la presenza di giacimenti aurei e diamantiferi. La possibilità di alimentare l’apparato bellico da parte dei rivoluzionari per più di un decennio è legata appunto alla vendita illegale dei diamanti, commercio che ha contribuito al collasso dell’economia nazionale sierraleonese, che già era in condizioni critiche.
In pochi anni le vittime del conflitto civile hanno raggiunto le decine di migliaia e i profughi sono diventati circa due milioni. Nella seconda metà degli anni Novanta la comunità internazionale ha deciso di intervenire. Nel marzo del 1998, le forze – per lo più nigeriane – del gruppo di monitoraggio della comunità economica degli stati dell’Africa Occidentale (Ecomog) hanno occupato la capitale Freetown, esautorando Johnny Paul Koroma, salito al potere con un golpe militare. Hanno poi insediato al suo posto Ahmad Tejan Kabbah, che nel 1996 aveva vinto regolari elezioni presidenziali.
Nell’ottobre del 1999, dopo che i ribelli del Ruf avevano conquistato parte della capitale e negoziato una pace fittizia, ottenendo cariche strategiche all’interno del nuovo governo, le Nazioni Unite (Un) si sono insediate in Sierra Leone con la missione Minusil. Le forze Un, dopo due anni di scontri, sono riuscite ad avviare il disarmo dei ribelli e a sancire, nel gennaio 2002, la fine della guerra civile.
Segno della nuova fase politica è stato l’istituzione della corte speciale sierraleonese per giudicare i crimini di guerra. I processi, avviati nel 2004, si sono conclusi nel 2009, eccezion fatta per il caso Taylor, trasferito all’Aia e in attesa di verdetto. Nel 2005, le truppe della missione Minusil sono state ritirate in favore dell’ufficio integrato delle Nazioni Unite (Uniosil), creato dal consiglio di sicurezza per agevolare il processo di democratizzazione.
L’attuale presidente Ernest Bai Koroma, confermato alle elezioni del 15 novembre 2012 (le prime senza la supervisione dell’Un) con circa il 58,7% dei consensi, ha intrapreso, con l’aiuto economico della comunità internazionale, un percorso di riforme per migliorare la sanità, il sistema scolastico e per rafforzare la struttura economica del paese, potenzialmente competitiva ma ancora arretrata. Sul piano internazionale Koroma ha mantenuto solidi legami con i paesi donatori e gli istituti internazionali che sostengono la pace in Sierra Leone e ha stretto buoni rapporti diplomatici con tutti gli stati limitrofi. Le maggiori preoccupazioni derivano oggi dall’instabilità politica e sociale di Costa d’Avorio e Guinea-Bissau. Mosso dal timore che la crisi ivoriana potesse riverberarsi sul paese, Koroma si è impegnato in prima linea nella risoluzione di questi conflitti, anche in qualità di rappresentante dell’Ecowas.
Con la fine della guerra civile nel gennaio 2002, circa 1,2 milioni di profughi sono tornati in Sierra Leone. Tuttavia, quasi il 50% di coloro che avevano abbandonato il paese è rimasto all’estero. Le condizioni di vita dei cittadini sierraleonesi sono ancora rese instabili da gravi problemi sanitari, dalle lacune del sistema educativo e più in generale dalla mancanza di sviluppo. Il 57% dei sierraleonesi non ha accesso all’acqua potabile, la mortalità infantile rimane alta (117,4 bambini deceduti ogni mille nati vivi), mentre la speranza di vita alla nascita non raggiunge i 48 anni d’età. Infine, quasi un bambino su due è costretto a lavorare e il tasso di alfabetizzazione si attesta a poco più del 42%. Non a caso l’indice di sviluppo umano, stilato dallo Undp, relega la Sierra Leone al 177° posto su 187 paesi.
Oltre alla carenza di beni primari va ricordata la piaga della corruzione, che riduce la capacità statale di dispiegare efficacemente i propri interventi nei settori chiave. Il presidente Koroma, a partire dal suo mandato, ha avviato una campagna di sensibilizzazione sul tema e tramite la commissione anticorruzione, nata nel 2000, ha lanciato un’iniziativa di trasparenza: chi riveste cariche pubbliche deve fare una dichiarazione pubblica del reddito. La commissione, inoltre, dal 2009 svolge vere indagini, che hanno portato all’arresto del ministro della salute e alla sospensione dell’autorità nazionale delle entrate. Il provvedimento inizia a mostrare i suoi effetti: nella classifica
sul livello di corruzione percepita stimato su 176 paesi, la Sierra Leone è passata dalla posizione 150 alla 119.
La Sierra Leone, la cui economia è stata di fatto distrutta da più di dieci anni di guerra civile, attira oggi l’interesse di numerosi investitori internazionali, cinesi inclusi.
La relativa stabilità dell’ultimo decennio e l’affiancamento di alcune istituzioni internazionali hanno permesso alla leadership politica di perseguire piani di ricostruzione dinamici e su vasta scala.
Spinto soprattutto dal settore minerario (in particolare dal ferro), il prodotto interno lordo del paese è passato da un tasso di crescita del 6% nel 2011 al 13,3% nel 2013. Una tale accelerazione economica è stata anche sostenuta dai progressi raggiunti nei settori dell’agricoltura e dei servizi. Questa robusta crescita è stata accompagnata, inoltre, da una politica monetaria restrittiva che ha ridotto le pressioni inflazionistiche. Di conseguenza, l’inflazione è scesa dal 18,5% nel 2011 al 10,9% nel 2013 e si prevede il ritorno a una sola cifra nei prossimi anni.
Il servizio sul debito del paese, già abbattuto nell’immediato dopoguerra, ha subìto un’ulteriore diminuzione nel gennaio 2006, a seguito della cancellazione di 1,6 miliardi di debito pubblico (pari al 90% del totale) da parte dei creditori internazionali.
Il paese gode dell’aiuto dell’agenzia di assicurazione crediti del gruppo della Banca mondiale (Miga), che sostiene diversi progetti nel settore agricolo, industriale e dei servizi (trasporti), e si giova del supporto finanziario dei maggiori paesi occidentali, tramite il finanziamento di programmi destinati a migliorare il settore scolastico e il sistema sanitario (entrambi molto carenti), e a ridurre i livelli di povertà. La Sierra Leone, inoltre, ha accesso a canali economici preferenziali con l’Unione Europea tramite gli accordi di partenariato economico dell’Eu con i cosiddetti paesi Acp (Africa, Caraibi, Pacifico), che le consentono libero accesso al mercato europeo. Analogamente, l’accordo commerciale Agoa (African Growth and Opportunity Act), stipulato con gli Stati Uniti, offre un accesso doganale sul mercato statunitense libero da quote. Sul piano regionale risultano decisivi l’accordo di cooperazione economica e istituzionale Mano River Union, che dal 2008 vede cooperare Sierra Leone, Guinea, Liberia e Costa d’Avorio nei settori delle infrastrutture e per il problema dei rifugiati, e l’Ecowas, nell’ambito di politiche monetarie e di libero scambio. Il presidente Koroma, infine, ha annunciato riforme volte ad attrarre investimenti esteri e ha avviato, con tale intento, privatizzazioni nel settore energetico, edilizio e minerario. In quest’ultimo settore, è già rilevante la presenza di aziende straniere. Tra le altre, operano la Titanium Resources Group, controllata dal Regno Unito, la Sierra Minino, controllata dall’olandese Vimetco e la African Minerals, che detiene le concessioni più importanti per l’estrazione di ferro, con siti a Tonkolili e Marampa.
Un limite allo sviluppo delle potenzialità del paese e del settore privato è dato dalle carenze infrastrutturali ed energetiche. Lo sviluppo industriale e l’aumento della domanda comportano un maggiore fabbisogno energetico a cui il paese non riesce a far fronte (e che creerà sempre più difficoltà). Per migliorare l’accesso delle imprese all’elettricità e ridurre i costi operativi, il governo sta avviando la seconda fase di sviluppo della centrale idroelettrica Bumbuna. Un progetto cofinanziato da due aziende statunitensi che aumenterà la capacità di generazione della centrale da 50 MW a circa 250 MW entro il 2017.
I flussi turistici, grazie alla presenza di grandi parchi naturali e di 400 chilometri di spiagge, sono destinati ad aumentare. Il maggior scoglio è costituito dalla mancanza di strutture alberghiere e turistiche e dal ricordo, ancora vivo, della sanguinosa guerra civile. Il settore agricolo, per il quale iniziano ad arrivare significativi investimenti stranieri, è ancora a livello di sussistenza e dei 5,4 milioni di ettari di terre coltivabili solo il 20% è sfruttato. I maggiori prodotti agricoli sono riso, olio di palma, anacardi, caffè e cacao.
Il settore minerario, invece, è trainato dall’estrazione dei diamanti, che copre il 50% delle esportazioni. Altre significative estrazioni riguardano i giacimenti di oro, bauxite, ferro e titanio. Infine, risultano importanti le scoperte di giacimenti di idrocarburi off-shore, la cui estrazione potrebbe avviarsi nei prossimi anni.
Benché la guerra civile sia terminata ormai da più di dieci anni e i soldati della missione di peacekeeping della Nato Minusil siano riusciti a disarmare e a riabilitare 70.000 guerriglieri, l’esercito sierraleonese riveste ancora un ruolo importante. I 10.500 soldati sierraleonesi non detengono più il ruolo predominante che, a livello politico, ricoprivano nei decenni successivi all’indipendenza dal Regno Unito, quando alcuni dei leader saliti al potere provenivano direttamente dai ranghi militari. Tuttavia l’esercito e le forze di polizia sono ancora decisivi nelle operazioni di controllo dei confini e delle zone di estrazione diamantifera, così come in quelle di mantenimento dell’ordine e di lotta alla corruzione e ai trafficanti di droga. Inoltre l’esercito della Sierra Leone si incarica della partecipazione, largamente simbolica, agli organismi multilaterali: un contingente di 11 sodati è impegnato nella missione di peacekeeping delle Nazioni Unite in Sudan (Unamid), mentre alcuni osservatori sono presenti in Libano, in Nepal e a Timor Est, rispettivamente tramite le missioni Unifil, Unmin e Unmit.
Sul territorio sierraleonese sono presenti soldati canadesi, giamaicani, nigeriani, statunitensi e inglesi (questi ultimi, con 63 militari, rappresentano il gruppo più consistente), arruolati all’interno del Team militare internazionale di formazione (Imatt) che dal 2002 ha il compito di assistere e preparare le truppe sierraleonesi nel garantire ordine e sicurezza nel paese.
La stabilità del paese è stata giudicata potenzialmente in pericolo in seguito agli attacchi terroristici attribuiti al gruppo militante islamico al-Shabab, responsabile dell’attentato al centro commerciale di Nairobi del settembre 2013. La Sierra Leone partecipa alla missione dell’Unione africana in Somalia (Amisom), e al-ShabaAb ha minacciato ripetutamente di sferrare attacchi contro i paesi che contribuiscono alla missione. Freetown quindi, anche se rispetto al Kenya svolge nella missione un ruolo più marginale, mantiene alto lo stato d’allerta.
L’espressione inglese blood diamond descrive il fenomeno del commercio di diamanti come fonte di finanziamento nelle guerre civili. È il caso del Revolutionary United Front (RUF), che nel corso degli anni Novanta, per sostenere la lotta in Sierra Leone, scambiava i minerali preziosi, di cui controllava le riserve, con armi, materiale bellico e grandi quantità di denaro. Nel 1997 il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite impose l’embargo delle armi e del petrolio verso la Sierra Leone, senza tuttavia regolare il commercio illegale diamantifero. Tra il 1994 e il 1998 risulta che su Anversa, una delle capitali mondiali dei diamanti, si siano riversati dalla Liberia una media di sei milioni di carati annui, cifra ben superiore alle capacità produttive del paese (pari a 150.000 carati all’anno). La discrepanza tra i dati di estrazione e quelli di esportazione in riferimento alla Liberia è la dimostrazione che il RUF, in assenza di una legislazione internazionale sul commercio dei diamanti, vendeva il prezioso minerale alla Liberia in cambio di armi e che quest’ultima rivendeva sul mercato mondiale i diamanti sierraleonesi mischiati a quelli di propria estrazione, rendendo così difficile ricostruire il percorso della filiera industriale diamantifera. Solo nel 2000 il consiglio di sicurezza ha vietato l’acquisto, diretto e indiretto, di diamanti grezzi estratti in Sierra Leone così come in Angola e in Costa d’Avorio, paesi afflitti da simili problemi. Tuttavia, le oggettive difficoltà a rendere efficace la risoluzione hanno permesso al RUF di continuare il prolifico commercio dei ‘diamanti insanguinati’. L’anno successivo, per rendere effettivo l’embargo, le Nazioni Unite hanno invitato tutti i paesi a rispettare il Protocollo di Kimberley. Il nome viene dalla città del Sudafrica in cui è stata stesa una prima bozza di accordo sul commercio dei diamanti, emersa dalle consultazioni tra governi, imprese di settore e rappresentanti della società civile. Il 1° gennaio 2003 il protocollo è stato formalizzato con la stipula del Kimberley Process Certification Scheme (KPCS), cui aderiscono oggi 81 paesi. Il Protocollo – sostanzialmente un sistema di garanzie tuttora valido – prevede che sia tracciato il percorso dei diamanti dall’estrazione sino alla lavorazione ultima, che i contraenti non possano commerciare con paesi non appartenenti al ‘Kimberley Process’ e che non possano acquistare diamanti misti, ovvero estratti in nazione diverse.
Tale accordo non è tuttavia assimilabile ai trattati internazionali: mancano le firme dei contraenti e la registrazione presso il segretariato generale delle Nazioni Unite. I delegati dei paesi che fanno parte del KPCS si sono incontrati a novembre 2013 a Johannesburg per discutere proposte che amplieranno il potere di agire contro i venditori illegali