Nel pensiero politico moderno, la difesa dei diritti individuali è sempre stata intimamente legata al concetto di sicurezza, traducendosi in una relazione molto spesso conflittuale tra le prerogative dell’individuo e quelle dello stato. Sebbene gran parte dei pensatori politici moderni interpretino lo stato come garante della sicurezza degli individui contro la violenza anarchica del cosiddetto ‘stato di natura’, gli esiti che questo paradigma concettuale ha avuto nell’evoluzione delle teorie e delle pratiche politiche sono stati molto diversi.
Per esempio, secondo Thomas Hobbes, teorico della concezione assoluta della sovranità, la sicurezza è il primo obiettivo del potere statuale e, al fine di garantirla, lo stato non incontra limiti posti dagli individui che lo hanno creato.
Di tutt’altro avviso è John Locke, ispiratore del liberalismo e della rivoluzione inglese, secondo il quale la sovranità dello stato è costitutivamente limitata nella sua sfera d’intervento dai “diritti naturali” degli individui. Questo intreccio plurisecolare tra sicurezza e diritti ha costituito la sottotraccia del dibattito politico della modernità ed ha ispirato le due grandi rivoluzioni del ‘700.
Nel dibattito classico sul binomio sicurezza-diritti si sono distinte, in modo particolare, le tesi costituzionaliste, le quali puntano a stabilire i limiti dell’esercizio (legittimo) del potere e delle politiche di sicurezza, e la riflessione teorica della ragion di stato, che invece individua nella sicurezza il cardine assoluto della sovranità e a questa sottomette i diritti individuali.
Tra l’una e l’altra scuola di pensiero si sono poi collocate, nel corso dei secoli, varie posizioni intermedie che hanno cercato di combinare o modificare la relazione indissolubile tra sicurezza e diritti. A livello globale, l’affermazione dello stato moderno si è tradotta nel paradigma della ‘sicurezza nazionale’, che ha largamente definito il sistema tradizionale delle relazioni internazionali (il cosiddetto modello westphaliano) ed ha ispirato i principali approcci allo studio della politica internazionale, da quello realista, che vede lo stato come agente autonomo interessato esclusivamente alla massimizzazione della propria sicurezza, a quello liberale, che invece riserva un posto significativo agli individui ed ai loro diritti.
La proclamazione ufficiale della dottrina dei diritti ‘umani’, avvenuta con la ratifica della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani da parte dell’Onu nel 1948, ha influito sulla concezione classica di sovranità nazionale (fondata sul principio di non interferenza), stimolando un dibattito sulla giustificabilità dell’intervento esterno (cosiddetto ‘umanitario’) in un mondo in cui sono spesso i governi le principali minacce ai diritti umani dei propri cittadini.
Nel 2001, la Commissione Internazionale sull’Intervento e la Sovranità (un organo indipendente di sostegno all’Assemblea Generale dell’Un) ha sottolineato come la sovranità implichi «la responsabilità di rispettare la dignità ed i diritti fondamentali di tutte le persone che vivono in un determinato stato», ammettendo che laddove la popolazione sia soggetta a violazioni dei diritti umani e lo stato in questione non sia in grado o non sia disposto ad intervenire, allora il principio di non interferenza cede il passo alla «responsabilità internazionale di proteggere».
Nel 2004, una tesi simile è stata avanzata dal Panel di Alto Livello creato dall’allora segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, che in uno sforzo di giustificazione dell’intervento umanitario ha fatto riferimento ai “principi di sicurezza collettiva”.
Questi nuovi concetti sono stati introdotti per ricomporre il conflitto tradizionale tra sicurezza e diritti ed hanno spianato la strada all’introduzione di un nuovo paradigma nell’analisi delle relazioni internazionali: la sicurezza umana, concetto multiforme che - ponendo l’individuo ed il suo bisogno di sicurezza al centro della politica globale - intende ridisegnare i compiti dello stato e della comunità internazionale.