sicilianismi
Il linguaggio della lirica duecentesca, e non solo della lirica, fu profondamente segnato dalla koinè creata dalla prima scuola poetica italiana, la cosiddetta scuola siciliana. Il prestigio dei Siciliani, che fur già primi a volgere in un volgare italiano temi e forme della poesia provenzale, restò grandissimo per tutto il sec. XIII, per il giudizio sulla loro lingua dato da D. nel De vulg. Eloq., v. SICILIA: Lingua.
Le più notevoli caratteristiche del volgare della scuola siciliana, inferibili da quanto è giunto fino a noi, rinviano dialettologicamente alla Sicilia. I tratti più tipici ed evidenti s'incontrano nel vocalismo, dove, sotto accento, ó ed é si confondono rispettivamente con u e i (si vedano, per es., le rime taciri: diri, valuri: amaturi nella canzone Pir meu cori alligrari di Stefano Protonotaro), e, fuori di accento, e s'identifica generalmente con i e o con u (si ricordi l'incipit della stessa canzone di Stefano). Altri caratteri linguistici, come i tipi saccio, " so ", e aggio, " ho ", il perfetto ind. di III singol. in -ào (portao, amao), l'imperfetto e il condizionale in -ia (avia, avria), il condizionale da piuccheperfetto indicativo latino (gravàra " graverebbe ", sembràra " sembrerebbe "), ecc., appartengono più genericamente all'Italia meridionale o centro-meridionale, ma non sembrano mai contraddire al siciliano, almeno nella sua fase più antica.
L'influsso di questa koinè poetica fu subito notevolissimo in Toscana. I cosiddetti poeti siculo-toscani, che, con a capo Guittone d'Arezzo e Bonagiunta da Lucca, raccolsero l'eredità dei siciliani, ne accolsero anche, per larga parte, il linguaggio, divenuto in breve tempo il linguaggio lirico per eccellenza, una specie di superlinguaggio a uso del poeta, come lo era stato e, in parte, lo era ancora la lingua provenzale. E poiché la trasmissione non avveniva senza alterazioni e adattamenti linguistici, accanto ai s. genuini passarono nelle liriche dei poeti toscani s. spurii o pseudosicilianismi, dovuti appunto alla penna dei copisti (anch'essi toscani) che trascrivevano i testi. È il caso della cosiddetta rima siciliana: di fronte a rime come uso: amoroso o servire: piacere (risalenti evidentemente alla responsabilità del copista, che non poté staccarsi dall'originario vocalismo siciliano senza infrangere la rima) ci si convinse della liceità di far rimare é con i e ó con u. E anzi, stante la perfetta normalità di é: è e ó: ò, si poté estendere questa possibilità fino ad ammettere la rima di i e u rispettivamente con e e o aperti, secondo quella che si usa chiamare la rima guittoniana (cfr. Rima 2.1.).
I poeti fiorentini che precedettero immediatamente la generazione di D. (da Chiaro Davanzati a Monte Andrea a Brunetto Latini) non escono linguisticamente da questo quadro. Le loro poesie pullulano e, a volte, traboccano di sicilianismi.
" Chiaro Davanzati, Neri de' Visdomini " rileva, esemplificando, il Baldelli " adoperano calori, valori al singolare con -i finale siciliano; e forme verbali con -i finale tipo ardi per ‛ arde ' di terza persona usa Piero Morovelli; Monte Andrea, siri per ‛ sire '; i pronomi personali meve e seve si reperiscono in Carnino Ghiberti, Chiaro, Monte Andrea, Rustico Filippi (oltre che in Guittone e in altri siculo-toscani). In Camino Ghiberti si arriva a: ‛ Dunqua, se fosse, chiaceriami morte / più non fa vita stando dipartuto / e non veggendo la vostra figura: / ca non saria sì angosciosa e forte, / ma mi sembrara c'avesse dormuto, / risuscitando a vostra parladura ' con una veramente impressionante presenza di sicilianismi (chiaceriami, saria, sembrara, dipartuto, dormuto, ca) ". Nel Tesoretto di Brunetto Latini ricorrono spesso i perfetti durao, posao, ecc.; in Chiaro, in Carnino Ghiberti e in altri è possibile anche incontrare palesi s. lessicali come abentare, " riposare " o lavoro nel senso di " grano maturo ". Si giunge fino al punto di accogliere meridionalismi rari ed estranei alla stessa tradizione siciliana canonica, come nn per nd in sormontanno e dimanni (Chiaro) e in asconna (Dante da Maiano).
La saldatura con questi rimatori fiorentini, fortemente esposti all'influsso siciliano, è ben visibile nelle prime prove poetiche di Dante. Il carteggio con Dante da Maiano, " ritardatario del postguittonismo fiorentino già in anni segnati dallo Stil Nuovo " (Contini), contiene in effetti alcuni s. che non si ritroveranno, o si ritroveranno rarissimamente, in seguito: il tipo ‛ saccio ', per esempio (Rime XLII 5, XLIV 4 e 10), che ritornerà nella giovanile canzone La dispietata mente (Rime L 29) e poi soltanto in poesie di dubbia attribuzione (V 43, XVII 3, XXIV 9) e, con particolare frequenza, nel Fiore (LXII 1, CXXVI 6, CLI 2, CLX 7, ecc.). Proprio la presenza, particolarmente insistita, di stilemi siciliani ha indotto il Contini a individuare l'autore del Detto in un D. giovanissimo, al tempo delle più assidue frequentazioni siciliane e siculo-toscane.
Compaiono in effetti in questa operetta s. assolutamente eccezionali in D., quali la dia, " il dì " (v. 209) e avento, " riposo ", " riparo " (v. 342). Comunque, già in questa fase giovanile e sperimentale, si notano alcune vistose esclusioni rispetto ai siculo-toscani e, in particolare, ai fiorentini di più stretta osservanza siciliana. È totalmente assente il perfetto in -ao, ed è assente il ca (" che "), così largamente accolto dai rimatori precedenti; non s'incontra il futuro in -aggio (salvo in una rima dubbia [cheriraggio, XIX 13] attribuita da diversi studiosi a Dante da Maiano), né s'incontrano i vari meve e seve, conservatisi ancora, in qualche esemplare, in Cino da Pistoia.
C'è insomma, già all'inizio della carriera poetica dantesca, un sensibile distacco dalla moda sicilianeggiante. E questo distacco aumenta man mano che D. acquista la consapevolezza della propria maturità stilistica e si accinge a sciogliersi dal nodo che ritenne i suoi predecessori più famosi. Da questo momento in poi la lirica dantesca accoglie un numero limitato di s. linguistici; e si tratta in buona parte delle forme che filtreranno nella tradizione poetica successiva e diverranno largamente vulgate.
Cominciamo dalla rima siciliana. Nelle liriche della Vita Nuova, del Convivio e delle extravaganti la rima siciliana è limitata a pochi esemplari, in pratica vui e nui (o, preferibilmente, noi e voi: v. sopra) in rima con lui, altrui, colui, fui, ecc.: Vn XII 12 18, XIV 12 11, XIX 6 13, XXII 13 2, XXIII 25 28, XXXI 9 9, XXXVIII 8 1 e 9 8; Rime L 21, LIX 2, LXXXVII 10; Cv II Voi che 'ntendendo 8, III Amor che ne la mente 44, IV Le dolci rime 33. Per il resto si hanno solo pochissimi casi isolati: il paurusi (" paurosi ", in rima con chiusi) di LXV 10, in un sonetto così tipicamente stilnovistico, che qualcuno si è chiesto se per caso proprio la crudezza di tale rima non abbia contribuito a farlo escludere dalla Vita Nuova; un vide (" vede ", in rima con ancide), in un sonetto di Vn XV 6 9, che mostra, proprio nelle rime, singolari echi guinizzelliani (cfr., del Guinizzelli, Lo vostro bel saluto e 'l gentil sguardo, specialmente ai vv. 2-8); e sarà da aggiungere, ancora dalla Vita Nuova, l'audesse (in rima con sapesse e volesse) di XXXI 15 59, se, com'è pressoché certo (cfr. ediz. Barbi, Introduzione, p. CCCVI), si debba intendere e trascrivere audisse. Anche la rima guittoniana, che della siciliana è, come abbiamo visto, una filiazione, fa brevi e circoscritte apparizioni nelle liriche dantesche: pui, cioè " poi ", in rima con i soliti lui, altrui, fui, ecc., dentro (XX 5 9, XXII 14 7, XL 10 11) e fuori (Rime LIX 6, LXXXVII 24) della Vita Nuova; e, per il resto, solo uno scritto, XLVIII 4 (in rima con poemetto: metto: intelletto...), in un sonetto rinterzato delle Rime, che fin dallo schema metrico denuncia la presenza di Guittone. Egualmente, e anche più, limitata appare la rima siciliana relativa all'atona finale: se ne trova traccia solo in un sospire (" sospiri ", in rima con sentire e disire) della giovanile ballata Per una ghirlandetta (Rime LVI 14).
Se veniamo ora a esemplari schiettamente siciliani, giunti fino ai toscani e a D. superando le avventure e i pericoli delle trascrizioni, non possiamo dire di notare, neanche in questa zona, fatti veramente vistosi e sistematici. Una forma come miso, in rima in CIV 83 e fuori rima in Vn VIII 5 6, era stata già accolta dal Guinizzelli (Madonna, il fino amor 19; Donna, l'amor mi sforza 24): e per sottolineare la disponibilità dei materiali siciliani a ragioni di stile e di gusto, non sarà inutile ricordare che il primo e più maturo dei due esempi (tratto dalla canzone Tre donne intorno al cor) si trova incastonato in un luogo tutto sicilianeggiante. Precisamente nello stesso luogo cadono due dei quattro o cinque esemplari della forma have " ha ", che s'incontrano in D.: E se non che de gli occhi miei 'l bel segno / per lontananza m'è tolto dal viso, che m'have in foco miso, / lieve mi conterei ciò che m'è grave. / Ma questo foco m'have / già consumato sì l'ossa e la polpa, CIV 81-86; il bel segno è Firenze, rievocata qui dall'esule con toni di struggente nostalgia e, quasi, di desiderio amoroso. Gli altri due esemplari sono in rime di Vn VII 4 12 e XIX 7 19; un quinto in Detto 160. Quanto dire che l'ascendenza siciliana o siculo-toscana è, anche in questo caso, sicura.
Oltre a questi s'incontrano solo esemplari talmente diffusi e banali che il loro significato allusivo diviene scarsissimo o va totalmente perduto. Si pensi a forme come aggi, aggie, aggiate, Vn XII 15 44, Rime XL 9, LVIII 3, CVI 129 (mai l'indicativo aggio), o deggi, deggia, XLVIII 7, LXI 5 (e Rime dubbie XX 5, XXIV 10, dove si trova anche deggio); e si pensi soprattutto agl'imperfetti e ai condizionali in -ia, penetrati nel linguaggio poetico attraverso i siciliani e presenti nelle liriche dantesche, il primo parcamente solo in rima (Vn XXIII 18 8, XXIV 7 4 e 6, XXXI 9 8, XXXIV 8 4; Cv II Voi che 'ntendendo 17, IV Le dolci rime 1), il secondo assai diffusamente e in libera alternanza con l'indigeno -ebbe. Si tratta di forme non solo siciliane, ma largamente diffuse nell'Italia centro-meridionale, e penetrate perfino in qualche dialetto toscano; il che avrà forse facilitato un'accoglienza così facile e vasta. È certo in ogni modo che, quanto esse avevano guadagnato in estensione, altrettanto avevano perduto o stavano perdendo, già al tempo di D., in allusività e potere evocativo. Un discorso pressappoco analogo è da fare, nelle Rime, per il condizionale da piuccheperfetto latino, presente solo nell'esemplare più comune e vulgato, cioè fora in Rime LXXXIII 28 (e in Rime dubbie XXVII 3). Un po' diversa e meno banale la situazione del participio passato in -uto da verbi in -ire, altro tratto meridionale e segnatamente siciliano: accanto al notissimo feruto (CXVI 46), si rileva la presenza del meno comune vestuta, vestute (Vn XXVI 6 6 e 11 7) in due sonetti tipicamente stilnovistici, Tanto gentile e Vede perfettamente.
Si è parlato fin qui e in primo luogo delle rime di D., perché ovviamente la loro stessa natura lirica le rende particolarmente sensibili agli stimoli mediati o immediati dei siciliani. Resta esclusa dal nostro discorso la prosa, pregiudizialmente chiusa a una tradizione linguistica di tale estrazione: anche se qualcuno dei s. più diffusi segnalati sopra, particolarmente il condizionale in -ia, sia giunto (secondo un'ipotesi dello Schiaffini) fino a infiltrarsi nei testi prosastici, e lo si ritrovi, in esemplari isolati, in Vn XXXVII 5 (sariano), e in Cv I III 3 (avria).
La diversità dei generi e delle intenzioni stilistiche si riflette del resto anche all'interno della stessa produzione poetica. Se ci soffermiamo ancora per un momento sulle rime, per raccogliere in uno sguardo retrospettivo le minute osservazioni che siamo venuti facendo man mano, non possiamo non rilevare che interi blocchi del canzoniere dantesco, quali le cosiddette ‛ petrose ' o la tenzone con Forese, non presentano s. di rilievo (e lo stesso potrebbe dirsi del Fiore, in cui di veramente notevole per questo aspetto, oltre al tipo saccio già citato, c'è solo un miso in CLXXX 12). Come abbiamo già osservato, dopo le giovanili, meno controllate concessioni alla moda del tempo, si fa luce in D. il proposito deliberato di filtrare forme e stilemi siciliani in modo rigoroso. Ciò porta con sé una conseguenza: che d'ora in poi, quando li si ritrovi in esemplari ben netti e rilevati, l'intenzionalità di queste forme e di questi stilemi è assolutamente certa e il loro potere evocativo assai maggiore. Proprio per questa ragione è del tutto sintomatico che, dopo quei primi esperimenti giovanili, i pochi s. più veri tendano a coagularsi, nel canzoniere dantesco, proprio nei momenti di più forte accensione lirica, particolarmente nella zona poetica dei due successivi stilnovismi, quello della Vita Nuova e quello delle canzoni morali e allegoriche, o, se vogliamo, quello della Vita Nuova e quello del Convivio. Evidentemente è quando il tema amoroso diviene più sottile e intenso, che il modello siciliano o siculo-toscano, altrove variamente dissimulato, si fa ancora stilisticamente vivo e offre, numerati e ridotti a simboli, materiali verbali di alta efficacia espressiva.
Un discorso a parte spetta alla Commedia; e le osservazioni fatte or ora sul diverso dosaggio del s. a seconda del tono e del genere dell'opera letteraria, giustificano questa trattazione a parte. In effetti con la Commedia siamo, dal punto di vista del genere, ben al di fuori della tradizione poetica fondata dai siciliani, e dobbiamo ragionevolmente anche aspettarci un diverso atteggiamento di D. di fronte ai materiali linguistici che da quella tradizione gli venivano offerti.
In verità il s. non e affatto ignoto né estraneo alla Commedia. Ricorrono intanto quelle forme che abbiamo visto ormai notevolmente diffuse a ogni livello poetico e penetrate, a volte, perfino nella prosa: i congiuntivi aggi, aggia (Pg VI 102, XXXIII 105, Pd V 127) e l'indicativo deggio (If XV 118, XXVII 109, Pg XXI 102) in rima e fuori rima; gl'imperfetti in -ia, in rima (If IV 69, XII 29, Pg X 81, Pd XVIII 77-79-81) e fuori rima (If IV 17, IX 39 e 50, XII 57 e 102, ecc.); e il condizionale in -ìa (If VII 92, XV 105, XVI 42 e 48 e 88, ecc.), sempre fuori rima (per la misura delle rispettive alternanze con -ea e -ebbe, cfr. A. Schiaffini, L'imperfetto..., pp. 10-11; Petrocchi, Introduzione 463-465). Dei participi passati in -uto ricorre solo feruto, e ferute sostantivo (If I 108, XI 34, XXI 87, ecc.), affiancato del resto a ferito, ferita, e poi vestito, partito, smarrito, ecc., sempre.
Qualcosa di più significativo s'incontra nel settore della rima siciliana. Nell'ambito del linguaggio lirico che già conosciamo rimangono le rime voi (: fui: sui), If V 95; noi (: fui: sui), IX 20; e il lume (: nome: come) di If X 69, che allude a un testo capitale dello stilnovismo, la canzone Donna me prega di Guido Cavalcanti (vv. 16-19). Venisse (: desse: temesse), If I 46, richiama un caso analogo già segnalato nella Vita Nuova (v. sopra). Più singolari agogna (: pugna: pugna), If VI 28; suso (: sdegnoso: desideroso), X 45; e di sotto (: tutto: costrutto), XI 26, il primo peraltro non sicurissimo (cfr. Petrocchi, ad l.). Si aggiunga la rima guittoniana (o umbro-aretina) di fuori (: sicuri: duri), Pg XIX 81, anch'essa fuori del canone lirico descritto sopra (per tutto quanto si riferisce alla rima siciliana, v. anche RIMA 2.1.).
Di nuovo in esemplari già accettati, almeno in parte, dal D. lirico c'imbattiamo con la serie miso (If XXVI 54, Pd VII 21), commisa (Pg VI 21), sorpriso (Pg I 97), ripriso (IV 126), tutti in rima, per i quali, oltre agli esempi guinizzelliani già addotti, si può ricordare Cavalcanti Donna me prega 64; Quando di morte 7; ecc.
Occasionalmente si arriva a punti più avanzati. Se nelle Rime, per i condizionali derivati dal piuccheperfetto latino, troviamo il solo e comunissimo fora, nella Commedia s'incontra anche, una volta, il raro satisfara (: chiara: schiara), in Pd XXI 93. E accanto ad aggia ricorre, sempre in rima, aia, If XXI 60 (: caldaia: paia), Pd XVII 140 (: paia), forma siculo-provenzale frequente nei poeti della generazione precedente (la si trova, per esempio, nel Tesoretto 2270), ma ormai in declino al tempo di Dante. Un altro possibile intarsio siciliano nella Commedia è l'este, " è ", di Pd XXIV 141, giunto dai siciliani e dai siculo-toscani fino al Guinizzelli (cfr. la canzone Tegno de folle ‛ mpres ', a lo ver dire 42): sennonché il luogo, squisitamente teologico, lascia il dubbio che la somiglianza col latino non sia stata, in questo caso, estranea alla scelta.
La formula del siculo-latinismo è, del resto, tutt'altro che insolita nel D. della Commedia. Latino e siciliano si ritrovano confusi insieme in sape, sempre in rima, nelle due ultime cantiche, Pg XVIII 56, Pd XXIII 45, XXVIII 78; nei perfetti in -ivi per -ii di I singol., audivi (If XXVI 78), givi (Pg XII 69), ancora in rima; per non parlare dei vari esempi di face, " fa ", faci, " fai " (If I 56, X 9 e 16, XIV 135, XXI 111, ecc.), appartenenti a un tipo largamente diffuso anche nelle liriche (Vn XII 12 22, XV 6 9, XX 5 14, XXVI 11 7, XXXI 10 19, ecc.) e rinvenibile perfino nella prosa del Convivio.
Con ciò il quadro dei s. della Commedia è sostanzialmente compiuto. Si tratta, come si vede, di tessere di un linguaggio aulico, assunto ormai non più nel filo e nella legalità di una determinata tradizione, ma utilizzato qua e là, liberamente, nel complesso e variegato linguaggio di un genere del tutto diverso. Tessere, si dovrà aggiungere, rare e preziose, e quindi da situare bene in evidenza, nelle sedi ritmiche maggiormente esposte all'attenzione del lettore, vale a dire, particolarmente, in rima. Il risvolto di questo impiego stilistico è la scarsa o nulla specificità dell'allusione. Se si eccettua il caso di come: lume: nome di If X 67 ss. (orientato però in tutt'altro senso e in realtà solo accidentalmente ‛ siciliano '), non c'è nulla, nel settore siciliano della Commedia, che segnali automaticamente l'affiorare di un tema o di una situazione poetica precisa. E d'altra parte, e a maggior ragione, non c'è nulla che possa paragonarsi alle vivaci uscite di mimesi verbale suscitate in D. dagl'incontri col lucchese Bonagiunta o col bolognese Caccianemico o anche, al limite, col provenzale Arnaut Daniel. Il volgare siciliano non è mai identificato con entità geograficamente delimitate. Esso è assunto nella sua veste di linguaggio sopraterritoriale e ‛ illustre ', e poi dissolto e frantumato in preziosi tasselli da riutilizzare sparsamente nel gran mosaico della Commedia. Quando D. vorrà ricreare l'alta atmosfera letteraria che doveva circolare nella Magna Curia federiciana, non ricorrerà a mimetismi verbali: preferirà affidare la rievocazione alle sottili figure retoriche che, nel canto XIII dell'Inferno, punteggiano la confessione di Pier della Vigna.
V. anche SICILIA; siciliana, scuola.
Bibl. - In generale sulla lingua dei siciliani e il suo influsso sul linguaggio poetico due-trecentesco, cfr. Contini, Poeti, passim (specialmente le introduzioni alle singole sezioni e il commento); inoltre A. Schiaffini, La prima elaborazione della forma poetica italiana, in Momenti di storia della lingua italiana, Roma 1953², 7-42; M. Vitale, Poeti della prima scuola, Arona 1951; B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze 1960, 130-143; Panvini, Rime (il secondo volume è occupato interamente da un ampio glossario); G. Folena, Cultura e poesia dei Siciliani, in Storia della letteratura italiana, a c. di E. Cecchi e N. Sapegno, I 272-348. Ancora utile, benché invecchiato, N. Caix, Le origini della lingua poetica italiana, Firenze 1880. In particolare, sulla rima siciliana: Parodi, Lingua 152-188; G. Contini, Esperienze d'un antologista del Duecento poetico italiano, in Studi e problemi di critica testuale, Bologna 1961, 241-272 (partic. 256-257). Sul condizionale e l'imperfetto in -ia: A. Schiaffini, Influssi dei dialetti centro-meridionali sul toscano e sulla lingua letteraria. II. L'imperfetto e condizionale in -ia (tipo ‛ avia ', ‛ avria ') dalla Scuola poetica siciliana al definitivo costituirsi della lingua nazionale, in " Italia Dialettale " V (1929) 1-31.
Sul linguaggio dei poeti fiorentini immediatamente precedenti a D.: I. Baldelli, D. e i poeti fiorentini del Duecento, Firenze 1968; G. Folena, Cultura poetica dei primi fiorentini, in " Giorn. stor. " CXLVII (1970) 1-42.
Sulle singole opere di D.: G. Contini, Stilemi siciliani nel ‛ Detto d'amore ', in Atti del Convegno di Studi su D. e la Magna Curia, Palermo 1967, 83-88. Si vedano inoltre le edizioni commentate delle Rime curate da G. Contini (Torino 1965), M. Barbi e F. Maggini (Firenze 1956), M. Barbi e V. Pernicone (ibid. 1969), K. Foster e P. Boyde (Oxford 1967); e inoltre N. Zingarelli, Parole e forme della D.C. aliene dal dialetto fiorentino, in " Studi Filol. Romanza " I (1884) 1-202 (partic. pp. 144-159 e 163); Parodi, Lingua 203-284; G. Bonfante, La lingua siciliana nella D.C., in Atti del Convegno di studi su D. e la Magna Curia, cit., 55-73 (con una postilla in " Boll. Centro Studi Filol. e Ling. Siciliani " [1969] 382-383); Petrocchi, Introduzione 413-471.