SIBILLA d'Aquino
SIBILLA d’Aquino. – Figlia di Rinaldo, signore di Roccasecca e di Cecilia de Medania, nacque presumibilmente poco dopo la metà del XII secolo. Nessun elemento ci consente di conoscere il luogo di nascita.
Intorno al 1170, dopo la morte dello zio materno Ruggero de Medania, suo fratello Riccardo ottenne la contea di Acerra; pochi anni dopo, Sibilla sposò Tancredi conte di Lecce, figlio naturale di Ruggero duca di Puglia, primogenito di Ruggero II d’Altavilla.
Per lunghi anni Sibilla – che secondo un’opinione ancora diffusa nella seconda metà del XIII secolo, quando fu raccolta dal cronista francescano Tommaso Tosco, era ritenuta donna di straordinaria bellezza – restò nell’ombra, mentre il consorte partecipava alla vita pubblica, con crescente fortuna.
Nacquero nel frattempo due figli maschi, Ruggero e Guglielmo, e almeno tre figlie femmine, Albiria, Costanza e Medania.
La situazione politica si modificò però nel 1189, quando dopo la morte di Guglielmo II, avvenuta il 18 novembre del 1189, Tancredi fu chiamato dai magnati del regno ad arginare le pretese di Enrico VI di Hohenstaufen e di sua moglie Costanza d’Altavilla e il 18 gennaio 1190 fu incoronato re di Sicilia. Sibilla, nella sua nuova veste di regina, si trasferì nel palazzo regio di Palermo, dove ebbe in custodia per alcuni mesi l’imperatrice Costanza, che era stata catturata a Salerno sul finire del 1191.
Nel frattempo, il comando delle operazioni militari nelle provincie continentali fu affidato al fratello della regina, Riccardo di Acerra, nominato giustiziere di Puglia e Terra di Lavoro, che nel 1190 riuscì a catturare il principale avversario di Tancredi, il conte Ruggero d’Andria, e nel corso dell’anno successivo contrastò efficacemente il primo tentativo di conquista imperiale del regno di Sicilia.
La morte prematura del primogenito Ruggero, il 24 dicembre 1193, e quella altrettanto inaspettata di Tancredi, il 20 febbraio 1194, proiettarono improvvisamente Sibilla al centro di vicende politiche delicate e complesse che coinvolgevano le forze locali, il Papato e l’Impero. Fatte celebrare le esequie del marito nella cattedrale di Palermo, Sibilla assunse la reggenza per conto del figlio Guglielmo III, non ancora maggiorenne, assistita da un consiglio di familiares ristretto e poco autorevole, con alcuni membri, come l’arcivescovo Bartolomeo di Palermo, pronti a passare dalla parte dell’imperatore alla prima occasione. Sul piano internazionale, l’unico sostegno poteva essere assicurato dal pontefice in quanto il basileus Isacco II Angelo, che nel 1192 aveva concluso un’alleanza con Tancredi e aveva acconsentito al matrimonio tra la figlia Irene e il primogenito del re di Sicilia Ruggero, era impegnato nel tentativo di contenere le frequenti rivolte interne e la pressione dei Bulgari sul confine balcanico.
Nei pochi mesi di reggenza, Sibilla non riuscì a organizzare una efficace difesa dei domini normanni. Pertanto, quando le forze fedeli a Enrico VI e a Costanza si riversarono sulle regioni continentali, la fedeltà dei feudatari e dei grandi ecclesiastici che avevano sostenuto Tancredi cominciò a vacillare e le forze imperiali, senza incontrare grosse difficoltà, entrarono a Napoli nell’agosto 1194, presero e saccheggiarono Salerno il 17 settembre e si impadronirono dei centri principali della Sicilia orientale.
Sibilla cercò di approfittare delle discordie sorte nel campo imperiale tra Genovesi e Pisani per portare questi ultimi dalla sua parte e tentò, invano, di riprendere Catania prima dell’arrivo dell’imperatore, ma sul finire del mese di ottobre Enrico era già a Messina, pronto per marciare su Palermo. La regina decise di mettere al sicuro il piccolo Guglielmo III e le figlie nel castello di Caltabellotta, quindi si apprestò a difendere la capitale.
L’imperatore, raggiunto un accordo con i Palermitani negli ultimi giorni di novembre e non avendo alcun interesse a disperdere energie per la conquista di strutture nevralgiche e ben custodite, come il castello del porto di Palermo difeso dall’ammiraglio Margarito di Brindisi o il castello di Caltabellotta dove si era rifugiato l’ultimo rampollo degli Altavilla, preferì negoziare con la vedova di Tancredi e concludere un accordo sulla base di un impegno che non mortificava gli interessi della famiglia reale normanna: in cambio della resa, Sibilla avrebbe ottenuto la contea di Lecce, già appartenuta a suo marito, mentre al figlio Guglielmo sarebbe stato concesso il principato di Taranto.
Il giorno di Natale, nel duomo di Palermo, la deposta regina partecipò con i figli, che nel frattempo erano rientrati nella capitale, alla solenne cerimonia di incoronazione di Enrico VI, ma pochi giorni dopo, il 29 dicembre 1194, un colpo di scena determinò una svolta tragica per la famiglia di Tancredi: l’imperatore fece arrestare Sibilla, Guglielmo, le tre figlie, la nuora Irene e una decina di funzionari e baroni normanni, con l’accusa di aver ordito una congiura. I prigionieri furono subito inviati in Germania per essere custoditi in diverse località. Sibilla, con le figlie femmine, fu reclusa nell’abbazia di Hohenbourg, in Alsazia; il giovane Guglielmo III fu condotto nel castello di Hohenems, nell'attuale Voralberg, nelle Alpi austriache; altri prigionieri furono rinchiusi nel castello di Trifels, nel Palatinato. Una sorte decisamente migliore toccò alla principessa bizantina Irene – rimasta presso la corte normanna dopo la morte di Ruggero, probabilmente in attesa di sposare il nuovo erede al trono Guglielmo – che nella primavera del 1197 sposò Filippo di Svevia, fratello dell’imperatore.
L’intera vicenda è stata interpretata in vario modo dalle fonti e dalla storiografia: alcuni vi hanno visto la malafede di Enrico, pronto a inventare di sana pianta un complotto, per disfarsi, una volta per tutte, dell’erede di Tancredi e di quelli che erano stati i suoi principali sostenitori; altri, invece, hanno sottolineato la moderazione mostrata dal sovrano tedesco durante le fasi della conquista, la debole personalità del figlio di Sibilla, che certo non poteva rappresentare una seria minaccia per lo Svevo, e hanno dato credito al complotto organizzato dalla deposta regina per uccidere l’imperatore. Anche se appare poco verosimile, nelle condizioni che si erano venute a creare, un’azione capace di impensierire seriamente Enrico VI, le ombre sul comportamento di Sibilla e dei baroni imprigionati sembrano trovare conferma nei successivi interventi di Innocenzo III in difesa dei figli di Tancredi, che non si spingono mai a negare i fatti ma si limitano a dichiarare l’estraneità dei fanciulli o, quantomeno, la loro incapacità ad agire vista la giovane età.
Sibilla e le figlie riuscirono a recuperare la libertà solo dopo la morte di Enrico VI e l’ascesa al papato di Innocenzo III, che nel febbraio del 1198 ordinò ai suoi legati in Germania di intervenire presso i vescovi e i principi tedeschi al fine di ottenere la liberazione dell’ex regina, dei suoi figli e dei baroni normanni ancora detenuti nelle carceri tedesche, minacciando la scomunica contro i custodi dei prigionieri e l’interdetto sulle loro terre e sulle rispettive diocesi. Può aver favorito la liberazione anche un mutato atteggiamento di Filippo di Svevia, convinto forse dalla moglie Irene, certo consapevole della necessità di non inimicarsi il pontefice nel momento in cui si profilava lo scontro con Ottone di Brunswick per la corona imperiale.
Dopo la liberazione, la vedova di Tancredi cercò rifugio e protezione nella Francia di Filippo II Augusto e, tra la fine del 1199 e i primi mesi del 1200, fece sposare la sua figlia maggiore, Albiria, con il conte Gualtieri di Brienne. Nel maggio del 1200 Sibilla, il genero e la figlia raggiunsero Roma per rivendicare dal papa l’eredità di Guglielmo III, probabilmente morto in prigionia verso il 1198, ovvero i diritti sulla contea di Lecce e sul principato di Taranto. Innocenzo III, per rafforzare la sua posizione come tutore del piccolo Federico di Svevia e per contrastare le operazioni dei capitani tedeschi rimasti nel regno dopo la morte di Enrico VI, riconobbe la legittimità della richiesta in quanto eventuali colpe contro l’imperatore non potevano essere ascritte né a Guglielmo né alle sue sorelle, troppo piccoli per poter ordire una congiura. Dopo un anno di preparativi, necessari per raccogliere risorse finanziarie e per arruolare un numero adeguato di armati, nella primavera del 1201 Gualtieri entrò nel regno, nel mese di giugno sconfisse il capo del "partito imperiale" in Campania (v. la voce in questo Dizionario) Dipoldo di Schweinspeunt a Capua, quindi occupò alcune località del principato di Taranto (Matera, Otranto, Brindisi) o ad esso limitrofe (Montepeloso, Melfi), conquistò il castello di Lecce e, nel mese di ottobre, consolidò il suo potere in Puglia sconfiggendo nei pressi di Canne un esercito nel quale erano confluite le truppe dei capitani tedeschi e quelle del cancelliere Gualtieri di Pagliara, acerrimo avversario di Tancredi e della sua famiglia.
A seguito delle vittorie del genero, che adottò il titolo di principe di Taranto, nella seconda metà del 1201 Sibilla recuperò il possesso della contea di Lecce che conservò fino alla morte, avvenuta, secondo il necrologio del monastero leccese dei Ss. Niccolò e Cataldo, il 27 marzo di un anno che possiamo presumibilmente indicare nel 1204 o, più probabilmente, nel 1205, visto che fino al marzo del 1204 i notai leccesi datarono gli atti secondo gli anni di comitato di Sibilla, mentre a partire dal settembre dell’anno successivo furono indicati gli anni di comitato di Albiria.
Quest’ultima, rimasta vedova di Gualtieri di Brienne, morto nel giugno 1205 combattendo contro Dipoldo di Schweinspeunt, si risposò una prima volta con Giacomo conte di Tricarico, quindi, nel 1213, con il conte palatino Tegrimo di Modigliana, al seguito del quale abbandonò la contea di Lecce, intorno al 1215, per trasferirsi in Toscana dove morì nel 1231 o poco dopo. La seconda figlia di Sibilla e Tancredi, Costanza, sposò il doge di Venezia Pietro Ziani, rimasto vedovo della prima moglie nel 1221; la terza, Medania, che compare con il titolo di contessa nel testamento del nipote Marco Ziani del 1253, fece testamento l’11 giugno 1256 e morì a Venezia qualche mese dopo.
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