Shock Corridor
(USA 1963, Il corridoio della paura, bianco e nero/colore, 101m); regia: Samuel Fuller; produzione: Leon Fromkess, Sam Firks, Samuel Fuller per F&F/Allied Artists; sceneggiatura: Samuel Fuller; fotografia: Stanley Cortez, (sequenze a colori) Samuel Fuller; montaggio: Jerome Thoms; scenografia: Eugene Lourie; costumi: Einar H. Bourman; musica: Paul Dunlap.
Johnny Barrett, giornalista di cronaca nera, sogna di vincere il Premio Pulitzer e per questo persuade Swanee, il suo editore, a lasciarlo tentare di scoprire chi abbia ucciso, in un ospedale psichiatrico, un uomo chiamato Sloane. Il dottor Fong, uno psichiatra amico di Swanee, insegna a Johnny come comportarsi per convincere i medici della propria pazzia e farsi quindi ricoverare. Cathy, ragazza di Johnny e spogliarellista, pensa che il suo piano sia assurdo, ma accetta comunque di aiutarlo, fingendo che l'uomo sia suo fratello e accusandolo di molestie. Johnny viene arrestato e sottoposto a una visita psichiatrica in cui gli vengono poste le domande che il dottor Fong aveva previsto: lui risponde secondo copione e puntualmente viene ricoverato. All'ospedale cerca di parlare con i tre testimoni della morte di Sloane. Il primo, che ha rari momenti di lucidità, gli dice che Sloane è stato ucciso da un sorvegliante. Il secondo è troppo folle per aiutarlo. Rimane il terzo, con il quale è molto difficile stabilire un contatto. Nel frattempo Johnny comincia ad avere incubi in cui vede Cathy che si offre ad altri uomini, mentre un paziente chiamato Pagliacci canta brani d'opera e alcune ninfomani lo aggrediscono. I medici lo sottopongono all'elettroshock con l'autorizzazione di Cathy, la quale è convinta che, per effetto della terapia, Johnny racconterà la verità e verrà dimesso dall'ospedale. Ma le sue condizioni si aggravano. Il giornalista riesce però a contattare il terzo testimone, Boden. Questi gli rivela che un sorvegliante di nome Wilkes, dall'aria assolutamente affabile, ha ucciso Sloane perché quest'ultimo voleva denunciare le avances sessuali che l'uomo era solito rivolgere alle pazienti. I deliri di Johnny si aggravano ulteriormente, tanto che non riesce più a ricordare il nome dell'assassino; poi rivede Wilkes e tutto gli torna alla mente. Johnny denuncia l'uomo ai medici e ottiene il Pulitzer, ma è divenuto completamente pazzo.
A partire dal suo primo lungometraggio I Shot Jesse James (Ho ucciso Jesse il bandito, 1949), ma soprattutto nel corso degli anni Cinquanta, per la maggior parte dei critici europei Samuel Fuller ha rappresentato il tipico 'cineasta maledetto', accusato di essere fascista e sostenitore di un'ideologia aberrante. All'uscita di Shock Corridor le reazioni furono più violente che mai. Un critico americano arrivò perfino ad affermare che il film "è non solo trash, ma uno dei prodotti cinematografici più abietti e irresponsabili di tutti i tempi. Come un produttore possa avervi investito del denaro, o come un distributore abbia il coraggio di farlo vedere, è una cosa che oltrepassa la mia capacità di comprensione". Ciò che oggi risulta incomprensibile è come si sia potuto stroncare un capolavoro simile, uno dei film più autenticamente kafkiani di tutta la storia del cinema. Privo di attori di richiamo e prodotto a bassissimo costo, Shock Corridor (nella cui versione originale le sequenze oniriche sono a colori) mantiene, dalla prima all'ultima immagine, un'unica dimensione allucinatoria e vertiginosa. Sappiamo bene quanto siano pericolosi gli sconfinamenti del cinema nel territorio psichiatrico: Fuller è stato uno dei pochi a sapervi penetrare in profondità. "Per amare gli abissi bisogna avere le ali", diceva Nietszche. E Fuller le aveva. Shock Corridor è probabilmente, insieme a Lilith (Lilith ‒ La dea dell'amore, Robert Rossen 1964), il miglior film mai realizzato sulla follia.
Fin dalla prima sequenza, nello studio dello psicanalista, la situazione ci sfugge di mano. Si tratta veramente "della storia più strana che si possa immaginare", come recita una battuta della sceneggiatura; i ragionamenti di Johnny e del suo editore sono internamente logici, quel che sfugge a loro (e a noi spettatori) è la follia su cui poggia l'intera loro costruzione. L'unico personaggio che sembra estraneo a questa "assurda finzione" è Cathy, la sola a sottolineare che tutto ciò è insane, ovvero folle e malato. Ma sarà proprio Cathy (interpretata da Constance Towers, straordinaria attrice dalla carriera troppo breve, già protagonista per John Ford di The Horse Soldiers ‒ Soldati a cavallo, 1959, e di Sergeant Rutledge ‒ I dannati e gli eroi, 1960) colei che farà precipitare Johnny. "L'unica persona di cui lui si possa fidare" è anche la donna che ritorna in tutti i suoi incubi, rivelandosi quella di cui meno si fida. Johnny non è un fratello incestuoso, come nel luogo comune freudiano che gli ha fornito la scusa per il ricovero, bensì un amante morbosamente possessivo; la professione di Cathy gli evoca dunque le visioni più terribili. Egli è in grado di dominarle in situazioni 'normali', ma, dopo una notte trascorsa all'ospedale, la immagina come un fantasma sessuale, vestita di piume, mentre cammina lasciva tra gli uomini cantando "I need somebody to kiss". Questa immagine equivoca, inattesa, svela la vera natura delle ossessioni di Johnny e spiega il motivo profondo che l'ha spinto a inventare la storia del disturbo sessuale: Johnny impazzisce a causa del proprio orrore nei confronti del sesso. Il suo delirio è simile a quello di Pagliacci, il grassone che ha ucciso a coltellate la moglie che lo tradiva e che si ostina a cantare l'aria del Barbiere di Siviglia. Fuller ha avuto l'idea geniale di far indugiare il personaggio sulle celebri parole dell'opera ("Ahimé, che furia! Ahimé, che folla! Uno alla volta, per carità!"), attribuendo loro una dimensione di demenza che né Rossini, né alcuno degli interpreti di Figaro avrebbero mai immaginato. L'orrore del protagonista diviene così smisurato che egli respinge Cathy non solo perché nel frattempo si è convinto che la donna sia davvero sua sorella, ma perché qualsiasi atto sessuale è diventato per lui intollerabile (non vuole essere baciato da "una bocca che sembra un tunnel"). Johnny, simbolo dell'americano medio (per le sue aspirazioni, per la ragazza che aveva), all'ospedale diviene vittima dei suoi peggiori fantasmi, come del resto accade ai tre testimoni: un reduce della guerra di Corea, l'unico nero iscritto a un'università di bianchi del Mississippi, un fisico nucleare ossessionati rispettivamente dalla violenza, dal razzismo e dalla degenerazione della scienza. Microcosmo dell'America malata, l'intero shock corridor è abitato da perversioni: all'inizio del film Johnny, parlando del proprio desiderio di vincere il Pulitzer, dice: "Da quando so parlare, non faccio altro che pensare a come entrare a far parte dei grandi nomi del giornalismo". Ci riesce, ma perdendo la ragione e, appunto, la capacità di parlare.
Interpreti e personaggi: Peter Breck (Johnny Barrett), Constance Towers (Cathy), Gene Evans (Boden), James Best (Stuart), Hari Rhodes (Trent), Larry Tucker (Pagliacci), William Zuckert (Swanee), Chuck Robertson (Wilkes), Philip Ahn (Dr. Fong), Neyle Morrow (psicopatico), John Mathews (Dr. Cristo), Paul Dubov (Dr. Menkin), Frankie Gerstle (tenente Kane).
A. Aprà, Il corridoio della paura, in "Filmcritica", n. 147-148, luglio-agosto 1964.
J.-L. Comolli, Trois masques pour un visage de l'oubli, in "Cahiers du cinéma", n. 171, octobre 1965.
A. Tavernier, Quelques mots sur un visionnaire, in "L'avant-scène du cinéma", n. 54, décembre 1965.
M. Tarratt, Shock Corridor, in "Films and filming", n. 10, July 1970.
K. Hanet, The narrative text of 'Shock Corridor', in "Screen", n. 4, Winter 1974/75.
N. Simsolo, Shock Corridor, in "Cinéma 77", n. 217, janvier 1977.
R. Scheib, Tough nuts to crack: Fuller's 'Shock Corridor'" in "Framework", n. 19, 1982.
I. Sinclair, War Zone, in "Sight & Sound", n. 3, March 1997.
Sceneggiatura: in "L'avant-scène du cinéma", n. 54, décembre 1965.