SHINTOISMO (Shintō)
Priva in origine di appellativo, la religione nazionale dei Giapponesi ricevette il nome attuale di Shintō (donde il nostro shintoismo) quando, introdotto nel paese nel sec. VI d. C. il buddhismo, vi fu bisogno di distinguerla da questo. Shintō, dal sino-giapponese shin, dio, e tō, via, o anche, con parole indigene, kami-no-michi (la via dei kami, cioè degli dei), è culto antichissimo conservatosi, pur con adattamenti e modificazioni, fino ai nostri giorni nella sua fisionomia fondamentale di culto politeistico della natura, ispirato meno dal timore delle forze in essa manifestantesi, che da apprezzamento e da gratitudine per i suoi doni. E già negli antichi isolani troviamo, sia pur rozzamente espressa, quella delicata sensibilità verso le bellezze del creato che è alla base della psicologia del popolo odierno, ché accanto alle forze naturali, come il sole, i venti, il fuoco, ecc., essi divinizzarono le rocce, i fiori, gli alberi, i corsi d'acqua, in breve gli elementi puramente estetici del vasto scenario naturale. Dopo il culto della natura, quello degli antenati è altro elemento essenziale dello shintoismo primitivo, poiché, oltre alle deità del tipo descritto, troviamo deità umane rappresentate da eroi o da uomini illustri divinizzati. Successivamente, la speculazione religiosa crea un legame intimo tra queste due categorie, facendo discendere le principali deità umane dalle maggiori fra quelle della natura (ad es., l'antenato della casa imperiale, Jimmu, Tennō da Amaterasu, la dea del sole) e quando, dal sec. V in poi, i Giapponesi vennero a contatto con la civiltà cinese, il culto degli antenati, che di quella è tratto dominante, andò sempre più acquistando importanza, fino a divenire fondamentale nel culto odierno.
Caratteri generali. - Il vocabolo kami, tradotto con Dio o deità, ha il senso proprio di "sopra" e quindi di "ciò che è sopra, superiore", sia nel senso fisico-spaziale, sia in quello sociale (ad es., le autorità) e religioso (gli dei). Motoori (v.), in un passo famoso, dice: "La voce kami si applica anzitutto alle varie deità del Cielo e della Terra, nominate nelle antiche leggende, come pure ai loro spiriti (mi-tama) che risiedono nei templi, dove esse sono venerate. E, inoltre, non solo esseri umani, ma uccelli, bestie, piante, alberi, mari, monti e ogni altra cosa che meriti di essere temuta o venerata per virtù eminenti o straordinarie vien detta kami. Né occorre che essa sia eminente o straordinaria solo in bontà, nobiltà o utilità, ché esseri malvagi o misteriosi vengono pure detti kami, sol ch'essi siano oggetto di generale timore". I varî kami sono, in generale, pochissimo caratterizzati: molti di essi vengono identificati l'un con l'altro e la stessa deità assume, talvolta, in luoghi diversi attributi differenti. Alla maggior parte dei kami vengono attribuite qualità umane: essi hanno un sesso, si sposano, hanno figlioli, muoiono e sono sepolti; ma anche trascendenti, poiché essi sono capaci di realizzare cose al di là delle forze umane. Tuttavia i kami non sono onnipotenti, ché tali poteri trascendenti sono limitati a campi specifici per ogni kami. Così i fiumi, le regioni, le montagne, ecc. hanno ciascuno il loro kami che, limitatamente al rispettivo dominio, esercita il suo potere. I kami non possiedono un'anima vera e propria; ma di alcuni di essi si cita un mi-tama (lett. "augusto gioiello", cioè, press'a poco, un'anima) che è presente, invisibile, nei templi e che, comunque, da qualche passo, appare come qualcosa di staccato dalla divinità stessa. Il mi-tama, nei templi, è rappresentato da oggetti materiali (specchi, lance, spade, tavolette col nome della divinità o, più comunemente una pietra rotonda) detti generalmente shintai (lett. "corpo della divinità") che frequentemente, dal popolo, vengono confusi con la divinità stessa. Lo shintoism0 non è antropomorfico e manca, perciò, di idoli; quelli che si vedono o si vendono oggi nei templi sono dovuti a influenze posteriori cinesi o buddistiche. Lo shintō primitivo manca pure di elementi speculativi e di struttura, sia pur rudimentalmente, filosofica. Gli antichi isolani, pur ritenendo l'universo pieno di vita cosciente, non seppero, sintetizzando i varî aspetti della natura e dell'umanità, assurgere a una concezione universale del divino.
I miti shintoistici sono contenuti in due opere, fondamentali per lo studio di questa religione, il Kojiki (v.) e il Nihongi (v.), nelle quali è nettamente rilevabile l'influsso delle teorie filosofiche della Cina (il Nihongi è, anzi, scritto in cinese), la cui civiltà, all'epoca della loro compilazione, si era già da gran tempo imposta nel paese. Non possiamo addentrarci qui nel labirinto della mitica shintoistica e rimandiamo, perciò, il lettore desideroso alle opere citate nella bibliografia; diremo solo che mancano in essa miti concernenti la creazione del genere umano, il diluvio universale, le eclissi e persino i terremoti, dei quali si fa scarsissima menzione, cosa assai strana, questa, per un paese che ne è scosso in media 4 volte al giorno.
Privo di codice morale (il che è motivo di orgoglio per i Giapponesi, i quali ritengono appunto la loro nazione naturalmente virtuosa e retta, per non aver essa avuto bisogno dei sistemi artificiali delle altre nazioni per elevarsi alla virtù), lo shintoismo fa della purità l'idea centrale che informa tutto il suo cerimoniale. Perdere la purità, cioè contrarre impurità è cosa offensiva per i kami ed è perciò peccato (tsumi, che Motoori fa derivare da tsutsumu "avvolgere", quasi come se l'impurità avviluppasse chi la contrae). È interessante vedere che cosa possa rendere impuri. Ce lo dice uno dei norito, il "Rituale della grande purificazione" (O-harai no kotoba), recitato due volte l'anno in occasione del rito di purificazione di tutto il popolo, nel quale sono appunto elencati due tipi di offese ai kami, contaminanti, e cioè: a) offese celesti, in numero di 7, così dette perché commesse dal dio Susa-no-wo nel cielo; b) offese terrestri, in numero di 17, così dette perché commesse dagli uomini in terra. Non sappiamo se l'elenco sia completo; è probabile anzi che non sia. Ma da esso sgorga la peculiare concezione shintoistica del peccato, il quale comprende non solo la trasgressione di precetti di morale universale (incesto, sodomia, omicidio, ferimento, ecc.), e quella di altri, in relazione a concezioni sociali o a condizioni della civiltà dell'epoca (per es., il distruggere dighe o disturbare l'irrigazione delle risaie), ma include ancora fenomeni o manifestazioni varie dalle quali è estraneo qualunque fattore volitivo, come, ad es., l'albinismo, la lebbra, i tumori, le eruzioni cutanee, il morso dei serpenti, l'ossessione, ecc.
Altra idea fondamentale dello shintoismo è la fertilità, naturale in un culto di agricoltori. Molte cerimonie di esso sono completamente o in parte ringraziamenti o preghiere per il raccolto (toshigoi), e le feste più importanti riguardano il cibo, come, ad es., quella del nii-name (lett., nuovo assaggio), in cui il riso nuovo è assaggiato dall'imperatore, il kanname (per kami-name o "assaggio degli dei"), in cui il riso viene offerto alle divinità, l'ai-name (lett., "assaggio insieme"), in cui l'imperatore si unisce agli dei nel gustare il riso del nuovo raccolto, l'Onie o daijoe (grande offerta di cibo), forma elaborata del nii-name, celebrata dopo l'accessione al trono di ogni imperatore. Né il problema dell'anima, né quello dell'oltretomba sembrano avere occupato gli antichi isolani, i quali credettero, invero, in una continuazione dell'esistenza, sotto qualche forma, in un mondo futuro, ma senza farsene un'idea. Né il loro culto ammette premî o punizioni dopo la morte, e quindi paradisi o inferni. I morti dimorano nella terra di Yomi, separata dal mondo dei viventi da un basso colle.
Luoghi del culto. - In origine gli alberi, le rocce, le sorgenti, ecc., vennero indubbiamente venerati in situ. Successivamente, le cerimonie si eseguirono in recinti (himorogi) circondanti un ramo di sakaki (Cleyera japonica), l'albero sacro dello shintoismo. Più tardi, con l'uso degli shintai, venne il bisogno di luoghi riparati dove conservarli, cioè dei templi (miya, lett. "l'augusta casa"), semplici capanne, identiche a quelle ordinarie per abitazione, ma consacrate al culto. Più tardi ancora, l'architettura buddhistica influenzò notevolmente quella shintoistica. Tipicamente distintivo del tempio shintoistico è oggi il tori-i, specie di portale, di oscuro significato ma di origine indiana, il cui nome deriva dal sanscrito torana.
Culto. - Culto (matsuri) e governo (matsuri-goto o cose del culto) sono stati in Giappone, come anche indica l'identità dei due vocaboli, fino dall'origine concetti intimamente connessi. Ogni atto importante del governo s'iniziava, infatti, con cerimonie religiose, nelle quali il sovrano, personalmente o rappresentato, fungeva da sacerdote. Queste cerimonie avevano principalmente lo scopo di chiedere consiglio agli dei, il cui volere s'interpretava con la divinazione (dapprima la scapulimanzia o interpretazione delle screpolature producentesi in un osso scapolare di cervo, sottoposto all'azione del fuoco, successivamente i sistemi cinesi), i sogni, gli oracoli, le ispirazioni, le prove del fuoco, ecc.
Le funzioni religiose solenni, celebrate in determinate ricorrenze, consistono in atteggiamenti di rispetto, offerte e preghiere, e sono precedute da una purificazione. Le offerte (sonae-mono) furono in origine cibi e bevande; poi si aggiunse della stoffa, mentre entrò anche in uso l'offerta simbolica (gohei), consistente in strisce di carta attaccate a un'asta di legno che si poneva sull'altare. Successivamente, per un curioso sviluppo, il gohei venne a rappresentare la divinità stessa e divenne oggetto di venerazione. Le preghiere consistono nella recitazione dei norito. Quanto alla purificazione, indispensabile prima delle funzioni, si compie con esorcismi (harai), per lo più agitando un nusa (asta di legno con strisce di carta e fibre di canapa attaccate) davanti al purificando o con abluzioni (misogi), quando si è contratta impurità; oppure evitando ogni causa di essa, mediante l'astinenza (imi), cioè l'osservanza di alcune proibizioni. Le funzioni terminano con danze (kagura, fatte da uomini, yamato-mai, da bambine) e con la consumazione dei cibi offerti alla divinità, che ne ha gustato l'essenza durante lo svolgimento.
Le funzioni di ogni giorno sono semplici e consistono nell'offerta di cibi al mattino e alla sera.
Clero. - I sacerdoti (jkannushi o inkwan) esercitano il loro ufficio ereditariamente e non si distinguono in nulla dai laici; come questi possono prender moglie e anche abbandonare la professione per un'altra. Solo durante le funzioni essi indossano un abito con lunghe e larghe maniche e mettono in capo un cappello di forma particolare (eboshi). Si distinguono 8 gradi ecclesiastici, d'istituzione più o meno recente.
Evoluzione storica. - Il quadro tracciato fin qui concerne il puro shintoismo, quale esso era prima dell'introduzione della civiltà cinese e quale è stato restaurato dopo la rivoluzione del 1868. È superfluo aggiungere che la penetrazione di quella civiltà influenzò profondamente la religione indigena. Il confucianesimo, introdotto nel secolo V, visse in armonia con questa, grazie soprattutto al suo carattere prevalente di morale sociale, che non urtò contro il pregiudizio religioso indigeno, ma valse a consolidare e a precisare concetti etici già preesistenti nella nazione. Maggiori difficoltà incontrò il buddhismo, con la sua profonda metafisica, col suo elaborato codice morale, col suo fastoso cerimoniale. Sono note (v. giappone: Storia) le vicende politiche che accompagnarono il suo ingresso nel paese; ma anche dopo la sua vittoria finale per opera del principe Shōtoku Taishi, la vitalità del culto indigeno si poté dire tutt'altro che fiaccata; ché anzi, con opportune elaborazioni del cerimoniale, prese in blocco dal confucianesimo, esso crebbe in vigore e in prestigio. Fu solo dopo l'abile espediente di Kūkai (v.), che considerò i kami come personificazioni (gongen) di deità buddhiste (v. Giappone: Religioni) che lo shintoismo volse al declino. Il culto indigeno cadde, così, nelle mani dei bonzi delle sette Ryōbu, che modificarono profondamente l'architettura dei templi e l'aspetto esterno della religione. In tale stato questa rimase fino al sec. XIII, quando il movimento inaugurato dai wagakusha (v. giappone: Letteratura) portò a una rinascita del puro, cioè del primitivo, shintō. Dopo la rivoluzione del 1868, le vecchie tradizioni nazionali, fra cui i diritti divini del sovrano, presero il sopravvento. Le due religioni vennero separate, i bonzi scacciati dai templi shintoistici, e questi riportati alla semplicità primitiva. Lo zelo religioso perpetrò, in quest'occasione, molte offese contro l'arte buddhistica, che aveva ornato di tesori d'incomparabile bellezza i luoghi del culto dei kami. Questo venne dichiarato religione di stato, e tale rimase fino alla costituzione del 1889 che proclamava l'uguaglianza di tutte le religioni di fronte allo stato.
Da questo momento si apre una nuova, curiosa fase nell'evoluzione storica dello shintoismo. Preoccupato del conflitto che si veniva a creare fra la situazione privilegiata da questo goduta e il proclamato principio dell'uguaglianza di tutte le religioni, e conscio soprattutto della necessità di salvare i valori eccezionali ch'esso ha come forza di coesione morale e nazionale, lo stato secolarizzò lo shintoismo primitivo, dichiarando ch'esso non è una religione, ma, come ben dice il Pettazzoni (La mitologia giapponese, p. 21), una istituzione di stato che, specialmente per mezzo di feste patriottiche celebrate da funzionarî specializzati (sacerdoti), promuove e tiene vivi nel popolo i sentimenti di attaccamento alla tradizione nazionale e di devozione al paese e al sovrano. Partecipare a tali cerimonie è un dovere per ogni cittadino giapponese. Restava, pertanto, riconosciuto il carattere di religione allo shintō delle sette (Shūha Shintō), delle quali 13 sono ufficialmente riconosciute. Da allora il governo si è dato molto da fare, con un'attiva propaganda fatta soprattutto nelle scuole, per perfezionare tutto un sistema di etica nazionale, basato e derivato direttamente dal puro shintō e tutto fatto di venerazione per la persona divina dell'imperatore. In questa recentissima fase del suo sviluppo, lo shintoismo ha culminato, così, nel mikadoismo, cioè nel culto del mikado, o kwōdō (lett. "la via dell'imperatore", in analogia a shintō, la via dei kami), che ha dato al vecchio culto un significato politico concreto, creando una nazione di soldati tutti uniti in blocco granitico intorno alla persona del sovrano.
Bibl.: W. G. Aston, Shintō, the Way of the Gods, Londra 1905; K. Florenz, Die historischen Quellen der Shintō Religion, Gottinga 1919; K. Florenz, Ancient Japanese Rituals, in Transactions of the Asiatic Society of Japan, XXVII (1899); Genchi Katō, A study of Shintō, the Religion of the Japanese Nation, Tŏkyō 1926; D. G. Holtom, The political Philosophy of Modern Shintō, in Trans. As. Soc. of Japan, XLIX (1922); D. G. Holtom, A New Interpretation of Japanese Mythology and its Beoring on the Ancestral Theory of Shinto, in The Journal of Religion, VI (1926); P. Lowell, Esoteric Shinto, in Trans. As. Soc. of Japan, XXI (1893); XXII (1894); J. M. Martin, Le Shintoisme, religion nationale, I, Hong-kong 1924; II, 1927; R. Pettazzoni, La mitologia giapponese, Bologna 1929; M. Revon, Le Shintoïsme, Parigi 1907; E. Satow, The Revival of Pure Shintō, appendice al vol. III (1875), delle Trans. As. Soc. of Japan; id., Ancient Japanese Rituals, in Trans. As. Soc. of Japan, VII (1878), e IX (1881).