Sforza, Ludovico Maria, detto il Moro
Nacque a Milano il 3 agosto 1452, quarto dei sei figli maschi che Francesco I Sforza (→) ebbe da Bianca Maria Visconti. Il padre lo chiamava maurum per la sua carnagione scura e per gli occhi e i capelli neri, e quale «Lodovicus Maurus» già appare in un documento del 1461. Gradì l’appellativo che coltivò al punto da girare sempre accompagnato da uno scudiero nero e da favorire nel ducato la coltivazione del gelso, chiamato in Lombardia moro. Nel 1459 era a Mantova, parte della comitiva sforzesca che accolse papa Pio II il quale tentava di creare un accordo per promuovere la crociata contro il Turco. Qualche anno più tardi, nel giugno 1464, il padre gli affidò il comando (solamente nominale) di duemila cavalieri e mille fanti, da destinare alla liberazione di Costantinopoli.
Dopo la morte di Francesco I (marzo 1466) e l’ascesa al ducato del fratello Galeazzo Maria, S. fu inviato a Cremona per rafforzare la fedeltà di quella popolazione e per vagliare i sistemi di difesa della città. Lì restò fino all’autunno 1467 e nel gennaio dell’anno successivo si statuì che, in assenza del duca, si sarebbe alternato nelle udienze con il fratello Sforza Maria. Non si trattava tuttavia di ruoli significativi. Ancora in posizione secondaria appare nell’occasione delle nozze del duca con Bona di Savoia (7 luglio 1468) e del funerale della madre (in ottobre). Era del resto assai indietro nell’ordine di successione. Alla fine del 1476 fu inviato in Francia, senza precise motivazioni politiche: qui, il 25 dicembre, incontrò il re. Nel viaggio di ritorno a Milano apprese dell’assassinio del fratello duca (avvenuto il 26 dicembre; l’episodio è diffusamente narrato da M. nelle Istorie fiorentine [da qui in poi abbreviato nelle citazioni Ist. fior.] VII xxxiii-xxxiv); il 28 gennaio 1477 giurò obbedienza al governo di Bona Sforza, reggente per conto del piccolo Gian Galeazzo Maria, e di Cicco Simonetta. In aprile partecipò su loro mandato alla spedizione che sedò la rivolta di Genova.
La soluzione data alla successione, i contrasti con Bona e con Simonetta, vero regista della situazione, spinsero alla congiura i figli di Francesco Sforza, con l’eccezione di Filippo Maria che non covava ambizioni politiche. Il tentativo – che pure contava sul sostegno militare di Roberto da Sanseverino, figlio della sorella di Francesco Sforza, Elisa – fallì (25 maggio 1477; vi accenna M. in Ist. fior. VIII xiii). Il più giovane dei congiurati, Ottaviano, morì annegato nell’Adda durante la fuga, mentre gli altri furono destinati all’esilio: Sforza Maria in quel ducato di Bari di cui era titolare, Ascanio a Perugia e Ludovico a Pisa.
La congiura fiorentina dei Pazzi (26 aprile 1478) offrì a S. nuove opportunità di azione. Ferdinando d’Aragona, alleatosi al papa contro la Firenze medicea sostenuta da Milano, offrì a Ludovico e a Sforza Maria appoggio per tornare in Lombardia. Il proposito dichiarato dai due, che furono proclamati ribelli da Simonetta, era quello di liberare Gian Galeazzo Maria dalla madre e dall’influente consigliere. La mancanza di risorse, le diserzioni, la confusione nella guida delle forze disponibili e, infine, la morte, forse per avvelenamento, di Sforza Maria il 27 luglio 1479 a Varese Ligure, posero fine a una prima campagna. S. ereditò però, per volontà del re di Napoli, il ducato di Bari e tutti gli altri possessi e rendite goduti dal fratello nel Regno. Ripresa poi l’attività militare, il 23 agosto, avanzando verso Milano, S. conquistò Tortona, prima di una nutrita serie di altre acquisizioni. Forte di ciò, avviò trattative con la reggente e il 7 settembre 1479 entrò con un salvacondotto in Milano. Bona gli concesse piena autorità sul ducato e il 10 successivo ordinò la carcerazione di Simonetta (cenni in Ist. fior. VIII xviii). L’accordo andò a esclusivo vantaggio di Ludovico: il fratello Ascanio venne posto da parte e anche esiliato dato il suo scontento (si provvide ad assicurargli una berretta cardinalizia solo qualche anno più tardi) e Roberto da Sanseverino, che pure aveva partecipato alla congiura contro Bona e Simonetta, non ottenne quel ruolo di luogotenente cui ambiva (Ist. fior. VIII xxii). Anche i ‘ghibellini’ che lo avevano appoggiato rimasero presto delusi dal suo atteggiamento. S. veniva intanto proclamato governatore e otteneva l’allontanamento dalla corte di Antonio Tassino, amante di Bona. Simonetta venne decapitato il 30 ottobre 1480. Il 3 novembre Ludovico fu dichiarato tutore del duca minorenne, e a quel punto, ridotta Bona Sforza ad Abbiategrasso, S. acquisì il pieno dominio non solo sul ducato, ma – come disse Lorenzo de’ Medici – su «tutte le cose d’Italia».
L’intesa con il re di Napoli Ferdinando costituì a lungo un punto fermo della sua iniziativa e fu rafforzata con l’accordo per unire in matrimonio Gian Galeazzo Maria e Isabella d’Aragona. Inoltre il Moro appoggiò gli aragonesi nella guerra di Ferrara del 1482 ed ebbe un ruolo nella pace di Bagnolo, che il 7 agosto 1484 ricompose il conflitto tra Venezia (inizialmente alleata con il papa Sisto IV) ed Ercole I d’Este signore di Ferrara. S. si applicò nel convincere il papa del rischio che comportava l’eccessivo accrescimento della potenza veneziana, e Sisto IV nel 1483, per fermare la Serenissima, la colpì con l’Interdetto (Ist. fior. VIII xxv-xxvi). In Discorsi III xi 9-10, M. fa propria la voce maliziosa secondo cui i veneziani corruppero S. in modo da ottenere che l’accordo di pace assegnasse loro il Polesine e altre terre che avevano perduto nella guerra.
La congiura dei baroni nel Regno meridionale (1485-86) vide S. al fianco di re Ferdinando. Nel 1487 il Moro respinse un’incursione degli svizzeri; nel luglio recuperò Genova (ribelle al dominio sforzesco dal 1479), ma l’anno successivo dovette riconoscere il dominio francese sulla città. L’influenza della Francia sulla Savoia e sui marchesati di Monferrato e Saluzzo rimaneva intanto una spina nel fianco del ducato milanese. Nella primavera del 1488, dopo l’assassinio del signore di Forlì Girolamo Riario (→), nipote di Sisto IV e marito di Caterina Sforza (→), Ludovico riuscì a sventare il tentativo fiorentino di prendere il controllo della località.
La ferrea alleanza tra S. e Ferdinando d’Aragona s’incrinò dopo le nozze tra Gian Galeazzo Maria e Isabella d’Aragona, nel febbraio 1489 (cui seguì, il 30 gennaio 1491, la nascita del figlio Francesco). Mirando a occupare da solo la signoria di Milano, S. prese a ostacolare il nipote; Isabella, che voleva porre fine alla lunga, e ormai ingiustificata, reggenza, se ne lamentò con il nonno Ferdinando e il padre Alfonso. Il Moro sposava intanto, il 17 gennaio 1491, la sedicenne figlia di Ercole I d’Este, Beatrice; il fratello di Beatrice, Alfonso, sposava Anna, sorella di Gian Galeazzo Maria. Dal matrimonio di S. nacquero i futuri duchi Massimiliano e Francesco.
Le istanze di Isabella spinsero il re di Napoli a chiedere ragione a S. del prolungamento, senza indicazione di scadenza, dell’amministrazione straordinaria del ducato sforzesco. Ludovico corse ai ripari. Nel 1492 si accordò con il re di Francia Carlo VIII, le cui aspirazioni sul Regno di Napoli erano da tempo note, e l’anno successivo stabilì un’alleanza con Venezia e con il papa Alessandro VI, alla cui recente elezione aveva concorso da protagonista il fratello cardinale Ascanio. Suo grande successo, in questa stessa ottica, fu la conclusione delle nozze (per procura a Milano nel novembre 1493 e in presenza degli sposi a Innsbruck il 16 marzo dell’anno successivo) tra un’altra sorella di Gian Galeazzo Maria, Bianca Maria, e l’imperatore Massimiliano d’Asburgo. Il negozio costosissimo (la dote era di 500.000 ducati) fruttò il riconoscimento imperiale del ducato (5 settembre), con una investitura personale che S. tenne in un primo momento segreta.
E venne il tempo della calata di Carlo VIII in Italia, che S. favorì, al pari di Venezia e di altri protagonisti della scena italiana. Ma la maggiore responsabilità dell’evento, destinato a sconvolgenti conseguenze, fu ben presto attribuita al Moro. Chiudendo le Istorie fiorentine, scrive appunto M. che la morte di Lorenzo il Magnifico sottrasse alla scena l’unico uomo capace di bloccare l’ambizione di Ludovico, e da qui «cominciorono a nascere quelli cattivi semi i quali, non dopo molto tempo, non sendo vivo chi li sapesse spegnere, rovinorono, e ancora rovinano, la Italia» (Ist. fior. VIII xxxvi 25).
Il Moro ricevette il re di Francia ad Asti l’11 settembre 1494, ma ben presto la situazione mutò del tutto. La morte di Gian Galeazzo Maria, il 20 ottobre (forse di malattia, forse di eccessi, o forse, come sostenne anche M., avvelenato dallo zio), liberò infatti S. di un ostacolo, ma fece venir meno i motivi della sua recente politica di alleanze, di cui ora rimanevano in evidenza solo i rischi. Il problema della guida del ducato non era del resto ancora risolto in tutto: il figlio di Gian Galeazzo Maria, Francesco, aveva allora quattro anni. Ludovico si risolse a non rimettersi nel difficile ruolo di reggente. Rivelò i termini dell’investitura imperiale e si fece proclamare duca di Milano. Seguì una serie di festeggiamenti, provvedimenti, cerimonie, emissioni di monete e medaglie. C’era però anche da pensare alla presenza nella penisola di Carlo VIII, che aveva raggiunto Napoli senza grande difficoltà. Contro di lui si formò nel 1495 un’alleanza, che si disse Santa e che riuniva Milano, Venezia, il papato, la Spagna e l’impero. Il 5-6 luglio l’esito della battaglia di Fornovo spinse il re di Francia al rientro. Il 9 ottobre la pace di Vercelli restituì a S. Novara (che Luigi d’Orléans aveva preso un mese prima, rivendicando diritti su Milano quale erede di Valentina Visconti: germe di futuri travagli) e Genova.
Perdite dolorose colpirono S. nei due anni successivi. Il 22 novembre 1496 morì l’amatissima figlia naturale Bianca, che aveva sposato Galeazzo da Sanseverino; seguì la scomparsa, il 3 gennaio 1497, della moglie Beatrice e del loro figlio appena nato. S. reagì con un lutto strettissimo, caratterizzato dall’accentuato utilizzo del nero, colore che del resto lo accompagnava dalla nascita. Inoltre mutava, a svantaggio di Ludovico, lo scenario politico generale. Il nuovo re di Francia, Luigi XII d’Orléans, volse di nuovo gli occhi all’Italia, in particolare su Milano, spalleggiato da Venezia e dal papa. Trovandosi al fianco il solo Regno napoletano, S. giunse a far appello al Turco, offrendosi di sposare una figlia del sultano Bajazet II.
L’estate del 1499 vide l’inesorabile avanzata dei francesi nelle terre ducali dal fronte occidentale e di quelle veneziane da oriente. Messo alle strette, rinunciato al ducato di Bari in favore di Isabella d’Aragona, vedova di Gian Galeazzo Maria, il 2 settembre il Moro si diede alla fuga, accompagnato da Galeazzo da Sanseverino e Gaspare da Sanseverino d’Aragona, detto il Fracasso. Il 6 settembre i francesi, sotto la guida di Gian Giacomo Trivulzio (→), entrarono in Milano, e il 6 ottobre vi arrivò Luigi, che pure ottenne, il 26 ottobre, la resa di Genova. S. aveva trovato rifugio nei domini asburgici, e, prima a Bolzano, poi a Innsbruck e a Bressanone, cercò di organizzare la rivincita, con l’appoggio dell’imperatore Massimiliano. Nel febbraio del 1500 il Moro conseguì una facile vittoria, dato lo scontento creato nei milanesi dal malgoverno di Trivulzio. Gli occupanti lasciarono la capitale del ducato il 4 febbraio per rifugiarsi a Novara; e S. rientrò a Milano due giorni più tardi. Ma, dopo iniziali successi che condussero al recupero di Novara, nell’aprile l’arrivo dell’armata guidata da Louis de la Tremoille mutò le sorti del conflitto. A Vercelli, dopo una dura serie di scontri, le schiere sforzesche furono sbaragliate.
S. cercò di salvarsi mescolandosi ai soldati svizzeri cui era stato offerto un salvacondotto per tornare in patria, ma fu riconosciuto e arrestato il 10 aprile, e rinchiuso il giorno successivo nel castello di Novara. Il 14 aprile i francesi rientrarono in Milano. Portato in Francia, il 2 maggio Luigi XII gli apparecchiò a Lione un ingresso umiliante in città, malamente vestito e a cavallo di una mula. Mutò vari luoghi di prigionia e infine, dopo un tentativo fallito di fuga, nel 1504 fu trasferito definitivamente nel castello di Loches, in Turenna, dove morì il 17 maggio 1508.
Se nella grande scena politica S. si costruì la fama di governante capace ma infido, la sua opera di amministratore del ducato merita una diversa valutazione. Intensa fu la sua attività nella realizzazione di opere pubbliche: scavo di canali, costruzione di argini, promozione della coltivazione del riso e della seta, opere di fortificazione e così via. La sua corte ospitò letterati come Bernardino Corio (chiamato a realizzare un’opera storiografica, in volgare, importante anche se encomiasticamente orientata) e artisti come Bramante e, soprattutto, Leonardo, il quale, tra le tante cose che fece a Milano, realizzò diversi ritratti di donne legate al duca, da Beatrice d’Este alle favorite Cecilia Gallerani e Lucrezia Crivelli.
Del pesante giudizio su S. che chiude le Istorie fiorentine si è detto sopra. Nel Principe il Moro è citato anzitutto entro l’analisi della politica italiana di Luigi XII (cap. iii). Il suo cattivo governo aveva fatto sì che il popolo milanese avesse «aperto le porte» (§ 4) ai francesi; e la successiva delusione dei popoli permise a Ludovico una breve riscossa (M. deride sia S. sia i francesi quando scrive che «a fare perdere Milano a Francia bastò la prima volta uno duca Lodovico che romoreggiassi in su’ confini», § 6). Seguono, nel Principe, citazioni indirette e generiche: in vii 11 lo si nomina tra i naturali avversari di Cesare Borgia; in xiv 3 M. evoca cumulativamente i figlioli di Francesco I Sforza, i quali «per fuggire e’ disagi dell’arme, di duchi diventorno privati» (esito questo che in effetti riguardò solo Ludovico). In xxiv 5 viene annoverato, con il re di Napoli e gli altri principi minori, tra i signori «che in Italia hanno perduto lo stato» nei tempi recenti, avendo tutti un «comune difetto quanto alle arme». Modelli di ‘ignavia’, incapaci di difendersi, buoni soltanto a fuggire, nella speranza che poi «e’ populi, infastiditi per la insolenzia de’ vincitori, gli richiamassino» (xxiv 8; ha in mente appunto l’episodio milanese già evidenziato, come si è visto, in iii 4). Tocca anche, o soprattutto, il Moro il riferimento in xx 28 alla «casa sforzesca», alla quale «ha fatto e farà più guerra el castello di Milano [...] che veruno altro disordine di quello stato», poiché la fortezza l’ha indotta e la induce a ignorare il malcontento dei sudditi (cfr. anche Discorsi II xxiv 17-18).
Ludovico il Moro è ricordato solo di sfuggita nelle carte machiavelliane del 1499. Il 24 marzo M. andò a Piombino per trattare l’emolumento dovuto a Iacopo d’Appiano quale condottiero della Repubblica nella guerra per Pisa; la condotta era condivisa con il duca di Milano, allora ambiguamente alleato dei fiorentini, come si ricorda nell’istruzione dei Dieci al giovane Segretario (LCSG, 1° t., pp. 236-38). Dal 12 al 24 luglio M. si recò presso Caterina Sforza Riario, contessa di Forlì e nipote del Moro, per trattare la riconferma di una condotta a Ottaviano Riario. La contessa aveva ricevuto analoga richiesta da parte dello zio; in relazione alle incertezze della contessa, M. scrive alla Signoria che Caterina «vede el Duca di Milano essere assaltato dal Re [di Francia], e non può sapere bene quale securezza sia aderirsi a quello in queste condizioni di tempi» (LCSG, 1° t., p. 291). Già a quella data, dunque, il sistema di alleanze intorno a S. vacillava pericolosamente. L’anno dopo, in Francia, M. dovette fronteggiare la richiesta di Luigi XII, che Firenze aveva dovuto riconoscere come subentrato a S. nel credito per denari prestati a sostegno della guerra pisana (lettera dell’11 ott. 1500, LCSG, 1° t., p. 492), credito rivendicato ancora dall’imperatore nel 1508 (cfr. la lettera dei Dieci a F. Vettori, del 4 marzo, LCSG, 6° t., p. 177). Un cenno alla possibilità che Luigi XII rilasci S. e gli conceda una pensione si trova nella lettera ai Dieci del 22 febbraio 1504, da Lione, firmata da Niccolò Valori (in N. Machiavelli, Legazioni e commissarie, a cura di S. Bertelli, 1964, pp. 830-31). In anni successivi, la caduta del Moro torna come esempio dell’infedeltà degli svizzeri, che potrebbero ripetere il loro tradimento ai danni del re di Francia (lettera da Trento, 16 aprile 1508, firmata da Francesco Vettori, LCSG, 6° t., p. 217) o del papa (lettera da Blois, 26 luglio 1510, LCSG, 6° t., p. 445).
Bibliografia: Gli Sforza a Milano e in Lombardia e i loro rapporti con gli Stati italiani ed europei (1450-1535), Atti del Convegno internazionale, Milano 18-21 maggio 1981, Milano 1982; Ludovico il Moro. La sua città e la sua corte (1480-1499), catalogo della mostra dell’Archivio di Stato di Milano, Como 1983; Milano nell’età di Ludovico il Moro, Atti del Convegno internazionale, Milano 28 febbr. - 4 marzo 1983, 2 voll., Milano 1983; A. Cellerino, Il ducato di Milano dalla morte di Gian Galeazzo Sforza alla fine dell’indipendenza, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, 6° vol., Comuni e signorie nell’Italia settentrionale: la Lombardia, Torino 1998, pp. 637-79; M. Pellegrini, Ascanio Maria Sforza. La parabola politica di un cardinale-principe del Rinascimento, 2 voll., Roma 2002; G. Benzoni, Ludovico Sforza, detto il Moro, duca di Milano, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 66° vol., Roma 2007, ad vocem.