SFORZA CESARINI, Sforza Giuseppe (Giuseppe)
– Nacque a Roma il 10 giugno 1705 da Gaetano e da Vittoria Conti.
Sua madre era nipote di papa Innocenzo XIII (1721-24). Il padre era stato il primogenito maschio del nuovo casato Sforza Cesarini, nato attraverso l’unione matrimoniale di Federico Sforza e di Livia Cesarini. Sebbene avesse ereditato anche parte del patrimonio Savelli, Gaetano non si era distinto certamente per le sue qualità di amministratore. Incline a ogni tipo di svago, si era fatto conoscere nell’estate del 1700 per un grave incidente con Costantino Sobieski, figlio dell’ex regina di Polonia Maria Casimira (dimorante in Roma), per contese sui favori della sua amante, Vittoria, detta Tolla, cortigiana e cantante. Gaetano, che alla sua morte (il 9 ottobre 1727) lasciò l’erede Sforza Giuseppe in pessime condizioni finanziarie, era anche un estimatore dell’arte teatrale. Gli era stato infatti dedicato il Catone Uticense di Matteo Noris, musica di Carlo Francesco Pollarolo, rappresentato a Venezia nel 1701 nel teatro di S. Giovanni Grisostomo.
Sforza Giuseppe, anche se non esente da qualche eccesso, fu migliore capofamiglia. Ad esempio, curò l’impresa vinicola del feudo di Genzano al punto di riuscire a ottenere la gestione della cantina del palazzo apostolico. Come il padre, ebbe una spiccata predilezione per il mondo dello spettacolo, che seppe concretizzare in un’impresa ambiziosa. Nel 1732, infatti, promosse il progetto di una nuova sala teatrale da erigere grosso modo sulle fondamenta dell’odierno teatro Argentina di Roma. Ne affidò il progetto all’architetto Girolamo Theodoli, accademico dell’Arcadia e di S. Luca, il quale disegnò una sala a forma interna curvilinea, a ferro di cavallo, dotata di sei ordini di trentuno palchetti ciascuno. Le spese risultarono ingenti: Sforza Cesarini vi investì più di 20.000 scudi, facendo ricorso a un prestito del Monte di S. Paolo delle Religioni, autorizzato da papa Clemente XII con chirografo del 23 maggio 1731. Il progetto andò in porto velocemente, nonostante il contenzioso insorto con alcuni proprietari di stabili dell’area interessata, tra cui i provvisori della chiesa di S. Giuliano dei Fiamminghi. I lavori, infatti, iniziarono nel gennaio del 1731 e si conclusero entro i dodici mesi. I contemporanei giudicarono il risultato molto elegante ed eccellente sia per l’acustica sia per la visione. Il palco, in particolare, spiccava per le sue grandi dimensioni e per l’efficace attrezzatura scenica.
Lo si può vedere in uno straordinario apparato festivo nel dipinto di Giovanni Paolo Panini Festa musicale data dal Cardinale de La Rochefoucauld al Teatro Argentina in Roma nel 1747 per le nozze del Delfino, figlio di Luigi XV, con Maria Josepha di Sassonia, figlia del Re di Polonia (1747), conservato al Louvre.
L’inaugurazione, il 13 gennaio 1732, coincise con la messa in scena dell’opera Berenice di Domenico Sarro, prodotta da Giuseppe Polvini Faliconti. Le scene si dovettero a Domenico Vellani e Pietro Orta. Il castrato Farfallino (Giacinto Fontana) ricoprì il ruolo della protagonista. Nel successivo febbraio andò in scena il Rosbale, opera in tre atti di Geminiano Giacomelli.
Nel marzo del 1731, il teatro era stato preso in affitto dal citato impresario Polvini Faliconti. Il contratto prevedeva una durata di sei anni, dietro un compenso di 1300 scudi all’anno per i primi tre anni e di 1400 per il secondo triennio. A Polvini Faliconti sarebbe spettata sia la realizzazione dei costumi di scena sia la fabbricazione delle macchine teatrali necessarie per gli spettacoli. Sforza Cesarini affittava la sala anche ad altri impresari, per opere di prosa, cosa che provocò una lite giudiziaria con il locatario, durata fino al 1737 e conclusa con un accordo: Polvini Faliconti non sarebbe stato tenuto a versare i canoni non pagati fino a quella data, in cambio il locatore sarebbe stato libero di affittare anche ad altri.
In realtà, Sforza Cesarini non doveva vedere a lungo la sua creatura in attività: dopo incidenti diplomatici causati dal rifiuto dell’ambasciatore francese Paul-Hippolyte de Beauvilliers, duca di Saint-Aignan, di obbedire agli ordini di Clemente XII, secondo i quali sui palchetti non doveva essere applicato alcun segno di distinzione (neppure le armi dei sovrani), il teatro della Torre Argentina fu chiuso dal 1733 al 1737. Nel 1737 e nel 1738 vi si rappresentarono testi in prosa. Soltanto nel 1739 riprese la programmazione. Furono messi in scena, in occasione del carnevale dello stesso anno, il Vologeso, re de’ Parti, dramma per musica di Apostolo Zeno, con musiche di Rinaldo di Capua, l’Achille in Aulide di Zeno, musica di Giacomelli, e, nel 1741, l’Astianatte, su libretto di Antonio Salvi e musiche di Nicolò Jommelli.
Morto Polvini Faliconti nel gennaio del 1741, nel marzo successivo Sforza Cesarini affittò il teatro della Torre Argentina a Francesco Maria Alborghetti per cinque anni, con canone annuo di 2200 scudi. In occasione del carnevale del 1742, andarono in scena drammi musicali e balli in musica. Nel 1743, invece, poterono essere rappresentate soltanto tragicommedie in prosa. Nel biennio 1744-45 tutte le sale romane restarono inattive e fu quella l’ultima stagione cui assistette Sforza Cesarini.
Morì infatti a Roma l’11 agosto 1744. Il suo cadavere fu trasportato a Santa Fiora e collocato nella chiesa delle monache cappuccine. Nel 1730 aveva fatto erigere un monumento nella chiesa romana di S. Biagio degli Armeni (detta anche S. Biagio della Pagnotta) per farvi seppellire i propri precordi, insieme a quelli di suo padre, Gaetano.
In politica, Sforza Cesarini si era allineato al tradizionale schieramento filospagnolo della sua famiglia. Per il nuovo re Carlo di Borbone, da poco entrato trionfalmente in Napoli e ancora non incoronato, aveva presentato nel 1734 l’omaggio della Chinea al papa come alto signore feudale del Regno. Nel 1737, poi, aveva venduto in Spagna il feudo di Chinchón, già dei Savelli, all’infante don Filippo di Borbone (autorizzato dal padre, re Filippo V). Ne aveva ricavato l’elevatissimo compenso di 600.000 scudi. Nel 1741 era stato infine creato grande di Spagna, titolo trasmissibile in linea diretta ai suoi discendenti.
Fallito il progetto di matrimonio con una giovane di casa Ruspoli, aveva sposato nel 1727 Maria Giustiniani, figlia di Vincenzo. Ebbe prole numerosa: Filippo successe al padre nei diritti di primogenitura; morto Filippo, subentrò nel titolo ducale il fratello Gaetano, che dovette smettere l’abito ecclesiastico, sposando prima Teresa Antonia Caracciolo e poi Marianna Caetani. Altri figli di Sforza Cesarini furono Sisto, cavaliere di Malta (contraendo matrimonio con Giacinta Torres, diede vita al ramo degli Sforza Bobadilla, conti di Celano), Livia e Camilla, monache, e Vittoria, andata in moglie ad Antonio Boncompagni Ludovisi, secondo principe di Piombino. Federico, Giovan Giorgio, Giuliano, Guidascanio e Ippolita morirono invece in tenera età o addirittura in fasce.
Tra i discendenti il nipote abiatico di Sforza Cesarini, il duca Francesco, portò avanti l’attività del teatro di famiglia e, visti i deludenti risultati ottenuti dagli impresari appaltatori, nel 1807 ne assunse la gestione diretta, rilanciandone – non senza ingenti sforzi economici e personali – il vanto e la qualità artistica. Nel 1808 assunse la cogestione anche del vicino teatro Valle, dove nel carnevale 1816 allestì la prima del Torvaldo e Dorliska di Gioachino Rossini, in licenza dal teatro di S. Carlo di Napoli. Nella stessa stagione scritturò Rossini anche per l’Argentina, per dirigervi L’italiana in Algeri e per comporre un’altra opera nuova. Fu Il barbiere di Siviglia, prodotto in condizioni avventurose, sotto l’assillo della fretta. Il duca Francesco morì di un colpo apoplettico la sera del 16 febbraio 1816: mancavano quattro giorni alla burrascosa prima del capolavoro rossiniano.
Fonti e Bibl.: N. Ratti, Della famiglia Sforza, I, Roma 1794, pp. 356-358, 363; A. Nibby, Roma nell’anno 1838, Parte seconda moderna, II, Roma 1841, p. 982; E. Repetti, Dizionario geografico fisico storico della Toscana, V, Firenze 1843, p. 153; A. Ademollo, Il matrimonio di suor Maria Pulcheria, al secolo Livia Cesarini, Roma 1883, p. 154; M. Tosi, La società romana dalla feudalità al patriziato: 1816-1853, Roma 1968, p. 65; G. Tirincanti, Il Teatro Argentina, Roma 1971, passim; M. Rinaldi, Due secoli di musica al Teatro Argentina, I, Firenze 1978, passim; S. Franchi, Drammaturgia romana. II (1701-1750), Roma 1997, pp. LIX s., LXIII; S. Lamacchia, Il vero Figaro o sia il falso factotum. Riesame del “Barbiere” di Rossini, Torino 2008, pp. 1-3, 6-24; Il tempietto di San Giacomo e la Chiesa di San Pietro a Vicovaro: restauri e studi interdisciplinari tra architetture e paesaggi, a cura di S. Cancellieri, Roma 2014, p. 65.