Ferrari, Severino
Poeta e filologo (San Pietro Capofiume, Bologna, 1856 - Colle Gigliato, Pistoia, 1905), diede la misura delle sue doti di commentatore di classici in due letture dantesche (Il Paradiso di D., Bologna 1900, e Il Canto III del Purgatorio, in Lectura Dantis, Firenze 1901). Pur muovendo da un'adesione di fondo alle tendenze degli studi danteschi di fine secolo, non senza un omaggio di simpatia per taluni modi di lettura del Carducci, il F. deve i suoi contributi più persuasivi a un estro esegetico vivacissimo che lo porta a rendersi ragione della poesia dantesca sul piano concreto della parola. Meta costante dell'indagine del F. resta quella d'illuminare il tono fondamentale della poesia dantesca nelle varie articolazioni di un tessuto strutturale proprio di un ‛ genere ' " nuovo e misto ", qual è la Commedia di D., al punto in cui quella poesia si nutre dell'umanità del poeta.
Quanto al singolare realismo dantesco, riportato dal F. ai " modi " propri di tempi in cui gli oggetti della realtà non potevano non considerarsi gremiti, in " misura da dar sgomento ", di " tanti riposti significati ", è da vedere una delle linee più costanti anche se non vistose delle letture del F. intese a riportare l'interpretazione della poesia di D. a una dimensione storicizzante. A ciò è anche diretta, per quanto concerne il Paradiso, l'insistenza sulla parte " larga e stupenda " che ha in quella cantica la poesia narrativa. Pregevole il tentativo d'individuare il motivo unificatore del Paradiso nella convergenza dei motivi " epici " verso il motivo lirico dell'" invettiva ", per la quale il Paradiso vince le altre due cantiche " più drammatiche e psicologiche o elegiache ". Se poi, in un giudizio conclusivo, il F. nota che nel Paradiso " la poesia si duole alcun poco di vedersi messa al servizio della teologia, dell'astronomia, dell'arte per l'arte ", non va dimenticato che egli aveva già avvertito di non arrestarsi di fronte a quelle che possono sembrare le " paurose scogliere " della " teologia " e della " scienza " (" Il lettore non sa di quali incantevoli plaghe si priverebbe in tal modo "), e aggiungeva che a ciò concorreva " l'argomento stesso della cantica, che era proprio d'una chiesa per eccellenza simbolica e di magnifico apparato ". L'autentica poesia del Paradiso il F. addita nei motivi della luce, dell' " epica ", cui si è accennato, nei richiami ed echi che si rimandano da cantica a cantica, e da canto a canto, nella costanza del tono relativamente ai personaggi che " mantengono " il loro " costume " fino alla finale soluzione nell'Empireo. Ma le intuizioni più penetranti e le proposte più acute, talune delle quali entrate nella comune esegesi, vanno additate nella lettura del canto III del Purgatorio. Il F. vede nell'intero canto un'intensa " vena elegiaca " che attenua ciò che " di pauroso e tragico si svolge attorno alla figura di Manfredi ". Tutti i momenti del canto convergono su quella figura e sottolineano il suo vero significato poetico che non è quello della " bellezza maschile " o della " gentilezza soave ", ma quello della paternità (" La poesia si aiuta di tutte le tenerezze che con quelle del padre confinano "). Nello stesso ordine del discorso di Manfredi il F. pone in evidenza la precedenza data non al motivo della preghiera da parte della figlia, ma all'accoramento paterno per l'accorarsi della figlia " posta tra l'amore del padre e l'inibizione dei pastori che vietano i suffragi per i dannati ".