SEVERI, Francesco, da Argenta.
da Argenta – Nacque ad Argenta tra il 1505 e il 1510 da Niccolò.
Scarne le notizie sull’infanzia di Severi, discendente da una famiglia che, a partire dalla fine del XV secolo, si era distinta nella gestione degli affari pubblici presso la corte di Ferrara per conto delle magistrature argentane.
È noto che Severi fu allievo di Antonio Musa Brasavola, il celebre umanista, medico ferrarese della prima metà del Cinquecento, che aveva ricoperto a Ferrara la cattedra di medicina per tutti gli anni Trenta.
La prima attestazione di Severi è rintracciabile nel volume di Brasavola In Porphyrii Isagogas, vel quinque voces comentatio... (1530), in cui compaiono due suoi epigrammi latini, l’uno indirizzato al maestro, l’altro all’amico Daniele Fini, cancelliere dello Studio ferrarese. Nel primo carme sono esaltate le non comuni doti di interprete latino di Brasavola, mentre nel secondo è ricordata la generosità di Fini (Moretti, 1979, pp. 21 s.).
Di modesto valore letterario, tali componimenti indicano un legame profondo con Brasavola, grazie al quale Severi poté maturare un’istruzione ampia e versatile, che gli garantì una brillante carriera all’interno dello Studio, dove risulta stabilmente iscritto a partire dal 1543: nel 1544-45 insegnò logica, dal 1545 al 1556 filosofia naturale, mentre dal 1559 al 1568 (sia pur non continuativamente) tenne lezioni di medicina naturale (Raffaelli, 1983, pp. 94-96). Pur mantenendo un costante interesse per la produzione poetica, Severi si rivolse assai presto agli studi filosofici e alla pratica medica, come riferiscono le testimonianze di alcuni contemporanei. Annoverato tra i dotti ferraresi nel Dialogus posterior (ambientato nel 1548, è parte del De poetis nostrorum temporum..., 1551, di Lilio Gregorio Giraldi), viene elogiato anche per la sua sapienza stilistica e retorica, al centro di un perduto trattatello didascalico.
Un’altra testimonianza significativa è offerta dall’epistolario latino di Paolo Manuzio. Databili in un arco di tempo che va dal 1559 al 1562, le lettere in cui Severi figura, sia come destinatario sia come personaggio menzionato nelle missive di altri corrispondenti, restituiscono il profilo di uno studioso versato tanto nell’arte medica quanto in quella retorica, stimato da dotti ferraresi come Giovan Battista Nicolucci, detto il Pigna, Giovanbattista Saracco, Paolo Sacrati, oltre che dall’umanista e filologo francese Marc-Antoine Muret (Lettere di Paolo Manuzio, in Scritti minori..., I, a cura di C. Marchesi, 1978, pp. 217 s.).
La principale fonte per ricostruire il percorso spirituale di Severi è costituita dal fascicolo processuale a suo carico (1567-68), da cui emerge la figura di Giorgio Rioli, più noto con il nome di Giorgio Siculo, che avrebbe frequentato a Ferrara tra il 1548 e il 1550.
Secondo le sue dichiarazioni, l’interesse per le dottrine di Siculo era maturato grazie alla lettura del trattato manoscritto sulla giustificazione, inserito in appendice a una lettera dell’8 dicembre 1546 inviata da Siculo all’abate benedettino Luciano Degli Ottoni, proprio allora impegnato nei dibattiti conciliari sul medesimo tema (Prosperi, 2000, pp. 91 ss.). Nel 1548 Severi aveva poi conosciuto l’autore a casa dell’umanista ferrarese Nascimbene Nascimbeni, che sarebbe stato processato nel 1550-51 insieme con Siculo. Le fonti inducono quindi ad affermare che tra il 1548 e il 1550 i rapporti con Siculo fossero divenuti più assidui grazie al soggiorno di quest’ultimo a Ferrara, trasformandosi in una cordiale amicizia alimentata dalle discussioni su questioni di scottante attualità. All’inizio Siculo lo aveva esortato a seguire i dogmi della Chiesa di Roma e in particolare la confessione; gradualmente Severi era stato introdotto alle tesi più radicali, che in molti punti – spiegava il medico – gli restavano tuttavia oscure. Fu soltanto con la lettura del Libro grande che egli comprese «meglio l’intentione et dottrina di detto Georgio, che per quanto intendessi da prima da sua propria bozza» (Prosperi, 2000, p. 270).
Quel testo, vero e proprio compendio delle dottrine del visionario siciliano («in vulgare, con le authoritadi della Scrittura in latino», p. 270), gli era stato consegnato manoscritto da un monaco di San Benedetto Polirone (Mantova), che una nota a margine della copia processuale difensiva di mano dello stesso Severi identificò in don Benedetto Fontanini da Mantova, il coautore del Beneficio di Cristo (stampato nel 1543) insieme con Marcantonio Flaminio. Lo stesso Siculo aveva poi chiesto a Severi di passare il Libro grande a un altro seguace, Marco Antonio Florido. Dopo la morte di Siculo, nel maggio del 1551, quest’opera era tornata nelle mani di Severi, che aveva continuato a misurarsi con essa anche dopo la morte dell’autore: Severi dichiarò infatti di averne letti alcuni brani con Florido in due occasioni, databili tra il 1560 e il 1564.
Dapprima destinato a una prudente circolazione manoscritta, questo testo (il cui titolo esatto era Della verità cristiana et dottrina apostolica rivellata dal nostro signor Giesu Christo al servo suo Georgio Siculo della terra di santo Pietro), fu tradotto in latino e stampato a Brescia intorno alla metà degli anni Sessanta. Severi affermò infatti di averne visto un esemplare nel settembre del 1566, privo di indicazioni tipografiche, che gli era parso più ricco rispetto alle precedenti versioni manoscritte. Il medico spiegò inoltre che a quella data a Ferrara era possibile reperire il De iustificatione (sia nella versione originale sia nella traduzione latina), una lettera del 1550 al duca di Ferrara Ercole II d’Este (anch’essa latinizzata), un’altra a Tommaso da Genova, non meglio identificabile, oltre allo scritto Interim (dedicato al «modo di vivere circa la religione che si doveva servare intanto che si verificava quanto lui haveva promesso»; Prosperi, 2000, p. 273) e a un trattato sulla Trinità, terminato quando Siculo si trovava già agli arresti.
Nell’orientare il percorso spirituale di Severi un ruolo determinante toccò a Degli Ottoni. Nel costituto del 10 gennaio 1568 il medico ferrarese dichiarò, tra il resto, che proprio quest’ultimo intorno al 1549-50 gli aveva mostrato una lettera del teologo spagnolo Clemente Garcés indirizzata al benedettino don Valeriano. In quello scritto, di cui Severi aveva fatto una copia per sé, lo spagnolo, cappellano del Collegio di Spagna a Bologna dal 1546, ricordava il primo incontro con Siculo, avvenuto a Riva di Trento alla fine del febbraio del 1548, data a partire dalla quale Garcés ne era diventato un convinto discepolo (p. 165).
Che Severi fosse rimasto legato agli altri membri della setta anche dopo la morte di Siculo emerge poi dal secondo memoriale di Nascimbeni (10 gennaio 1570), in cui è rievocato un episodio databile al 1557-58 quando, nell’attesa che si realizzassero le profezie di Siculo, i suoi seguaci credettero di aver individuato un nuovo messia nel monaco di San Faustino di Brescia, tale don Stefano. Nascimbeni sostenne di essere stato l’unico a nutrire dubbi sulle affermazioni del monaco e di averlo smascherato con una lettera inviata «in una villa del cremonese o mantovano chiamata Spinella o Spineda», informandone «messer Francesco Argenta», che non era presente all’incontro (Raffaelli, 1983, pp. 121-123).
Severi insegnò stabilmente nello Studio di Ferrara fino al 3 dicembre 1567, quando fu arrestato e imprigionato in una cella del locale convento domenicano per ordine dell’inquisitore di Ferrara Camillo Campeggi. Qualche giorno prima l’ex benedettino bresciano Giuseppe Cattaneo, molto vicino alla dottrina del visionario siciliano, era passato a salutarlo prima di lasciare l’Italia, consapevole dei sospetti sul suo conto. All’apertura del processo, il 27 dicembre 1567, l’imputato dichiarò al vicario dell’inquisitore, fra Niccolò da Finale, di conoscere le ragioni della sua detenzione («io so che son qua per causa del libro et doctrina [...] di don Georgio Siculo»), e di essere disposto a collaborare («io vi dirò liberamente et alla sincera con speranza di trovar perdono et clemenza dalla Santa Madre Chiesa»; Prosperi, 2000, p. 269).
Il 14 febbraio 1568 il nuovo inquisitore di Ferrara Paolo Costabili contestò a Severi un lungo elenco di eresie, nonostante egli avesse cercato di attenuare la sua adesione al messaggio di Siculo.
Le imputazioni comprendevano «la negazione dei sacramenti e della costituzione stessa della Chiesa, negazione della Trinità e del battesimo cristiano», oltre all’idea di «una setta di giustificati per grazia divina, costituiti come perfetti e del tutto liberi da ogni inclinazione al peccato», che fondavano la loro identità su «un vero battesimo secondo lo Spirito santo, consistente nella penitenza dei peccati e nella fede nella passione di Gesù». Così come si raffigurava «il disegno di una società governata dal potere temporale secondo la legge di Mosè», nonché speculazioni sulla generazione puramente naturale delle anime. Agli occhi degli inquisitori si trattava «di imputazioni gravissime», molto simili a quelle abiurate dal benedettino don Antonio da Bozzolo nel 1567: «Negazione della dottrina cattolica dei sacramenti, negazione dell’immortalità dell’anima, antitrinitarismo» (pp. 263-266).
Severi si dichiarò pentito dei suoi errori e pronto ad accettare la correzione della Chiesa, affermando di aver condiviso con i seguaci di Siculo solo le tesi che aveva compreso. Tuttavia, tra i punti cui aveva creduto con maggior vigore spiccava quello relativo alla prossima erogazione della giustizia da parte dello Spirito Santo, poiché, spiegava all’inquisitore, «io l’aspettava, perché pareva ognuno dicesse: “la venirà, la venirà”, la qual giustitia era che dovesse venir il spirito santo et farci santi et giusti et impeccabili, nel modo che vene et fece santi et giusti li Apostoli» (p. 275).
Alla conclusione della prima fase processuale, Severi rinunciò alla difesa e chiese di essere perdonato. Venne condannato alla galera perpetua, deliberata a Roma ai primi di agosto del 1568 e letta pubblicamente a Ferrara il 29 agosto. Il 12 gennaio seguente, nella Congregazione dell’Inquisizione davanti a Pio V, la sua supplica fu accolta e gli fu concesso di continuare a curare Alfonso d’Este; poté anche riprendere l’insegnamento tra il 1° novembre e il 23 dicembre 1569. E tuttavia, secondo il cronista ferrarese Mario Equicola, Severi «volse iustificare con lettere a sua Santità che gli era stato fatto torto; per il che li frati, sentendosi toccare su l’honore, trovorono che l’era stato abiurato» (Ferrara, Biblioteca comunale ariostea, Ms. cl. II, 349, c. 148). Di un memoriale di Severi al papa è rimasta traccia proprio nei verbali del Sant’Uffizio. Quanto alla scoperta della precedente abiura, è lecito pensare che anche Severi (come Nascimbeni) avesse abiurato all’epoca del processo contro Siculo nel 1550-51. La sicurezza ostentata dal medico argentano può essere spiegata ricordando che l’inquisitore nelle cui mani aveva abiurato Nascimbeni e, come probabile, anche lo stesso Severi, era Girolamo Papino, vale a dire un protettore di Siculo. Avuta conferma della precedente abiura, il 27 agosto 1570 gli inquisitori condannarono Severi come relapso e spergiuro, consegnandolo al braccio secolare. Il 7 settembre 1570 ebbe luogo il supplizio: «Maestro Francesco condennato dalla Inquisitione per conto di heresia fu decapitato in piazza publica e poi abbrusciato» (Prosperi, 2000, p. 449, nota 98; Ferrara, Biblioteca comunale Ariostea, Ms. cl. II, 349, c. 151).
Fonti e Bibl.: Bologna, Biblioteca dell’Archiginnasio, Mss. Pallotti, vol. XXVIII; Città del Vaticano, Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede, Decreta (1567-1571), c. 151v; Città del Vaticano, Biblioteca apostolica Vaticana, Vat. Lat. 12592, cc. 137,169; Ferrara, Biblioteca comunale ariostea, Ms. cl. I, 404, c. 41r: Libro de’ giustiziati in Ferrara; Ms. cl. I, 437, c. 185v; Ms. cl. II, 349, cc. 148, 151; Venezia, Archivio della Curia patriarcale, Sant’Uffizio, bb. 2 (1561-1585), cc. 78r-115v; Sant’Uffizio, b. 30, f. Arrivabene; A. Brasavola, In Porphyrii Isagogas, vel quinque voces comentatio, ad illustrissimos & serenissimos principes Herculem Estensem & Renatam Gallam, Francesco Rosso, Taddeo e Francesco Zanchi, Ferrara 1530; L.G. Giraldi, De poetis nostrorum temporum dialogi duo, Firenze 1551; Id., Due dialoghi sui poeti dei nostri tempi (1551), a cura di C. Pandolfi, Ferrara 1999, pp. 238-240; Epistolarum Pauli Manutii libri X, Venetiis 1560, cc. 149r-150v; Epistolarum Pauli Manutii libri X, l. IV, Venetiis 1571, pp. 152, 157, 234-237, 327-329; Lettere di Paolo Manuzio, in Scritti minori di filologia e di letteratura, I, a cura di C. Marchesi, Firenze 1978, ad indicem.
F. Borsetti, Historia almi Ferrariae, Pars secunda, Ferrariae 1735, p. 164; G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, VII, 2, Milano 1824, p. 993; C. Ginzburg, Due note sul profetismo cinquecentesco, in Rivista storica italiana, 1966, n. 78, pp. 191-193; A. Franceschini, Nuovi documenti relativi ai docenti dello Studio di Ferrara nel secolo XVI, in Deputazione ferrarese di storia patria, Monumenti, VI, 1970, ad ind.; W. Moretti, Lineamenti storici della vita culturale della comunità argentana, in Aspetti della storia civile e culturale della comunità argentana. Atti del Convegno di studi... 1977, Argenta 1979, pp. 15-34; R. Raffaelli, Notizie intorno a F. S., il medico d’Argenta, in Studi urbinati, 1983, n. 56, pp. 91-136; A. Prosperi, L’eresia del Libro Grande. Storia di Giorgio Siculo e della sua setta, Milano 2000, ad indicem.