SETTIMIO SEVERO (L. Septimius Severus)
Imperatore romano dal 193 al 211 d. C. Nacque l'11 aprile 146 a Leptis Magna da una famiglia appartenente all'ordine equestre, che, se anche era di origine italica, tuttavia era profondamente africanizzata e stava tornando soltanto allora lentamente alla cultura romana: le sue sorelle non sapranno mai parlare bene il latino; in lui stesso, nonostante la fine cultura greca e latina, si continuerà a sentire la traccia della pronuncia africana. Venuto a Roma intorno al 164 e protetto da Marco Aurelio, fu presto ammesso alla carriera senatoria: nel 170-71 dovette essere questore: nel 172 propretore in Spagna Betica, nel 173-74 circa propretore in Sardegna, quindi legato proconsolare in Africa, tribuno della plebe nel 176, nel 178 pretore in Spagna probabilmente come legatus iuridicus nella Tarraconense. I dati, del resto al tutto esteriori, della sua carriera quindi si oscurano: fu forse al comando della IV Scitica in Oriente, dove sembra che non abbia trovato il favore degli Antiocheni. Nel mutamento di sovrano del 180 egli non ebbe fortuna: Commodo non gli continuò il favore paterno, e S., diventato privato, fu anche in Atene a studiare. L'assunzione di Cleandro a prefetto del pretorio nel 186 gli ridiede, per ignota concatenazione di eventi, il favore imperiale: nel 187 era governatore della Gallia Lugdunense, poi nel 189 a Roma e di lì inviato come governatore in Sicilia. Nel 190 console suffetto; nel 191 governatore della Pannonia superiore con tre legioni a disposizione. Qui si trovava alla fine del 192, quando una congiura, uccidendo Commodo, rivelava di colpo la crisi latente dell'impero e svelava S. a sé stesso.
Non è qui il luogo di descrivere la crisi (v. roma: Età imperiale). Ma tre elementi la caratterizzano: il venir meno di quell'accordo tra aristocrazia senatoria e impero militare, che aveva caratterizzato l'età degli Antonini; il disagio economieo; l'accentuarsi dell'irrequietezza delle truppe e dei loro generali, che si sentono padroni dell'impero e tendono a opprimere i non militari (siano essi contadini o cittadini) a loro vantaggio. Che da questa crisi esca vincitore S. non è evidentemente caso. Sebbene, in fondo, la sua più intima personalità ci sia ignota e sebbene fino al momento dell'avvento al trono S. non sembri differenziarsi dai molti funzionarî di età imperiale, che compiono, senza speciale fulgore, una bella carriera, egli con le sue opere si rivela poi perfetta espressione di questa crisi e quindi suo esponente. Vedremo in tutto il suo regno che S. non ha affatto coscienza di essere un rivoluzionario; tenderà anzi a riconnettersi con l'età degli Antonini; ci sarà poi sempre nella sua cultura e nella sua azione un persistere di quell'"umanitarismo" che contraddistingue l'età dei predecessori fino a Marco Aurelio. Ma appunto in tutto ciò S. si confonde con le forze che vengono trasformando senza vera consapevolezza la struttura dell'impero. Perché egli poi si metterà senza esitazione alla testa di un moto militare, quando se ne offrirà l'occasione, e darà un colpo fiero con le sue riforme ai privilegi della categoria senatoria, mentre favorirà in varie guise i soldati. Che egli non sentisse un forte squilibrio tra il vecchio e il nuovo era reso possibile, oltre che dagli stessi caratteri del regno di Commodo, anche dal valore che assunsero per lui i giuristi di professione in confronto ai senatori: donde, se non altro, la convinzione di continuare in un governo illuminato, che non si distaccasse dal precedente.
Un elemento a noi abbastanza noto della sua persona ci conferma le nuove forze che egli esprime: senza dubbio è tutt'altro che nuovo che S. viva in una fede cieca nell'astrologia (nel 187 circa, sposa come seconda moglie - da cui avrà i figli Bassiano, poi detto Caracalla, e Geta - Giulia Domna, della casa sacerdotale di Emesa e imbevuta di teosofia orientale); ma è la prima volta che queste convinzioni orientali avvolgono così profondamente un sovrano di Roma. Né ha scarso interesse che col matrimonio di S. con Giulia Domna si unissero tendenze e orientamenti di due tra le provincie più irrequiete e creative dell'impero, l'Africa e la Siria.
Ucciso Pertinace dopo tre mesi di regno il 28 marzo 193, mentre in Roma i pretoriani nominavano Didio Giuliano, le legioni di Pannonia affermavano il loro diritto al potere proclamando a Carnunto S. (e più precisamente la XIV gemina e la I adiutrix, ché la X gemina sembra essere stata dapprima riluttante): più o meno nello stesso tempo le legioni di Gallia e Britannia si pronunziavano per Clodio Albino e quelle d'Oriente per Pescennio Nigro. S., favorito dalla posizione geografica, precedeva gli altri in Italia e sapeva intanto neutralizzare il rivale più pericoloso, Albino, riconoscendolo Cesare e correggente. L'Italia era quasi tutta sguarnita; la flotta di Ravenna passò a lui; le altre truppe esitarono, alla notizia dei larghi donativi che S. veniva distribuendo sulla sua strada; infine i pretoriani sacrificarono Giuliano, che fu ucciso. Al Senato, che aveva già dichiarato S. nemico pubblico, non restò che inviargli a Terni, dove si era fermato, un'ambasciata di cento senatori per salutarlo imperatore.
S. si riconciliò allora con il Senato, entrò in Roma vestito, secondo le buone norme, in toga e non armatus cum armatis militibus, secondo vorrebbe invece la sua biografia contraddetta dalle altre fonti, e si presentò al Senato come vendicatore di Pertinace e quindi fautore della stessa politica senatoria. Egli era senza dubbio sincero quando faceva al Senato la solenne promessa di non condannare nessun senatore senza giudizio formale e più quando faceva proclamare l'apoteosi di Pertinace. Come uccisori di Pertinace faceva ignominiosamente disarmare i pretoriani.
La portata rivoluzionaria di questa insurrezione militare si rivelava però già nella trasformazione che subiva il corpo dei pretoriani nella sua organizzazione. Era naturale che S. sostituisse con soldati a lui fedeli i vecchi pretoriani; ma ciò portava senz'altro alla sostituzione delle truppe italiche, ancora in grande prevalenza fra i pretoriani, con truppe illiriche e siriache. La trasformazione, a tutto danno della situazione dell'Italia entro l'impero, si compiva più tardi con l'affiancare ai pretoriani, per controllo dei medesimi e insieme dell'Italia, una legione (la II partica) insediata sul monte Albano al comando di un cavaliere direttamente dipendente dall'imperatore.
Per intanto l'accordo con il Senato e con Clodio Albino permetteva a S. di attaccare Pescennio Nigro. La fedeltà dell'Africa a S. impediva a Nigro, padrone dell'Egitto, di assediarlo in Italia; il passaggio delle quattro legioni mesiche alle dipendenze di lui toglieva a Nigro ogni fondata speranza d'invadere l'Europa centrale. Con queste quattro legioni - a cui si aggiungeranno poi tre altre, le partiche, di nuova istituzione - diventava molto forte la superiorità militare di S. su Nigro, che non possedeva se non sei legioni, sebbene fosse inoltre aiutato dai re vassalli confinanti e dalla ricchezza delle regioni. I primi successi fecero passare a S. anche l'Egitto; e, nonostante Bisanzio assediata resistesse, egli portò la guerra in Asia, dove con politica abile seppe valersi delle rivalità fra le città per attrarne un buon numero al suo seguito. Nel novembre (?) 194 Nigro era vinto e ucciso presso Isso; ma Bisanzio continuava a resistere, e la guerra si spostava con gli stati minori circostanti invocati da Nigro. S. rioccupava Nisibi e l'Adiabene, mentre Bisanzio si arrendeva.
Tali vittorie rendevano più acuta la questione della correggenza con Albino rimasto fuori dalle imprese di S. e divenuto ora oggetto di simpatie per parte dei superstiti seguaci di Nigro e di alcuni circoli del Senato di Roma. D'altronde a S. il principio di adozione era estraneo: egli desiderava far succedere i suoi figli. In ciò si poteva richiamare a Marco Aurelio; e poiché ora anche Pertinace gli era diventato trascurabile, e il conflitto con Albino coincideva con una crescente diffidenza per il Senato, si poté attuare il paradosso che in nome del principio adottivo ora S. si facesse esaltatore degli Antonini, attribuisse al figlio Bassiano (che si associava come Cesare) il nome di Antonino e si proclamasse egli stesso figlio di Marco e fratello di Commodo. Ritornato a Roma, alla fine del 196, prima di procedere contro Albino, scatenò una persecuzione contro gli ambienti senatorî, che, insieme con le larghe confische già fatte contro i partigiani di Nigro, doveva rifornire le casse di guerra. Seguiva la campagna contro Albino, riconosciuto imperatore in Britannia, Gallia e Spagna, e si concludeva con una vittoria di S. presso Lione e il suicidio di Albino.
Mentre i successi contro gli avversarî si accrescevano, l'originario impulso antisenatorio si faceva sempre più luce e nello stesso tempo la riconnessione con gli Antonini diventava più stretta. In Gallia era ordinata l'apoteosi di Commodo; dopo il ritorno a Roma una nuova più grave persecuzione era scatenata contro i senatori. Già le legioni partiche erano state sottoposte a comando di cavalieri invece che di senatori.
Il desiderio, comune a tutti, si può dire, gl'imperatori romani di legittimare il loro potere con una vittoria decisiva in Oriente, faceva accogliere a S. l'occasione di un attacco dei Parti per una guerra a fondo (197), mentre Caracalla reprimeva una ribellione di Ebrei e Samaritani. Egli occupava Seleucia, Babilonia e Ctesifonte; ma in realtà poi si sentiva malsicuro di fronte ai suoi soldati e al nemico e abbandonava i nuovi acquisti, accontentandosi di sistemare quelli intorno a Nisibi, elevata a colonia con alcune altre città in provincia di Mesopotamia. La pace con la Partia era suggellata forse formalmente con l'abbandono di una parte dell'Armenia alla Partia: seguivano vani tentativi di occupare Hatra nella terra degli Arabi Sceniti. La politica di espansione in Oriente era dunque fallita, come già quella di Traiano. Dopo un viaggio di ritorno in cui si indugiò a lungo in Egitto e che gli servì, più che a soddisfare le sue molte curiosità di luoghi, a riorganizzare parecchie città al suo passaggio, nel 202 era di nuovo a Roma: nel 203 vi era compiuto l'arco trionfale in suo onore.
Gli anni 202-208 che l'imperatore trascorse in Italia, salvo una residenza in Africa fra il 203 e il 204, furono senza dubbio i decisivi per le sue riforme. E non è da dimenticare per comprenderle che esse, dopo un decennio di guerre intestine ed estere, si vennero svolgendo tra il prolungarsi d'irrequietudini. Gli eserciti nemici erano vinti, ma in Italia stessa una banda di schiavi e soldati fuggiti al comando di Bulla Felice spargeva il terrore fra i possidenti, e occorsero due anni per domarlo. Analoghi movimenti sono ricordati per varie provincie. Altrettanto grave la crisi domestica, per cui infine veniva destituito e ucciso l'uomo di fiducia di S., Fulvio Plauziano (v.), prefetto del pretorio, la cui figlia Plautilla aveva sposato Caracalla, e che, attraverso il concentramento di poteri che l'accresciuta importanza dell'armata provocava, aveva avuto un'enorme autorità. La causa immediata sembra sia stata la rivalità fra Plauziano e Caracalla; la causa effettiva è evidentemente che il prefetto del pretorio, con il decadere del prestigio del Senato, tornava a diventare possibile arbitro del trono. S. doveva subito dopo riprendere il sistema normale dei due prefetti.
L'aristocrazia era stata attaccata da S. con uccisioni e confische: per assicurare con queste ultime le sorti della dinastia e per praticità di amministrazione egli le costituì in una cassa a parte con il titolo di ratio privata. Correlativamente, era precipitato l'accentramento delle finanze dello stato nelle mani dell'imperatore sia con l'aggregare l'amministrazione dell'agro pubblico al patrimonio, sia col ridurre l'erario a quasi semplice cassa della città di Roma, diminuendo ancora le sue entrate dalle provincie. La crisi monetaria svelatasi al tempo di Commodo rendeva più rude la politica di confisca, mentre un'ulteriore svalutazione del denaro appariva opportuna: la monetazione d'argento ha ormai il 50% di lega, dal 25% di Marco Aurelio. Requisizioni e pagamento in natura si estendevano; e perciò, in modo non ben chiaro, nell'annona era associata l'autorità militare, dando carattere militare alla raccolta del grano. Il sistema era violento: tuttavia S. riusciva infine a creare forti scorte di grano e di olio per l'Italia e quindi - si deve ritenere - anche per le provincie. Tali scorte dovevano servire a rendere impossibili quei moti, di cui era stato esempio la rivolta di Bulla.
Le difficoltà economiche si associavano con la volontà (e necessità) di favorire l'esercito provocando alleggerimenti del servizio. Il sistema delle cleruchie egiziane - insediamenti di soldati come agricoltori con impegni di difesa territoriale - era esteso all'Occidente col risultato di diminuire le spese dello stato, poiché ormai i soldati si mantenevano da sé, ma anche di ridurre ancora la loro efficienza: sicché diventerà presto una necessità, poi attuata da Gallieno, di contrapporre alle truppe di confine delle unità di manovra centrali. Se poi i soldati che ricevevano pagamento in denaro ebbero aumentato lo stipendio a 500 denari annui da 300, ciò corrispondeva solo alla diminuzione della capacità di acquisto della moneta. Reale favore per i soldati era di permettere loro di vivere fuori dell'accampamento con le loro concubine: ai soldati della II Partica e delle coorti urbane era permesso inoltre di prestare servizio anche se precedentemente all'assunzione sposati. Di conseguenza i villaggi intorno all'accampamento prendevano grande sviluppo come veri centri della vita dei soldati. I veterani erano liberati da tutte le prestazioni personali nelle loro città, erano fondate casse di soccorso per i centurioni. Ai figli dei centurioni principali era reso possibile l'ingresso in Senato; a tutti i soldati era permesso portare l'anello d'oro.
La politica sociale era naturalmente in favore delle provincie e soprattutto della regione di provenienza: S., che separava una provincia di Numidia da quella di Africa, moltiplicava in entrambe costruzioni e provvidenze. Leptis Magna, come vanno rivelando gli scavi, era interamente ricostruita con nuovo splendore. Il gusto per le grandi costruzioni di S. è confermato a Roma dal Settizonio (v.), creato, forse, in origine con lo scopo di farne un mausoleo, sul Palatino.
Analoghe divisioni per comodità amministrative e difensive troviamo in Britannia, ora divisa in Britannia superior e Britannia inferior e in Siria, da cui la Fenicia era separata col nome di Syria Phoenice con capitale Tiro che, come altre città (per es., Samaria) ottenne lo ius italicum. La Mesopotamia, già dicemmo, era organizzata a provincia; in Egitto veniva introdotto il sistema municipale invece dell'organizzazione per villaggi, estendendo dunque la comune amministrazione dell'impero a questa regione, mentre i suoi ordinamenti militari passavano ad altre regioni. Alessandria riaveva la sua autonomia municipale.
Il forte spirito cosmopolitico di S. ha la sua migliore espressione in taluni provvedimenti improntati a mitezza, in specie per quanto concerne schiavi, donne, figli di condannati. Con l'immissione nel consiglio imperiale dei migliori giuristi del tempo (Papiniano, Ulpiano, Paolo) non solo egli tendeva a contrapporre al Senato l'autorità di questa piccola adunanza, ma nello stesso tempo aderiva al moto potente di riorganizzazione del diritto, che quei giuristi rappresentavano.
Nella politica religiosa il culto imperiale ebbe nuovi impulsi, tra l'altro con l'introduzione del genio dell'imperatrice negli accampamenti come mater castrorum: Giove Dolicheno e la cartaginese Tanit, come Caelestis, ebbero sotto di lui grande diffusione. Verso il cristianesimo egli inizia la politica di riconoscimento delle comunità come collegia tenuiorum; e anche a lungo protesse intorno di sé cristiani. Poi per ragioni contingenti non ben chiare, ma connesse con l'esigenza di mantenere la compattezza dell'impero che contrasterà sempre nel secolo III gli spunti di politica filocristiana, cambiò atteggiamento: vietò la conversione al cristianesimo (come anche al giudaismo) e provocò molte persecucuzioni locali, di cui abbiamo notizia specialmente per l'Egitto e l'Africa.
Nel complesso S., mentre diede un forte impulso all'effettiva parificazione dei provinciali nell'impero in nome di quello spirito cosmopolitico, che Caracalla porterà giuridicamente alla sua conseguenza estrema, suggellò anche la connessione tra quello spirito cosmopolitico e la monarchia dispotica, che, dovendosi appoggiare di contro alle classi colte sull'esercito, finisce con l'indebolire l'esercito stesso e opprimere fiscalmente e prepara quindi la decadenza di Roma.
Sin dal 204 in Britannia si combatteva contro Meati e Caledoni non felicemente. S. decise nel 208 di portare guerra risolutiva, e partì accompagnato dai figli e dalla moglie. Caracalla, già dal 19 elevato ad Augusto, comandò in realtà l'esercito; Geta ora, nonostante la rivalità col fratello, anch'egli elevato alla medesima dignità (209?) restò governatore della Britannia. S. presto ammalatosi non poté avere mai parte molto attiva alle campagne, che in definitiva furono abbastanza inconcludenti. Né d'altronde egli, deciso e abile nelle lotte intestine, aveva mai dimostrato qualità vere di generale. Nel febbraio 211 egli moriva a Eburaco. Fu seppellito a Roma nella tomba degli Antonini e divinizzato.
Fonti. - Perduta l'autobiografia. Nella Historia Augusta una biografia; Dione Cassio libri LXXVI e LXXVII solo in frammenti e nei compilatori bizantini; Erodiano l. III; Orac. Sibillini, libro XII; Eutropio; Aurelio Vittore; Cronografo del 354. Le iscrizioni indicate in appendice dal Hasebroek sotto citato. Monete, in H. Cohen, Description historique des monnaies frappées sous l'empire romain, IV, p. 1 segg. Monete alessandrine in J. Vogt, Die alexandrinischen Münzen, Stoccarda 1924.
Bibl.: oltre alle opere di storia generale, A. Ceuleneer, Essai sur la vie et le règne de Septime-Sévère, Parigi 1880; C. Fuchs, Gesch. d. Kaiser L. Septimius Severus, Vienna 1884; M. Platnauer, The life and reign of the Emperor L. Septimius Severus, Oxford 1918; J. Hasebroek, Untersuchungen zur Geschichte des Kaisers Septimius Severus, Heidelberg 1921; W. Judeich, Plautianus und Severus, in Fetschrift Cartellieri, Weimar 1927, p. 63 segg.; Fluss, in Pauly Wissowa, Real-Encycl., II A, col. 1940 segg. Cfr. inoltre F. Sintenis, Die Zusammensetzung des Senats unter Septimius Severus und Caracalla, diss., Berlino 1914, e V. Macchioro, L'impero romano nell'età dei Severi, in Riv. Storica Antica, X (1905) e XI (1906).