sestina, sestina doppia
1. La s. di D. Al poco giorno e al gran cerchio d'ombra (Rime CI) è costituita da sei stanze di sei versi terminanti con le stesse sei parole-rima ombra, colli, erba, verde, petra, donna, secondo lo schema definito nella trattatistica latina ‛ retrogradatio cruciata ', prendendo alternatamente le ultime tre, a partir dal fondo, e le prime tre, alternatamente (abcdef, faebdc...); la s. è chiusa da un congedo di tre versi, in cui ricorrono tutte le sei parole predette, secondo l'ordine descritto più avanti.
Nel De vulg. Eloq. D. proclama la derivazione della sua s. da Arnaldo Daniello (anche se non indica specificatamente la s. arnaldiana), quando parla della stanza senza diesis, cioè priva di distinzione fra fronte e sirma: huiusmondi stantia usus est fere in omnibus cantionibus suis Arnaldus Danielis, et nos eum secuti sumus cum diximus " Al poco giorno e al gran cerchio d'ombra " (II X 2, e v. anche XIII 2). D. introduce almeno due variazioni rispetto alla s. Lo ferm voler qu'el cor m'intra di Arnaldo. Le stanze della s. di Arnaldo si avviano su un ottonario, mentre quelle della s. dantesca sono tutte di endecasillabi: a tal proposito si ricorda che D. ritiene che nella canzone tragica possano essere intessuti settenari agli endecasillabi, ma che l'endecasillabo debba prevalere nel numero ed essere il primo verso della stanza (e se i poeti bolognesi e certi altri hanno cominciato con un settenario, rimane l'impressione che queste loro canzoni procedano non sine quodam elegiae umbraculo, II XII 6; val la pena di ricordare che nessuna canzone dantesca comincia con un settenario: s'inizia con un settenario la giovanile stanza isolata Lo meo servente core, Rime XLIX).
L'altra diversità con lo schema arnaldiano si ha nella stanza finale di tre versi, vero e proprio congedo. Qui Arnaldo assume le prime tre parole-rima (riferendosi alla stanza immediatamente precedente) all'interno dei tre versi del congedo, le ultime tre in fine dei tre versi; D. invece, per non perdere l'opportunità, anche in quest'ultimo caso, di far rimare (con parola-rima) il primo verso della stanza breve con l'ultimo della precedente (ombra: ombra), dispose le parole-rima nell'ordine (A)F(B)C(D)E (rispetto alla stanza precedente; il Contini [Rime 156] ritiene invece che nell'ultima stanza D. abbia tenuto d'occhio le prime parole-rima delle sei stanze). Per di più, in D. le tre parole-rima interne, sempre del congedo, tendono a porsi verso la metà del verso, mentre in Arnaldo precedono immediatamente le tre parole-rima finali. Per altro, l'esempio di Arnaldo agisce sulla s. dantesca anche nella determinazione delle parole-rima; già in Arnaldo tendono fortemente al reale (si ricordano ‛ ongla ', ‛ verga ', ‛ oncle ', ‛ cambra '), con una sola rima verbale (‛ intra '): " Dante va al di fuori di Arnaldo, abbandonando ogni rima verbale " (Fubini, Metrica e poesia, p. 302). Del resto, il Canello ha notato l'assonanza fra alcune parole-rima della s. dantesca (donna, ombra; petra, erba) come nella s. arnaldiana (‛ arma ', ‛ cambra '; e in ‛ ongla ', ‛ oncle '); anzi, in D. a tre parole con accento su o (donna, ombra, colli), se ne contrappongono tre con accento su e (petra, erba, verde: Fiedler, p. 248).
Se la poesia incardinata sulla rima, com'è tutta la poesia dantesca, ha naturalmente il suo polo principale appunto nella rima, ciò è tanto più evidente, si potrebbe dire drammaticamente evidente, in una composizione incardinata su parole-rima. Anzi, la scelta delle parole-rima è certamente, a questo punto, programmata, tale cioè da dare intenzionalmente il tono a tutta la lirica: viene così fissata una specie di trama di punti uguali e ricorrenti attraverso cui bisogna obbligatoriamente passare. Anche da questo punto di vista, la s. dantesca nasce come svolgimento estremo, come un portare al limite l'esperienza della canzone Io son venuto al punto de la rota: delle sei parole-rima della s., due (donna, petra) sono le parole-rima delle coppie finali delle due prime stanze della canzone, mentre altre tre (ombra, verde, erba) sono già in rima nella canzone; per di più, nella s. doppia (v. oltre) ricorrono ancora le due parole-rima donna, petra (su cinque), mentre petra ricorre ad apertura di Così nel mio parlar, e donna è nel congedo di questa stessa ultima canzone (v. RIMA 10. 1.).
Come ha osservato il Contini (Rime 157), " gravitando verso l'allucinazione della parola in rima, il verso può elaborare di solito un altro centro verbale di evocazione... il che spiega come spesso il verso termini su due poli, di bianco in verde, per lo più coordinati, il crespo giallo e 'l verde (si vedano i vv. 8, 18, 28, 31, 39, per la coordinazione i vv. 12, 15, 21, 32, per una coordinazione iniziale i vv. 1, 6, 24) ".
La ripetizione è insomma il motivo dominante, inerente alla struttura stessa della s., in quanto concetti o parole complementari o antitetici relativi alle parole-rima si ripetono alla cadenza delle stesse parole-rima. Tutte le figure della ripetizione sono perciò tipici elementi retorici della s.: la geminatio, il poliptoto, la figura etimologica, l'anafora, l'epifora, l'annominatio, il gioco di parole, la dittologia sinonimica (Riesz, p. 219). Il fatto che la ripetizione e insieme la continua variazione dominino nella s. in genere, e in particolare in questa di D., come nella s. doppia, determina la povertà dei contenuti: una parafrasi della s., ammesso che sia possibile, è del tutto inutile; si può veramente dire che la s. è il tema di sé stessa, o in altre parole che la sua forma è il suo tema. Non a caso, nelle due ultime s. del Petrarca (Rime CCXXXIX e CCCXXXII) la riflessione sulla forma si cristallizza nelle parole-rima ‛ versi ', ‛ note ', ‛ stile ', ‛ rime ': e nella canzone dantesca Così nel mio parlar, per tanti versi stretta alla s., il tema della forma è esplicitamente espresso (Riesz, pp. 220-221; per problemi diversi da quelli della struttura della s., cfr. AL POCO GIORNO E AL GRAN CERCHIO D'OMBRA).
2.1. Ben nove s. scrisse il Petrarca, e da lui questo schema ossessivo trae la sua fortuna italiana ed europea ininterrotta. Dal nostro punto di vista, il fatto notevole è che la s. del Petrarca, e quindi di tutti i petrarchisti di tutti i tempi e di tutti i luoghi, ha lo schema dantesco. Il Petrarca, perfino nella settima stanza, dove pur si concede una certa libertà d'incrociare in vari modi le sei parole-rima, terrà evidentemente conto di quanto aveva fatto D., che rimava il primo verso della stanza breve con l'ultimo della precedente (diversamente da Arnaldo): il Petrarca opererà consimilmente nella s. Chi è firmato di menar sua vita (Rime LXXX), mentre in tutte le altre darà l'ultima parola-rima della stanza precedente all'interno del primo verso della stanza breve (ad es. in A qualunque animale si ha al v. 36 " Ch' Apollo la seguia qua giù per terra " e al v. 37 " Ma io sarò sotterra in secca selva ").
Dagli studi specialmente dedicati alle s. di D. e del Petrarca o in genere alla presenza del D. petroso nel Petrarca si trae una impressionante serie di riflessi (Neri, Jenni, Battaglia, Riesz): si ricordano, fra l'altro, gli adinati delle s. petrarchesche in riferimento agli adinati della sesta stanza della s. dantesca, studiati dal Neri. Ma si potrebbe forse giungere a sostenere che la s. dantesca, e tutto il D. petroso, sono ossessivamente presenti nel Petrarca, almeno nel Petrarca delle sestine. Basti pensare che una metà delle 54 parole-rima delle nove s. del Petrarca sono presenti nella s. dantesca e in Io son venuto al punto de la rota, e molte di esse parole-rima non sono certo le più ovviamente immediate nella poesia d'amore, quali, ad esempio, nebbia, pioggia (Petrarca Rime LXVI; Io son venuto al punto de la rota, 18 e 21), legno (Petrarca Rime LXXX; s. dantesca, v. 32), fronda, lume, poggio (Petrarca, CXLII; s. dantesca, vv. 24, 23, 24), ramo (Petrarca, CXLII; Io son venuto 43), piagge (Petrarca, CCXXXVII; Io son venuto 47), e così via. E si aggiunga che le parole-rima della s. dantesca occorrono con frequenza impressionante anche internamente ai versi delle s. del Petrarca: ombre in Petrarca Rime XXII 8 e 21, XXX 16, LXVI 35, CXLII 1 e 11 (e disgombrava, v. 4); e così erba, verde e naturalmente donna.
Per di più, l'intera struttura di alcune stanze delle s. petrarchesche, con le loro evocazioni temporali, invernali e primaverili, ripetono immagini, metafore e lessico della s. dantesca, invernale nei primi otto versi, vagamente primaverile dal v. 10 al v. 30 (e di Io son venuto al punto de la rota e delle altre petrose). Ed è dalla s. dantesca che perfino i temi della natura e il tono prevalentemente triste e appassionato derivano nel Petrarca e poi in genere nelle s. di tutti i petrarchisti, sì che quello che dice il Carducci come inerente alla s., è in realtà appunto della s. di D.: " La sestina è un metro mestamente serio, e segue e rende l'errar del pensiero per un cerchio quasi incantato, nel quale gli oggetti fantastici e reali, e le percezioni e i sentimenti e le visioni si presentano e si ripresentano alla mente con successioni di parvenze differenti ma sempre gli stessi " (Carducci, Opere, XXVIII 4). Il Contini del resto, mentre definisce di evidenza primaria l'esperienza della s. nella poesia petrarchesca, conclude che " non è illecito ormai definire dantesca quell'esperienza antica " (Contini, Preliminari sulla lingua del Petrarca).
2.2. Imitano la s. dantesca le probabilmente trecentesche Amor mi mena tal fiata a l'ombra e Gran nobiltà mi par vedere a l'ombra, ambedue con le stesse parole-rima della s. dantesca. Secondo S. Debenedetti, " le parole-rima adoperate da Dante furon riprese, non già per la loro virtù espressiva, ma perché colla duplice fatica il nuovo poeta, dai miseri orizzonti, volle entrare in lizza a combattere col grande ".
2.3. Con la sterminata fortuna del Petrarca, la s. ebbe una diffusione impressionante in Italia e in Europa. Ma, lungo tutto il petrarchismo, non mancò chi, scrivendo s., si sia rifatto anche alle parole-rima della s. dantesca, e direttamente ad alcune immagini di quella: dal trecentesco Antonio degli Alberti, che nella sua s. pone accanto a parole-rima tratte da s. del Petrarca (‛ giorno ', ‛ sole ', ‛ fiori ', ‛ terra ') le dantesche verde e ombra, ai quattrocenteschi I. Sannazzaro e A. Forteguerri, che nelle loro s. utilizzano le parole-rima dantesche, rispettivamente, ombra, colle, ed erba, ombra (colli anche in una s. di Giusto de' Conti). Ancora, nel Cinquecento, una s. di G.G. Trissino ha, fra le parole-rima, colli, donna, una di A. Firenzuola, colli, ombra, una, di più evidente sapore dantesco, di Chiara Matraini, esibisce colli, ombra, erba, verde.
Non a caso la più bella pagina forse sul ritmo della s. è stata scritta dal grande teorico del petrarchismo cinquecentesco, il Bembo, nelle sue Prose della volgar lingua: " Ritorno a dirvi che più grave suono rendono le rime più lontane; per che gravissimo suono da questa parte è quello delle sestine, in quanto maravigliosa gravità porge il dimorare a sentirsi che alle rime si risponda primieramente la legge e la natura della canzone variandonegli: senza che il fornire le rime sempre con quelle medesime voci genera dignità e grandezza; quasi pensiamo, sdegnando la mendicazione delle rime in altre voci, con quelle voci, che una volta prese si sono per noi, alteramente perseverando lo incominciato lavoro menare a fine. Le quali parti di gravità, perché fossero con alcuna piacevolezza mescolate, ordinò colui che primieramente a questa maniera di versi diede forma, che dove le stanze si toccano nella fine dell'una et incominciamento dell'altra, la rima fosse vicina in due versi. Ma questa medesima piacevolezza tuttavia è grave, in quanto il riposo che alla fine di ciascuna stanza è richiesto, prima che all'altra si passi, tramette tra la continuata rima alquanto spazio, e men vicina ne la fa essere, che se ella in una stanza medesima si continuasse ".
2.4. La s. cadrà in disuso nel Seicento e nel Settecento, sia pure per diverse ragioni: " La composizione è grave, ma è greve, cioè noiosa sì per la lontananza del rimare, come per la continova e sazievole ripetizione delle sei parole ", T. Stigliani; " E se non altro, gli avverrà quasi sempre di far servire i pensieri alle rime invece di fare, come ragion vorrebbe, il contrario ", L.A. Muratori (le due citazioni in Riesz, pp. 24 e 226 n. 37).
Ancora nella s. Notte di Maggio, in Rime nuove, datata 28-30 aprile 1885, il Carducci, accanto a quattro parole-rima tratte dalle parole-rima delle s. petrarchesche (‛ stelle ', ‛ notte ', ‛ onde ', ‛ luna '), deriverà dalla s. di D. le altre due parole-rima verde, colli; mentre le s. di D'Annunzio e fin quella di Ungaretti ripeteranno moduli e parole-rima direttamente dal Petrarca (ma per tutta la fortuna della s. nella poesia italiana e straniera, vedi specialmente le opere di Jenni e di Riesz).
3. In VE II XIII 12, nella condanna delle tre cose che sconvengono al poeta aulico, in particolare la nimia... rithimi repercussio, D. fa un'eccezione: nisi forte novum aliquid atque intentatum artis hoc sibi praeroget; ut nascentis militiae dies, qui cum nulla praerogativa suam indignatur praeterire diaetam; hoc etenim nos facere nisi sumus ibi, ‛ Amor tu vedi ben che questa donna ' . Con l'intento cioè di cimentarsi in qualche novità d'arte non mai tentata da altri, e di superare la complessità della s., partendo tuttavia da questo schema, col puntare sulla parola-rima, D. inventa il metro della s. doppia.
Si tratta di una vera e propria canzone con stanze su dodici endecasillabi, con piedi e sirma, in ognuna delle quali una parola-rima delle cinque (donna, petra, freddo, luce, tempo) utilizzate in tutte le cinque stanze, viene ripetuta, a turno, per sei volte, due parole-rima per due volte e le altre due una sola volta, sì che la stanza assume lo schema aba, aca, addaee. La progressione si ottiene nelle altre stanze sostituendo l'ultima rima alla prima, la prima alla seconda, la seconda alla terza, la terza alla quarta, la quarta alla quinta. Il congedo di sei endecasillabi ha le cinque parole-rima così distribuite: aeddcb. Per la distribuzione delle cinque parole-rima nelle cinque stanze, come espressione anche di un significato coerente, e per altri problemi, v. AMOR, TU VEDI BEN CHE QUESTA DONNA.
Si osserva che potrebb'essere più proprio denominare Amor, tu vedi ben che questa donna s. rinterzata, dato anche che l'appellativo di s. doppia si usa pure (e più giustamente) per Mia benigna fortuna e 'l viver lieto del Petrarca.
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