Abstract
Lo scritto traccia le linee essenziali della disciplina degli intermediari del mercato mobiliare (soggetti e attività), soffermandosi sulla stretta compenetrazione tra regole di condotta e regole organizzative applicabili nella prestazione dei servizi e delle attività d'investimento.
I servizi e le attività d’investimento sono menzionati (ma non sempre definiti) nell’art. 1, co. 5, del d.lgs. 24.8.1998, n. 58 (di seguito ‘t.u.f.’). Attraverso l’esercizio di queste attività si consente a chi (‘investitori’) dispone di risorse patrimoniali in surplus (‘risparmio’) di allocare le stesse presso soggetti strutturalmente in deficit ('emittenti'), restando sul risparmiatore il rischio dell’investimento finanziario da intendersi come impiego di capitali, aspettativa di un rendimento e assunzione di un rischio.
Per questa ragione (impiego di un bene particolarmente tutelato come il risparmio) la prestazione dei servizi e delle attività d’investimento è riservata a soggetti qualificati dotati di precisi requisiti (‘soggetti abilitati’ o ‘intermediari’), i quali devono essere autorizzati dalle autorità di vigilanza (Consob e Banca d’Italia). Il fatto che gli intermediari si interpongano, nei modi che saranno descritti, nell’allocazione del risparmio, permettendo l’acquisizione di strumenti finanziari da parte degli investitori e la circostanza che questi ultimi esibiscano significative asimmetrie informative rispetto a chi quei prodotti (di difficile conoscibilità) colloca o emette, hanno fatto sì, sin dagli albori del diritto dell'intermediazione mobiliare, che la disciplina dei rapporti tra investitori e intermediari non fosse "abbandonata" alle sole regole di diritto comune dei contratti e delle obbligazioni (Costi, R., Il mercato mobiliare, VIII ed., Torino, 2013, 5 ss.), ma venisse altresì regolata da una normativa ad hoc.
È stata così dettata – anche in attuazione della normativa comunitaria nel tempo intervenuta (da ultimo le direttive cc.dd. MiFID) – una speciale disciplina di tutela degli investitori. Questa impone ai soggetti abilitati il rispetto di specifiche regole tanto sul piano dei loro comportamenti e della loro stabilità patrimoniale quanto su quello della loro organizzazione statica (corporate ed internal governance) e dinamica (procedure); il rispetto delle regole di condotta nella relazione con il cliente è normalmente affidato a presìdi organizzativi e procedure interne idonee a predeterminare il corretto modello comportamentale al quale gli intermediari devono attenersi.
Le medesime ragioni di tutela degli investitori sottopongono gli intermediari ad una costante vigilanza pubblica (informativa, ispettiva, regolamentare e sanzionatoria), affidata, secondo il criterio della competenza per funzioni (e non per soggetti), alla Consob (trasparenza e correttezza dei comportamenti) e alla Banca d’Italia (contenimento del rischio, stabilità patrimoniale e sana e prudente gestione), sia in fase di accesso all’attività sia nel continuo del suo svolgimento (con conseguenze sul piano sanzionatorio, interdittivo e cautelare nel caso di violazione della disciplina di settore).
Gli spazi di autonomia decisionale lasciata agli intermediari – pur ampi e riconosciuti dalla tecnica della c.d. better regulation, qui coniugata secondo l’impostazione tipica della principles based regulation – sono in realtà limitati dalla stessa regolamentazione, sovente troppo attenta agli aspetti di dettaglio, nonché dai controlli pubblicistici ex ante ed ex post (anche nella forma della moral suasion), attraverso i quali le autorità di vigilanza condizionano l'operare dei privati. Si ha, pertanto, l’impressione che in questo settore l’autonomia privata (negoziale ed organizzativa) sia in funzione dell’esercizio della vigilanza pubblica.
L’esercizio professionale nei confronti del pubblico dei servizi d’investimento non è libero ma è riservato alle imprese d’investimento (sim, imprese d’investimento comunitarie ed extracomunitarie), alle banche e ad altri intermediari (art. 18 tuf). La professionalità è da intendersi, secondo l’interpretazione dell’art. 2082 c.c., come svolgimento abituale, sistematico e ricorrente dell’attività (d.m. 26.6.1997, n. 329). Lo stesso d.m. cit. non fornisce in positivo una nozione di pubblico, limitandosi ad escludere che siano esercitati nei confronti del pubblico i servizi prestati esclusivamente nei confronti delle società del proprio gruppo di appartenenza. La Consob ha riconosciuto la sussistenza del pubblico non solo ove l’attività sia rivolta nei confronti di «una pluralità indifferenziata di soggetti», ma anche «quando … è indirizzata ad una pluralità di persone che sono individuabili soltanto per effetto della loro meraappartenenza ad una determinata categoria di soggetti» (tra le tante comunicazione Consob 13.1.1994, n. 94000259, in Boll. Consob, 1994, I, 79). Nella nozione di pubblico, ai fini della disciplina sui servizi d’investimento, rientrano anche i servizi prestati a favore di clienti professionali; in questi casi non vi è un’esclusione della riserva di legge ma soltanto una disapplicazione parziale delle regole di comportamento.
L’autorizzazione all’esercizio dei servizi d’investimento è data dalla Consob, sentita la Banca d’Italia, all’esito di un procedimento a discrezionalità vincolata, i cui termini e modalità sono specificati nel Reg. Consob Intermediari n. 16190 del 29.10.2007 (di seguito RI) (art. 7 ss.), finalizzato alla verifica del possesso, in capo al soggetto richiedente, dei requisiti di forma giuridica, patrimoniali e organizzativi prescritti dall’art. 19 t.u.f. I cc.dd. esponenti aziendali e i partecipanti al capitale sono sottoposti ad uno screening quanto al possesso dei requisiti di professionalità, onorabilità e indipendenza (i primi), dei soli requisiti di onorabilità (i secondi). Le banche e gli intermediari finanziari ex art. 107 tub sono invece autorizzati direttamente dalla Banca d’Italia (art. 19, co. 4, t.u.b.).
Non tutti possono fare tutto. Solo le sim e le banche sono soggetti abilitabili all’esercizio di tutti i servizi d’investimento; gli altri soggetti possono essere autorizzati ad espletare solo alcuni servizi (per gli intermediari ex art. 107, v. art. 18, co. 3; per le società di gestione del risparmio, v. art. 33, co. 2; per gli agenti di cambio, v. art. 201, co. 7; per Poste Italiane s.p.a., v. art. 12 del d.P.r. n. 144/2001). La riserva di legge all’esercizio del servizio di consulenza in materia d’investimenti trova una particolare deroga negli artt. 18-bis e ter t.u.f., che consentono ai consulenti persone fisiche e alle s.r.l. e alle s.p.a. di consulenza finanziaria, in possesso dei requisiti indicati dalla legge, di prestare la suddetta attività di consulenza. L’operatività transfrontaliera delle sim e delle banche italiane è regolata dagli artt. 26 e 29 t.u.f.; l’operatività delle imprese comunitarie, extracomunitarie e delle banche estere in Italia è disciplinata, rispettivamente, dagli artt. 27, 28 e 29 t.u.f.
Tra i servizi menzionati nell’art. 1, co. 5, t.u.f. solo quelli di cui alle lett. a), d), f) e g) vengono espressamente definiti dal legislatore. La nozione degli altri è invece affidata alla prassi, agli orientamenti delle autorità di vigilanza e della giurisprudenza teorica e pratica. L’elenco dei servizi e delle attività (nel contesto normativo MiFID si parla non solo di ‘servizi’ ma anche di ‘attività’, alludendosi al fatto che nelle attività non c’è una relazione diretta con il cliente, pur essendo l’attività sempre potenzialmente indirizzata al pubblico) deve considerarsi potenzialmente aperto ai sensi dell’art. 18, co. 5, t.u.f., che lascia al ministero dell’economia la facoltà di individuarne di nuovi.
I servizi hanno necessariamente ad oggetto strumenti finanziari (cfr. art. 1, co. 2, t.u.f. e de Mari, M. - Spada, L., Intermediari e promotori finanziari, Bologna, 2004, 42): pertanto esulano dalla nozione di servizi d’investimento (e dall’applicazione della relativa disciplina) quelli che, pur riconducibili a questi ultimi per identità della fattispecie, ne differiscano sotto il profilo oggettivo, avendo ad oggetto prodotti finanziari diversi dagli strumenti finanziari ovvero servizi d’investimento (salvo che per l’ipotesi di offerta fuori sede ex art. 30, co. 4-5, t.u.f.; la gestione di portafogli può avere ad oggetto non solo strumenti finanziari ma anche altri beni e attività e ovviamente danaro, ancorché i beni prevalenti debbano essere strumenti finanziari: Annunziata, F., La disciplina del mercato mobiliare, VI ed., Torino, 2012, 97).
Le regole di comportamento si applicano invece, pressoché integralmente alla distribuzione di prodotti finanziari emessi da banche e da imprese di assicurazione (art. 25 bis t.u.f., artt. 83 ss. RI; v. altresì la nuova direttiva MiFID 2 n. 2014/65/UE del 15.5.2014, cons. 45, che riconduce al servizio di esecuzione di ordini per conto dei clienti l’attività di distribuzione delle banche, nel mercato primario, di strumenti finanziari emessi dalla banche medesime). L’esecuzione dei servizi d’investimento può essere affidata a terzi (cd. esternalizzazione) in possesso dei requisiti prescritti, ferma restando la piena responsabilità dell’intermediario esternalizzatore (artt. 19-22 del Reg. congiunto Consob-Banca d’Italia del 29.10.2007, di seguito ‘RC’).
Nonostante la ricordata funzione economica dei servizi di allocare risparmio in investimenti finanziari, questi presentano tra loro tratti differenti e specialistici. Si distinguono servizi nei quali il ruolo dell’intermediario è più attivo e discrezionale/negoziale (consulenza e gestione) e servizi in cui è invece più forte il ruolo passivo (ricezione e trasmissione ordini; esecuzione di ordine per conto dei clienti) o quello meramente esecutivo (si pensi alla cd. execution only dei predetti servizi: art. 43 RI). In funzione dei servizi prestati e della tipologia di clienti la disciplina si applica o disapplica gradualmente. La prestazione dei servizi d’investimento forma oggetto delle obbligazioni che danno vita ai singoli contratti d’investimento.
Il diritto dei mercati finanziari tuttavia guarda all'attività più che al contratto: per questo è dettata una pervasiva disciplina delle regole di comportamento e di organizzazione dell’intermediario e solo poche e non correlate disposizioni in materia di contratti. Non sono regolati i singoli contratti (salvo che il contratto di gestione di portafogli: art. 38 RI), né esiste un tipo contrattuale autonomo denominato contratto d’investimento. Può, tutt’al più, farsi riferimento al contratto d’investimento come ad una categoria concettuale trasversale comprensiva di tutti i singoli contratti d’investimento (Gabrielli, E. - Lener, R., Mercati, strumenti finanziari e contratti d’investimento dopo la MiFID, in Gabrielli E. - Lener R., a cura di, I contratti del mercato finanziario, II ed., I, Torino, 2011, 37 ss.). Il legislatore detta scarne ed eterogenee regole particolari per i contratti relativi alla prestazione dei servizi d’investimento (art. 23 tuf). Anzitutto stabilisce che i contratti d’investimento, tranne quello di consulenza in materia d’investimenti, devono essere redatti per iscritto a pena di nullità e che un esemplare dev’essere consegnato al cliente.
L’esenzione dalla forma scritta per il contratto di consulenza può spiegarsi perché con tale negozio si forniscono solo raccomandazioni finanziarie personalizzate, senza la necessaria traduzione dei consigli ricevuti in investimenti finanziari (de Mari, M., La “nuova” consulenza in materia d’investimenti tra fattispecie e disciplina, in de Mari, M., a cura di, La nuova disciplina degli intermediari dopo le direttive MiFID, Padova, 2009, 191 ss.). L’art. 37, co. 2, lett. c), RI lascia all’autonomia contrattuale la previsione della forma degli ordini attuativi del contratto (non necessariamente scritta, v. anche l’art. 57 RI che si riferisce ad ordini – non scritti – impartiti telefonicamente).
Questa disposizione mostra indirettamente che il contratto d’investimento è strutturalmente un contratto-quadro, seguito da uno o più ordini d’investimento impartiti dal cliente sulla base di esso (per Maggiolo, M., Servizi e attività di investimento, in Tratt. Cicu-Messineo-Mengoni-Schlesinger, Milano, 2012, 485 s., però, lo schema del contratto-quadro non si attaglierebbe al collocamento; in senso difforme Cass. 3.6.2013 n. 13905). Lo stesso art. 37, co. 2, fissa poi il contenuto minimo del contratto tra intermediario e investitori (per il contratto di gestione v. l’art. 38 cit. RI). Particolare enfasi è data alla determinazione del corrispettivo dell’intermediario: è nulla infatti ogni pattuizione di rinvio agli usi per la determinazione del corrispettivo (art. 23, co. 2, t.u.f.); la remunerazione deve essere determinata precisamente o comunque attraverso l’indicazione dei criteri oggettivi che ne consentono la determinazione (artt. 32, 37, co. 2, lett. f, RI) e gli incentivi ricevuti dagli intermediari e corrisposti da soggetti diversi dai clienti sono legittimi solo a certe condizioni (infra art. 52 RI).
Un primo insieme di servizi si caratterizza per il dare esecuzione alle disposizioni impartite dagli investitori.
La ricezione e trasmissione di ordini consiste nell’attività di raccolta e successiva trasmissione degli ordini ad altro intermediario abilitato alla negoziazione degli stessi su un mercato nel quale l’intermediario che riceve l’ordine non è normalmente autorizzato. In detto servizio rientra (senza che sia necessaria un’autorizzazione autonoma) anche l’attività consistente nel mettere in contatto due o più investitori, rendendo così possibile la conclusione di un’operazione tra loro (mediazione) (art. 1, co. 5-sexies, t.u.f.).
Per negoziazione per conto proprio si intende «l’attività di acquisto e vendita di strumenti finanziari, in contropartita diretta e in relazione ad ordini di clienti, nonché l’attività di market maker» (art. 1, co. 5-bis, t.u.f.). L’operazione di acquisto e vendita di strumenti finanziari (operazioni che avvengono dunque sul mercato cd. secondario) ha luogo in contropartita diretta, ossia incide sul patrimonio proprio dell’intermediario, ma sempre sulla base di ordini provenienti dai clienti (per questo motivo il servizio in discussione postula l’autorizzazione alla negoziazione per conto proprio e quella all’esecuzione di ordini dei clienti). Mancando tale ultimo elemento, si hanno mere operazioni sul patrimonio proprio del negoziatore esulandosi dal servizio in esame. Anche in assenza di ordini diretti della clientela, sono qualificati negoziatori per conto proprio i market makers, ossia «i soggetti che si propongono sui mercati regolamentati e sui sistemi multilaterali di negoziazione, su base continua, come disposti a negoziare in contropartita diretta acquistando e vendendo strumenti finanziari ai prezzi da esso definiti» (art. 1, co. 5-quater, t.u.f.). L’importante funzione, assolta dai market makers, di dare liquidità ai mercati giustifica la loro qualificazione normativa. Una particolare modalità di prestazione del servizio di negoziazione per conto proprio è rappresentata dall’internalizzazione sistematica. Questa rappresenta una sede di esecuzione degli ordini (trading venue) alternativa rispetto ai mercati regolamentati e ai sistemi multilaterali di negoziazione, in cui «un soggetto [l’internalizzatore sistematico] in modo organizzato, frequente e sistematico negozia per conto proprio eseguendo gli ordini del cliente al di fuori di un mercato regolamentato o di un sistema multilaterale di negoziazione» (art. 1, co. 5-ter, t.u.f.). Nella negoziazione per conto proprio l’intermediario è remunerato mediante il guadagno realizzato sulla differenza tra prezzi di vendita e prezzi di acquisto degli strumenti finanziari.
Il servizio di esecuzione di ordini per conto dei clienti (già negoziazione per conto terzi) non trova una specifica definizione nel tuf. Questa è l’attività più tipica dell’intermediario, che si interpone nella compravendita di strumenti finanziari e consiste nella conclusione di accordi di acquisto o di vendita (e quindi nella ricerca delle relative controparti) di uno o più strumenti finanziari per conto dei clienti. Qui l’intermediario è remunerato mediante una commissione corrispostagli dall’investitore.
Secondo la definizione fornita dalla Consob, il collocamento «tipicamente si caratterizza per essere un accordo tra l'emittente (o l'offerente) e l'intermediario collocatore, finalizzato all'offerta al pubblico e al conseguente collocamento presso la clientela del collocatore degli strumenti finanziari emessi, a condizione di prezzo e (frequentemente) di tempo predeterminate» (comunicazione 9.7.1997 n. DAL/97006042, in www.consob.it). Il collocamento non implica necessariamente l’applicazione della disciplina dell’offerta al pubblico, ove manchino i presupposti di applicabilità di quest’ultima (artt. 1, co. 1, lett. t) e 100 t.u.f.). Dopo il recepimento della MiFID si è reso evidente che il collocamento non solo presuppone una relazione tra emittente e collocatore, ma instaura altresì un rapporto contrattuale tra intermediario-distributore e singoli investitori (art. 37 RI). In passato (comunicazione Consob del 21.6.2001 n. DIN/1049452, in www.consob.it) non era obbligatoriamente richiesto (come oggi) un contratto scritto di collocamento tra intermediario e cliente, né era prescritto che la remunerazione del collocatore dovesse avvenire, salve le specifiche eccezioni previste in materia di inducements, ad opera dell’investitore medesimo (art. 52 RI). Oggi, pur non escludendosi che la prestazione richiesta al collocatore possa esaurirsi nella vendita una tantum dello strumento finanziario, è possibile inquadrare il collocamento in una cornice negoziale che lega l’intermediario al cliente in un rapporto di assistenza professionale continuativa (c.d. assistenza post vendita). L’interpretazione della Consob è nel senso che «il servizio di collocamento nella generalità delle ipotesi s’inquadra, di fatto, in un rapporto di durata tra il prestatore di servizio e il cliente» (Consob, Esiti alla consultazione 30 ottobre 2007, Nuovo Regolamento intermediari, Prime linee di indirizzo, 2007, 59-60, in www.consob.it).
Sono previste due distinte modalità di collocamento, autonome ai fini dell’autorizzazione: a) sottoscrizione e/o collocamento con assunzione a fermo ovvero con assunzione di garanzia nei confronti dell’emittente; b) collocamento senza assunzione a fermo né assunzione di garanzia nei confronti dell’emittente. La promozione e il collocamento (presso il pubblico) di strumenti, di servizi d'investimento e di prodotti diversi dagli strumenti e dai servizi (individuati, questi ultimi, da Consob sentita la Banca d'Italia), quando svolte in un luogo diverso dalla sede principale o dalle dipendenze dell'impresa emittente o intermediaria, integrano, la fattispecie della offerta fuori sede (art. 30 t.u.f.). Il cd. effetto sorpresa, ingenerato dall'offerta in luoghi non propriamente deputati allo svolgimento di siffatte transazioni, trova i suoi contrappesi nell'obbligo, per l'intermediario, di avvalersi, a tutela degli investitori, di soggetti particolarmente qualificati e appositamente abilitati, denominati promotori finanziari (art. 31 t.u.f.) e nel cd. diritto di ripensamento (rectius, diritto di recesso), da esercitarsi, da parte degli investitori, nei sette giorni successivi alla sottoscrizione del contratto (o dell'ordine) (art. 30, co. 6, t.u.f.).
Dopo annose dispute dottrinarie e giurisprudenziali relative all'estensione o meno di quest'ultima regola a tutti i contratti d'investimento, culminate nella cit. sentenza della Cass., S.U., 3.6.2013, n. 13905 (in cui la portata estensiva è stata massima), il legislatore ha ora chiarito che il diritto di recesso è dato soltanto con riguardo ai contratti di collocamento, di gestione di portafogli e di negoziazione per conto proprio conclusi fuori sede (nuovo testo art. 30, co. 6). Non è invece giustificata tale tutela (tanto che la fattispecie non costituisce offerta fuori sede), quando l'offerta è effettuata nei confronti dei clienti professionali e quando i propri strumenti finanziari sono offerti ai propri esponenti aziendali, dipendenti, presso le rispettive sedi dell'emittente, della sua controllante o delle sue controllate (art. 30, co. 2, t.u.f.).
Non costituisce un’ipotesi di offerta fuori sede la promozione e il collocamento a distanza di servizi d’investimento e strumenti finanziari, ossia quell’offerta a distanza che si realizza attraverso tecniche di contatto con la clientela, diverse dalla pubblicità, che non comportano la presenza fisica e simultanea del cliente e del soggetto offerente o di un suo incaricato (art. 32 t.u.f.). Non è più previsto, in tali casi, come in passato, l’obbligo di avvalersi di promotori finanziari, né è dato il cd. ius poenitendi se il prezzo degli strumenti dipende da fluttuazioni del mercato finanziario (art. 67duodecies, co. 5, lett. a, c.cons.).
Per ‘gestione di sistemi multilaterali di negoziazione’ si intende «la gestione di sistemi multilaterali che consentono l’incontro al loro interno ed in base a regole non discrezionali, di interessi multipli di acquisto e di vendita di terzi relativi a strumenti finanziari, in modo da dare luogo a contratti» (art. 1, co. 5-octies, t.u.f.). L’inserimento di quest’attività nell’elenco dei servizi d’investimento segnala l’avvicinamento, voluto dalla MiFID, tra la disciplina dei mercati e quella degli intermediari. I sistemi multilaterali di negoziazione sono, infatti, una trading venue alternativa ai mercati regolamentati e agli internalizzatori sistematici. Testimonianza ulteriore di ciò è che le società di gestione dei mercati regolamentati possono essere autorizzate a svolgere questo servizio (art. 18, co. 3-bis, t.u.f.) e che ai rapporti tra gli intermediari-gestori e i partecipanti ai sistemi multilaterali non si applicano le regole di condotta (art. 59 RI), ma le disposizioni di trasparenza previste nel Reg. Consob mercati n. 16191/2007.
Non costituisce propriamente un servizio d’investimento (pur presentando in realtà i tratti della ricezione e trasmissione di ordini e talora del collocamento senza assunzione a fermo) la gestione di portali per la raccolta di capitali per le start-up innovative, ossia la gestione di «piattaforme on line che abbiano come finalità esclusiva la facilitazione della raccolta di capitali di rischio da parte delle start-up innovative, comprese le start-up a vocazione sociale» (artt. 1, co. 5-novies e 50-quinquies tuf; Reg. Consob n. 18592/2013; comunicazione Consob n. 0066128 dell’1.8.2013). L’attività di gestione dei portali è riservata a banche e imprese d’investimento autorizzate alla prestazione dei "relativi" servizi d’investimento (gestori cd. di diritto) oltreché ad altri soggetti iscritti in apposito registro previa autorizzazione della Consob (art. 50-quinquies t.u.f.). L'offerta al pubblico, condotta attraverso piattaforme on line, non integra la figura dell’offerta al pubblico ex art. 93-bis ss. t.u.f., a condizione che sia svolta esclusivamente tramite portali on line e che il corrispettivo totale dell’offerta sia inferiore a quello determinato dalla Consob ex art. 34-ter, co. 1, lett. c) del Reg. emittenti n. 11971/1999.
Tra i servizi d’investimento discrezionali e a maggiore valore aggiunto vi sono la consulenza in materia d’investimenti e la gestione di portafogli. La consulenza, definita dall’art. 1, co. 5-septies, t.u.f., è «la prestazione di raccomandazioni personalizzate ad un cliente, dietro sua richiesta o per iniziativa del prestatore del servizio, riguardo ad una o più operazioni relative ad un determinato strumento finanziario quando è presentata come adatta per il cliente o è basata sulla considerazione delle caratteristiche del cliente. Una raccomandazione non è personalizzata se viene diffusa al pubblico mediante canali di distribuzione». La consulenza deve essere specifica (e non generica), avere, cioè, ad oggetto un’operazione di acquisto, vendita, mantenimento, scambio, riscatto e detenzione di uno specifico strumento finanziario o di un portafogli di strumenti finanziari ovvero anche un’operazione di assunzione di garanzie nei confronti dell’emittente di tale strumento. La raccomandazione deve essere personalizzata e presentata come adatta per il cliente o basata sulla considerazione delle caratteristiche del cliente. Allo stato non è prescritto, né in capo al consulente-intermediario né come caratteristica del servizio, il requisito dell’indipendenza rispetto agli investimenti consigliati, neutralità che è oggi assicurata attraverso la tecnica del conflitto d’interessi (diversamente la cit. direttiva MiFID 2 ipotizza anche una forma di consulenza indipendente basata su un numero sufficientemente ampio e diversificato di strumenti e sul divieto di incentivi pagati da terzi diversi dai clienti: art. 24, co. 4 e 7). L’elemento dell’indipendenza è invece considerato, ex artt. 18-bis e 18-ter t.u.f., indefettibile quando il servizio è offerto da consulenti persone fisiche e dalle società di consulenza finanziaria (Reg. Consob n. 17130/2010).
Nel servizio di gestione di portafogli l’intermediario riceve dal cliente un mandato a gestire, su base discrezionale e individualizzata, un portafogli d’investimento che include uno o più strumenti finanziari (o anche altri beni e attività diversi dagli strumenti finanziari o denaro, a condizione che in prevalenza vi siano strumenti finanziari) (art. 1, co. 5-quinquies, t.u.f.). Il gestore opera nell’interesse del singolo investitore effettuando discrezionalmente le scelte di gestione adeguate al profilo finanziario ed agli obiettivi del cliente; quest’ultimo può comunque impartire al gestore istruzioni vincolanti in ordine alle operazioni da compiere (art. 24, co. 1, lett. a, t.u.f.), nonostante che nella pratica l’investitore scelga una “linea” di gestione, predeterminata dal gestore, comune agli altri investitori che hanno compiuto la medesima scelta. Il contratto di gestione è sicuramente quello, tra i contratti d’investimento, che riceve una più dettagliata disciplina non solo da parte del tuf (art. 24) ma anche a livello regolamentare (art. 38 RI).
Dai servizi d’investimento principali vanno distinti gli eterogenei servizi accessori indicati nell’art. 1, co. 6, tuf. Questi non costituiscono attività riservate e possono essere esercitati liberamente anche da soggetti non abilitati. L’accessorietà non va intesa nel senso di necessaria strumentalità del servizio accessorio rispetto a quello principale. Salvo che per l’intermediazione in cambi e la concessione di finanziamenti (funzionalmente collegate alla prestazione di servizi d’investimento), il servizio accessorio può essere esercitato indipendentemente dalla prestazione di un servizio d’investimento (arg. ex art. 18, co. 4, t.u.f.). L’art. 21 t.u.f. e altre disposizioni del RI stabiliscono che le regole di comportamento si applicano agli intermediari anche nella prestazione di servizi accessori, e ciò in virtù «della superiore capacità di attrazione del pubblico di cui questi godono in ragione del proprio status di operatori vigilati in regime di riserva di attività» (comunicazione Consob n. DI/99038880 del 14.5.1999, in www.consob.it). Si applicano invece le regole di diritto comune quando i servizi accessori sono prestati da soggetti diversi dagli intermediari.
Non sono invece precisamente individuate le ‘altre attività finanziarie’, nonché le attività connesse o strumentali che le Sim possono prestare (professionalmente e nei confronti del pubblico), salve le riserve di attività previste dalla legge, ai sensi dell'art. 18, co. 4, t.u.f. Per attività finanziarie, mancando una definizione normativa, possono intendersi le attività dirette a porre in essere serie di operazioni che tra le parti inizino e terminino con il danaro, indipendentemente dalla specifica natura giuridica, e connessione, dei singoli atti o negozi che possono giuridicamente puntualizzare tali operazioni (Ferro-Luzzi, P., Lezioni di diritto bancario, I, Torino, 2004, 122).
L’art. 21 t.u.f. prescrive una serie di criteri generali (di comportamento e organizzativi) ai quali gli intermediari devono attenersi nello svolgimento delle loro attività.
In particolare devono: a) acquisire le informazioni necessarie dai clienti ('know-your-customer rule') e operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati; b) utilizzare comunicazioni pubblicitarie e promozionali corrette, chiare e non fuorvianti; c) disporre, all’interno della propria organizzazione, di risorse e procedure (e in particolare di un sistema di controllo interno), idonee ad assicurare l’efficiente svolgimento dei servizi e delle attività; d) identificare e gestire i conflitti d’interesse che potrebbero insorgere con il cliente o fra i clienti.
Sono altresì da richiamarsi le regole di diligenza, correttezza e trasparenza (art. 21, lett. a) che non si esauriscono nel rapporto obbligatorio con il cliente (il cui interesse, l’intermediario, deve «servire al meglio», andando oltre i normali doveri di protezione dello scambio sinallagmatico anche a scapito dei propri interessi), ma che sono anche funzionali alla realizzazione di interessi più generali, come quello di non tenere comportamenti in contrasto con «l’integrità dei mercati». Questi principi trovano poi specifica attuazione nelle disposizioni regolamentari. Vi sono, infatti, dettagliate regole in materia di obblighi informativi (informazioni fornite/ricevute dalla clientela; adeguatezza, appropriatezza, execution only), di best execution, di incentivi, di conflitti d’interesse.
Tra le regole di organizzazione vi sono quelle che possono dirsi di organizzazione statica (corporate e internal governance) che stabiliscono, a livello di organi sociali e di funzioni aziendali di controllo, che cosa l’impresa deve realizzare e chi deve realizzarlo e quelle attinenti all’organizzazione dinamica che, attraverso la definizione di procedure, predeterminano come le attività dell’intermediario devono essere compiute. È importante sottolineare come la prestazione dell’intermediario si qualifichi non soltanto per il comportamento finale costituito dalla sua attività con il cliente, ma anche per il modo in cui all’interno dell’impresa la prestazione è stata organizzata, predisposta e procedimentalizzata (supra lett. c). La regola di comportamento a valle deve, in altri termini, essere anticipata a monte da presidi organizzativi che costituiscono il presupposto necessario per il corretto adempimento delle regole di condotta. Giova altresì sottolineare che la relazione tra intermediario e cliente (qualsivoglia sia il servizio di investimento interessato) è configurata dalla teoria economica quale relazione di agenzia. Il cliente, in qualità di mandante (principal), sostiene un costo (il prezzo del servizio) quale corrispettivo dell’attività professionale prestata dall’intermediario (agent) in possesso di risorse e competenze specialistiche (cfr. Consob, Prime linee di indirizzo in tema di inducements, 4, cit.).
Le regole di comportamento hanno, tra l’altro, la funzione di contenere i predetti costi di agenzia. Queste si applicano in funzione della tipologia di clienti (clienti al dettaglio, clienti professionali e controparti qualificate, ai quali deve essere comunicata la loro classificazione: all. n. 3 e art. 58 RI) e in ragione del servizio prestato. Ai clienti al dettaglio – i più bisognosi di tutela in quanto meno competenti – si applicano integralmente. Nei confronti dei clienti professionali vi è un’applicazione mirata: si applica in maniera meno penetrante la regola di adeguatezza (art. 40, co. 2 e 3, RI), si disapplica quella di appropriatezza, restano ferme le disposizioni in materia di best execution e di incentivi. Nei riguardi delle controparti qualificate vi è una disapplicazione, pressoché totale, delle regole di condotta (art. 58 RI), riespandendosi il diritto comune dei contratti e delle obbligazioni (Perrone, A., La classificazione della clientela, in D’Apice, R., a cura di, L’attuazione della MiFID in Italia, Bologna, 2010, 515). Sotto tale ultimo profilo deve registrarsi la diversa tendenza della MiFID 2che suggerisce di calibrare meglio l’applicazione delle regole informative anche nel caso di controparti qualificate (art. 30).
La disciplina del conflitto d’interesse si applica a qualsiasi tipologia di cliente poiché va oltre la tutela del singolo cliente–mandante e non è legata alla competenza e all’esperienza finanziaria dell’investitore. I benefici della disciplina spiegano i loro effetti sulla generale efficienza del mercato. L’intermediario ha precisi obblighi informativi nei confronti dei clienti: si tratta di doveri specificati nel RI (informazioni sull’intermediario e i suoi servizi, sugli strumenti finanziari, sui costi e sugli oneri) e finalizzati a rendere il cliente consapevole circa l’investimento che si accinge ad effettuare. Le informazioni devono essere corrette, chiare e non fuorvianti e di contenuto specifico (artt. 27-36).
La particolarità del rapporto d’investimento sta tuttavia nel fatto che l’intermediario non si può limitare a dare le informazioni, ma deve altresì acquisire le informazioni dal cliente relative al suo profilo finanziario, effettuando, in modo non opportunistico, la cd. 'profilatura del cliente' (art. 21, co. 1, lett. b, t.u.f.). Questa è funzionale, a sua volta, all’effettuazione, da parte dell’intermediario, della valutazione di appropriatezza ovvero a quella di adeguatezza (cd. suitability). L’appropriatezza è richiesta in tutti i servizi d’investimento diversi dalla consulenza e dalla gestione; l’adeguatezza nella prestazione di questi ultimi due. La maggiore discrezionalità dell’intermediario consulente o gestore e il maggiore valore aggiunto fornito al cliente impongono un controllo di ulteriori fattori rispetto a quelli richiesti nell’esercizio di servizi esecutivi. Nella valutazione di appropriatezza l’intermediario valuta la conoscenza edesperienza del cliente nel settore d’investimento rilevante per il tipo di strumento o servizio, prendendo in considerazione: i tipi di servizi, le operazioni e gli strumenti finanziari con i quali il cliente ha dimestichezza; la natura, il volume e la frequenza delle operazioni realizzate; l’istruzione e la professione del cliente (artt. 41-42 RI).
La valutazione di adeguatezza (artt. 39-40 RI; su cui v. anche Documento ESMA n. 2012/387 del 25.6.2012, Linee Guida ESMA in materia di adeguatezza, recepito con comunicazione Consob n. 12084516 del 25.10.2012, entrambe in www.consob.it) presuppone altresì il vaglio della situazione finanziaria (fonte e consistenza del reddito, patrimonio complessivo e impegni finanziari) e degli obiettivi d’investimento del cliente (orizzonte temporale, propensione al rischio e finalità dell’investimento). Il rifiuto da parte dell’investitore di fornire queste informazioni implica l’obbligo, per l’intermediario, di astenersi dal prestare i servizi di consulenza e gestione (art. 39, co. 6, RI). L’operazione reputata inadeguata non può parimenti, diversamente da quanto avveniva in passato sulla base di ordini impartiti per iscritto, essere eseguita (Maggiolo, M., Servizi e attività d’investimento, cit., 389; Sartori, F., Informazione economica e responsabilità civile, Padova, 2011, 55). Protezione, quest’ultima, particolarmente forte, che talvolta ha portato a pratiche distorsive tese – opinabilmente (trattandosi di operazioni pur sempre inadeguate) – a ricondurre il servizio prestato «all’iniziativa del cliente» ex art. 43, co. 1, lett. b, RI (delibere Consob n. 17077 del 25.11.2009 e n. 18446 del 23.1.2013, in www.consob.it). Ove invece il rifiuto impedisca di compiere la valutazione di appropriatezza, l’intermediario non ha l’obbligo di astenersi dal prestare il servizio esecutivo, ma è solo obbligato ad informare il cliente che tale rifiuto gli impedirà di effettuare la valutazione di appropriatezza. Adempiuto tale obbligo, se richiesto, potrà prestare il servizio (art. 42, co. 4, RI). Analogamente, nel caso in cui il test di appropriatezza dia esito negativo: informato il cliente e richiesto dell’esecuzione, l’intermediario potrà procedere (art. 42, co. 3, RI). Il compito assegnato all’intermediario non è più tanto e solo quello di rendere consapevole l’investitore nelle sue scelte d’investimento secondo la filosofia classica della trasparenza (messa ormai seriamente in discussione anche dagli studi di finanza comportamentale), ma diventa, secondo un approccio paternalistico, quello di guida e assistenza del cliente nella verifica dell’effettiva coerenza tra profilo dell’investitore ed investimento realizzato, con una particolare accentuazione dei presidi organizzativi atti ad evitare, già ex ante, modalità di commercializzazione di prodotti inappropriati o inadeguati.
L’intermediario non è invece tenuto ad effettuare alcun controllo di adeguatezza ovvero di appropriatezza (ma solo a fornire informazioni), se, nella prestazione dei servizi di esecuzione di ordini per conto dei clienti o di ricezione e trasmissione ordini (in modalità, appunto, execution only), sussistono le condizioni dettate dagli artt. 43-44 RI.
Una così rigida distinzione tra valutazione di adeguatezza e di appropriatezza trova, tuttavia, una forte attenuazione negli orientamenti della Consob. Questa, infatti, ha osservato che nei servizi esecutivi è insito e concreto il rischio che l’intermediario presti anche attività di consulenza (cd. abbinamento sistematico) (Consob, Prime Linee di indirizzo in tema di consulenza in materia di investimenti, cit.). Il riferito orientamento, ripreso anche nella comunicazione Consob n. 9019104 del 2.3.2009 «in materia di distribuzione di prodotti finanziari illiquidi», sancisce una sorta di presunzione di abbinamento della consulenza ai servizi esecutivi, quanto meno quando l’interazione con la clientela retail sia affidata a personale dell’intermediario e non a sistemi automatizzati, ed in specie in tutti i casi nei quali – nei fatti – l’intermediario ed i suoi collaboratori siano portati a formulare raccomandazioni personalizzate su specifici strumenti finanziari. Attraverso il c.d. abbinamento sistematico tra consulenza e servizi esecutivi la disciplina dell’adeguatezza finisce per assorbire quella dell’appropriatezza (de Mari, M., La “nuova” consulenza in materia d’investimenti tra fattispecie e disciplina, cit., 190). Le Linee Guida ESMA citate rammentano che la valutazione di adeguatezza deve essere garantita anche quando si forniscono raccomandazioni personalizzate a mantenere o a vendere un determinato strumento finanziario.
Il venir meno del principio di concentrazione degli scambi nei mercati regolamentati ha implicato la necessità di individuare la sede di negoziazione nella quale effettuare l’operazione d’investimento. Questa scelta spetta all’investitore, o in mancanza, all’intermediario. Quest’ultimo deve assicurare la best execution, deve, cioè, adottare ogni misura ragionevole per assicurare al cliente il miglior risultato possibile. Deve tener conto del prezzo, dei costi, della rapidità/probabilità di esecuzione, delle dimensioni e natura dell’ordine e di ogni altro fattore pertinente ai fini dell’esecuzione dell’ordine. Nel fare ciò deve tenere conto delle caratteristiche del cliente e del suo ordine e degli strumenti finanziari che ne sono oggetto e delle sedi di esecuzione alle quali l’ordine può essere diretto (artt. 45-47 RI). Questa regola, prevista per il servizio di esecuzione di ordini per conto dei clienti, si applica anche alla ricezione e trasmissione di ordini e alla gestione di portafogli (art. 48, 1 co., RI). L’adempimento della regola di best execution postula l’adozione di una strategia di esecuzione degli ordini (artt. 45, 3 co., e 46 RI). Nell’ipotesi in cui l’intermediario non dia diretta esecuzione agli ordini ma li trasmetta ad altro negoziatore dovrà parimenti elaborare una strategia (non di esecuzione ma) di trasmissione (art. 48, 1 co., RI).
Con la MiFID il tema dei cc.dd. incentivi o inducements(competenze, commissioni o prestazioni non monetarie pagate o ricevute in relazione alla prestazione di un servizio d’investimento o accessorio) non viene più trattato come una tipologia di conflitto d’interessi ma in attuazione dei principi generali di correttezza e diligenza. La rigorosa disciplina sugli incentivi vuole evitare che il ricevimento o il pagamento di inducements alteri il dovere dell’intermediario di servire al meglio il proprio cliente. L’art. 52 del RI ammette gli incentivi pagati da (o a) un cliente (o da una persona che agisce per conto del cliente) (lett. a) o quelli che rendano possibile la prestazione del servizio o siano necessari a tal fine (costi di custodia, competenze legali, ecc.) (lett. c). Gli incentivi pagati o ricevuti da (o a) un terzo sono invece ammessi a condizione che: a) l’esistenza, la natura e l’importo siano comunicati chiaramente al cliente, prima della prestazione del servizio; b) il pagamento degli inducements sia volto ad accrescere la qualità del servizio fornito al cliente e non ostacoli l’adempimento da parte dell’intermediario dell’obbligo di servire al meglio gli interessi del cliente. La percezione, da parte del distributore (collocatore/raccoglitore di ordini), di commissioni retrocesse dalla ‘società prodotto’ (ad esempio SGR che emette quote di Oicr) può considerarsi volta ad aumentare la qualità del servizio fornito al cliente: i) quando il distributore abbina al proprio servizio il servizio di consulenza in materia di investimenti; ii) quando la retrocessione consente al cliente di avere accesso ad un più ampio range di prodotti, con una conseguente prospettiva di open architecture, nonché quando il distributore si impegna nei confronti del cliente ad ampie forme di assistenza in fase specie di post-vendita (Consob, Prime Linee di indirizzo in tema di consulenza in materia di investimenti, cit., 4 ss.). Il divieto di ricevere incentivi è neutralizzato quando le commissioni retrocesse all’intermediario sono girate da quest’ultimo all’investitore.
La regola sui conflitti d’interesse ha una rilevanza centrale perché la molteplicità di attività prestate e gli interessi degli intermediari (anche di gruppo) presentano un alto rischio di non servire al meglio l’interesse del cliente. Il legislatore non detta una regola di astensione per l’intermediario in conflitto d’interessi (con il cliente o in caso di conflitti tra clienti) ma muove dall’idea che il conflitto può risultare ineliminabile e dunque occorre identificarlo, gestirlo e renderlo trasparente. Si devono anzitutto identificare i conflitti attraverso una mappatura degli stessi che tenga conto del “catalogo minimo” di situazioni previsto dall’art. 24 RC. Individuati i conflitti, questi devono essere gestiti, in particolare attraverso idonee misure organizzative. L’intermediario deve infatti elaborare una politica di gestione dei conflitti, in linea con il principio di proporzionalità, che si concreta in una procedura scritta che tiene conto almeno delle situazioni indicate nell’art. 25 RC, dovendo, se necessario, adottare misure e procedure alternative o aggiuntive rispetto a quelle elencate nel cit. art. 25 (co. 5). Sotto tale profilo giova rammentare, come secondo le cit. Linee Guida ESMA in tema di adeguatezza, «l’impresa dovrebbe definire politiche interne e procedure che, tra l’altro, le consentano di garantire che eventuali conflitti d’interesse non influiscano negativamente sulla qualità della valutazione dell’adeguatezza» (punto 60). La valutazione di adeguatezza può quindi considerarsi quale strumento concreto di effettiva “gestione” del conflitto d’interessi.Solo se le misure così adottate non sono sufficienti per assicurare, con ragionevole certezza, che il rischio di nuocere agli interessi del cliente sia evitato, l’intermediario ha l’obbligo di informare il cliente sulla natura e/o sulle fonti del conflitto. La disclosure non può dunque considerarsi sostitutiva del dovere di organizzarsi adeguatamente per la gestione dei conflitti d’interesse, ma rappresenta l’extrema ratio cui fare ricorso quando non ci sia ragionevole certezza che le misure apprestate siano in grado di neutralizzare il conflitto.
È da ricordare che la violazione delle regole di comportamento è sanzionata in via amministrativa (presso le autorità di vigilanza), civile (presso gli organi giurisidizionali) e paragiurisdizionale (presso la Camera di conciliazione ed arbitrato istituita presso la Consob). Ma mentre le forme, i rimedi e le procedure di tutela presso le autorità e la Camera sono precisamente individuate dalla legge (artt. 190 e 195 e 32-ter, t.u.f.), i rimedi civilistici sono stati (e sono tuttora) oggetto di un acceso dibattito che qui non è possibile neppure accennare (per un’accurata ricostruzione: Maggiolo, M., 492). Né il legislatore comunitario né quello nazionale hanno ritenuto di introdurre speciali regole (d’invalidità/risoluzione e/o di responsabilità) per la violazione delle predette regole.
La discussione sui rimedi civilistici è stata ridimensionata, anche se non completamente risolta, dalla Cassazione (19.12.2007, n. 26724), la quale ha statuito che «la violazione dei doveri d’informazione del cliente e del divieto di effettuare operazioni in conflitto di interesse o inadeguate al profilo patrimoniale del cliente … non danno luogo ad una nullità del contratto di intermediazione finanziaria per violazione di norme imperative. Le suddette violazioni, se realizzate nella fase precedente o coincidente con la stipulazione del contratto, danno luogo a responsabilità precontrattuale con conseguente obbligo di risarcimento del danno; se riguardano, invece, le operazioni d’investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del contratto, danno luogo a responsabilità contrattuale per inadempimento (o inesatto adempimento), con la conseguente possibilità di risoluzione del contratto stesso, oltre agli obblighi risarcitori secondo i principi generali in tema d’inadempimento contrattuale».
È infine da segnalare che – se la tutela degli investitori è oggi incentrata sul controllo di trasparenza dei prodotti e di correttezza sui comportamenti, sia pure attraverso un’accentuazione dei profili di tipo organizzativo – nel reg. MiFIR n. 600/2014, del 15.5.2014, (art. 39-43) sono attribuiti all’Esma e alle autorità nazionali poteri d’intervento (cd. product intervention) e di controllo sui prodotti, attività e pratiche finanziarie. L’enfasi – diversamente dal (o ad integrazione del) tradizionale controllo sui comportamenti – è posta sul prodotto più che sul servizio, attribuendosi alle autorità il potere di vietare o limitare la vendita di prodotti finanziari, ove questi siano di pregiudizio per la protezione degli investitori, per la stabilità finanziaria e l’integrità dei mercati. La normativa anzidetta legittima le autorità ad intervenire non solo verificando la correttezza del processo di product governance dell’intermediario, ma valutando altresì la complessità del prodotto in relazione ai potenziali clienti di riferimento e attribuendo alle medesime il potere di sindacare il grado di innovazione dei prodotti commercializzati. Si anticipa, così, a livello dell’intermediario e delle autorità, il controllo di coerenza tra catalogo dei prodotti ed esigenze finanziarie dei clienti (già comunicazione Consob n. 9019104/2009, cit.), ma si accentua altresì la tendenza al controllo amministrativo sul contenuto e la struttura dei prodotti.
Con il recepimento della MiFID la normativa “entra” nell’organizzazione dell’intermediario, dando esplicito rilievo, da un lato, alla strutturazione dell’organizzazione interna e, dall’altro, pretendendo procedure idonee a predeterminare i comportamenti dell’impresa e a gestire in anticipo, con concrete misure organizzative, la relazione con il cliente.
La normativa ricostruisce gli assetti organizzativi dell’intermediario, distinguendo, nel rispetto del diritto comune delle società (ma secondo un approccio aziendalistico), tra le funzioni di gestione, quelle di supervisione strategica (meglio sarebbe dire di 'indirizzo strategico') e quelle di controllo e le funzioni aziendali di controllo e traduce i processi decisionali, che si sviluppano a tutti i livelli dell’impresa, in procedure efficienti e verificabili tanto.
Si assiste — come teorizzato dalla scienza aziendalistica (cfr. Daccò, G., L’organizzazione aziendale, VII ed., Padova, 1998, 71) – alla cd. procedimentalizzazione dell’organizzazione e dell’attività d’impresa. Si tende, cioè, a predeterminare puntualmente l’agire societario: 'chi fa cosa', 'come e quando questo qualcosa deve essere fatto' e 'chi controlla/vigila su chi quel qualcosa fa'. Si delineano in concreto gli 'organigrammi' e i 'funzionigrammi'. Viene altresì valutata, e ciò è d’importanza cruciale, la consistenza dei rischi e verificato che le procedure adottate assicurino la gestione di tali rischi. La violazione dell’obbligo di dotarsi di risorse e procedure idonee ad assicurare l’efficiente svolgimento dei servizi e delle attività non rileva più solo sul piano della responsabilità amministrativa (perseguibile dalle autorità di vigilanza) ma ha una diretta incidenza sul piano dei rapporti civilistici tra intermediari e clienti. Nella regolamentazione (per le banche che prestano servizi d’investimento si applica il RC in caso di divergenza tra quest’ultimo e le disposizioni recate dalla circolare BI n. 263/2006: art. 3 RC) è ben evidenziato che l’assetto organizzativo dell’intermediario (livello di governance, livello operativo) è unitario e non mancano disposizioni che specificano il ruolo e le responsabilità degli organi di corporate governance ed il rapporto di questi con la struttura aziendale (art. 4 ss. RC; Sez. II circ. BI cit.).
A livello di struttura aziendale la regolamentazione si focalizza, sempre per ragioni di tutela degli investitori, sulle funzioni aziendali ‘di controllo’ (compiti, requisiti e responsabilità) e tra queste si distinguono: la funzione di “conformità alle norme” (cd. compliance), la funzione di ‘gestione del rischio’ (cd. risk management) e la funzione di ‘revisione interna’ (cd. internal audit) (artt. 12-14 RC; Sez. III circ. BI cit.; sulla ripartizione di competenze tra compliance e internal audit: comunicazione BI-Consob 8.3.2011, in www.consob.it; sull’esternalizzazione delle funzioni operative essenziali o importanti v. art. 19 ss. RC). Queste appaiono come una sorta di longa manus operativa degli organi di governance (e, nel contempo, di ‘parafulmini’ di questi ultimi). È affermato il principio secondo cui le imprese devono adottare risorse e procedure proporzionate alla natura, alla dimensione ed alla complessità dell’attività svolta nonché alla tipologia dei servizi prestati (principio di proporzionalità) (art. 4, co. 2, RC). Si delinea in definitiva un’articolazione organizzativa che, se, da un lato, costituisce una pre–condizione di efficiente operatività dell’impresa, dall’altro, può ritenersi adeguata quando è conforme alle norme comportamentali, ai principi dell’ordinamento settoriale e agli obiettivi che lo stesso si prefigge. Si tratta di obblighi che vengono declinati lasciando gli operatori apparentemente liberi di definire (secondo la tecnica cd. principle–based) il proprio modello organizzativo, con la conseguenza, però, di rendere poi decisivo l’intervento dell’autorità amministrativa.
D.lsg. 24.2.1998, n. 58; reg. Consob intermediari n. 16190 del 29.10.2007; reg. congiunto Consob-Banca d’Italia del 29.10.2007 in materia di organizzazione e procedure degli intermediari; circolare Banca d’Italia n. 263 del 27.12.2006 – XV agg. del 2.7.2013.
Annunziata, F., La disciplina del mercato mobiliare, VI ed., Torino, 2012; Costi, R., Il mercato mobiliare, VIII ed., Torino, 2013; Daccò, G., L’organizzazione aziendale, VII ed., Padova, 1998; de Mari, M., La “nuova” consulenza in materia d’investimenti tra fattispecie e disciplina, in de Mari, M., a cura di, La nuova disciplina degli intermediari dopo le direttive MiFID, Padova, 2009; de Mari, M. – Spada, L., Intermediari e promotori finanziari, Bologna, 2004; Ferro-Luzzi, P., Lezioni di diritto bancario, I, Torino, 2004; Gabrielli, E. – Lener, R., Mercati, strumenti finanziari e contratti d’investimento dopo la MiFID, in Gabrielli E. – Lener R., a cura di, I contratti del mercato finanziario, II ed., I, Torino, 2011; Maggiolo, M., Servizi e attività d’investimento, in Tratt. Cicu-Messineo-Mengoni-Schlesinger, Milano, 2012; Perrone, A., La classificazione della clientela, in D’Apice, R., a cura di, L’attuazione della MiFID in Italia, Bologna, 2010; Sartori, F., Informazione economica e responsabilità civile, Padova, 2011.