serventese
1. Il s. provenzale tratta di poesia d'ispirazione politica, didascalica, guerresca, satirica, religiosa, di solito nel tono dell'invettiva: perfino il s. di Peire Cardinal (Un sirventes novel vueill comensar) per il Giudizio universale assume toni di richiesta perentoria e quasi violenta. D. ha certamente conosciuto molti s. provenzali; ma non è certo che si sia reso ben conto della realtà tecnica di quei serventesi. In VE II II 9 D. infatti cita, come esempio di canto sulle armi, il s. di Bertram dal Bornio No posc mudar c'un cantar non exparja; come esempio di canto sulla rettitudine, il s. di Giraldo da Borneill Per solaz reveillar. È pur vero che in quel passo D. si preoccupa specialmente dei tria magnalia, dei tre grandi temi degni della poesia tragica, ma non par probabile che l'esemplarità potesse essere scientemente affidata a s., là dove tutto il discorso porta alla conclusione che gli argomenti che sono degni del sommo volgare sono da trattarsi in canzoni: Quare ad propositum patet quod ea quae digna sunt vulgari altissimo in cantionibus tractanda sunt (II III 10).
2. Antonio da Tempo, in riferimento alla poesia italiana, indica tre tipi di s.: il " sermontesius simplex cruciatus " di quartine (o di terzine) a rima alterna (ababcdcd...); il " sermontesius duplex et duatus... ", " qui potest etiam fieri ternatus eodem modo ", del tipo aabb...; oppure aaabbb...; il " sermontesius caudatus ", su due o tre endecasillabi con la coda " ex quatuor syllabis ad minus vel ex quinque ad plus ". Rarissimi nella tradizione italiana i s. non riportabili a quest'ultimo tipo: si ricordano, per altro su schemi non ricordati da Antonio da Tempo, gli Insegnamenti a Guglielmo (aax, bbx...) e il s. di Ruggieri Apugliese, in quartine monorime di ottonari-novenari, chiuse da un quinario con la rima della quartina successiva. Lo schema di s. dominante nell'antica poesia italiana è appunto quello che Antonio da Tempo chiama " sermontesius caudatus "; in riferimento al s. dei Lambertazzi e dei Geremei, il Contini scrive: " questo schema, che continua probabilmente l'ode saffica, usatissima nella poesia medievale... è frequente nel più andante repertorio due e trecentesco: basti citare fra i testi più antichi il serventese dello Schiavo di Bari, quello del Dio d'Amore (bolognese), l'altro amoroso (serbato pure in un memoriale di Bologna) ‛ Placente vixo, adorno, angelicato '; press'a poco nello stesso tempo, esso compare, con altre misure, in Francia, a partire dal dramma di Rutebeuf su Teofilo ", Poeti I 844. Si discosta di poco da quello schema il s. romagnolo, che ha i tre versi lunghi in alessandrini rimanti anche al mezzo e gli adoni oscillanti fra quinario e quaternario.
Sia il s. dei Lambertazzi e dei Geremei, sia il s. romagnolo si riferiscono a personaggi ed episodi ben noti attraverso la Commedia: il s. dei Lambertazzi e dei Geremei, che narra, da un punto di vista guelfo, gli avvenimenti bolognesi fra il 1274 ed il 1280, dà grande spazio (più di 270 versi) al tradimento di Tebaldello (If XXXII 122-123); il s. romagnolo, che narra, da un punto di vista ghibellino, eventi romagnoli press'a poco degli stessi anni del precedente, esalta Guido da Montefeltro. Anzi, il Casini ha pensato che il s. romagnolo sia stato conosciuto da D., data l'impressionante coincidenza sulle parole in rima del passo " per Deo dia vita - a l'altu conte Guido / da Montefeltro. / Folne stia en statu, - ched a lui è nula Feltro. / En levere s'è avançatu, - e 'l leone asalì lu veltro, / ché paragunato - s'è l'oro e peltru / del sapere ", con If I 101-105 (T. Casini, in Scritti danteschi, Città di Castello 1913, 37-38: " non si può, parmi, mettere più in dubbio che... il divino poeta porgesse l'orecchio alle voci che risonavano dai canti del popolo italiano "). L'estrema rarità della rima toglie verosimiglianza all'ipotesi: in tutta la Commedia si ha soltanto questa rima in -eltro; anzi, di parole che finiscano in -eltro in tutta la Commedia ce ne sono soltanto quattro, le tre dette e Montefeltro, in Pg V 88.
3. Appare ipotesi ragionevole, tenuto anche conto della probabile ignoranza dantesca degli o di alcuni schemi di s. provenzali, che il s. che D. afferma di aver scritto sulle sessanta più belle donne di Firenze sia stato un serventese caudato (sui rapporti fra lo schema del s. e la terzina dantesca, v. TERZINA): E presi li nomi di sessanta le più belle donne de la cittade ove la mia donna fue posta da l'altissimo sire, e compuosi una pistola sotto forma di serventese, la quale io non scriverò: e non n'avrei fatto menzione, se non per dire quello che, componendola, maravigliosamente addivenne, cioè che in alcuno altro numero non sofferse lo nome de la mia donna stare se non in su lo nove, tra li nomi di queste donne, Vn VI 2. D., poiché nella Vita Nuova tende a riportare soltanto le esperienze poetiche di alto livello cortese, non ‛ scrive ' il s., anzi afferma che non ne avrebbe fatto menzione se non fosse occorsa quella coincidenza numerica. Allusione a tale pistola sotto forma di serventese si ha nel sonetto Guido, i' vorrei (Rime LII), con espressione simile a quella della Vita Nuova: con quella ch'è sul numer de le trenta (v. 10): poco convince l'ipotesi ingegnosa di G. Mazzoni che a Beatrice si alluda anche in questo luogo, data l'equivalenza simbolica del trenta e del nove (per tutta la questione, v. Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io). Del perduto s. dantesco " abbiamo però un'idea attraverso i suoi riflessi, un ‛ sermintese ' analogo di Antonio Pucci (1335), uno più recente (1342 circa) del Boccaccio (oltre, se davvero è sua, la Caccia di Diana), alcune cose del Sacchetti (particolarmente la Battaglia delle belle donne) e una canzonetta di Amelio Bonaguisi " (Contini, Rime 36).