SERRADIFALCO, Domenico Antonio Lo Faso Pietrasanta duca di
– Nacque il 21 ottobre 1783 dal collezionista palermitano Francesco Leonardo Lo Faso, duca di Serradifalco, e dalla contessa Margherita Pietrasanta (Gallo, 1863). Durante la rivoluzione parlamentare siciliana del 1812 ricoprì le cariche di ministro degli Affari esteri, deputato dell’Ospedale Grande e deputato delle Strade. Tanto l’accorta gestione delle infrastrutture e dei servizi ospedalieri, quanto l’attivazione del Piano di lavori stradali e la razionalizzazione del sistema doganale e viario dell’Isola, anche in funzione della promozione economica di aree potenzialmente produttive, attestano l’influenza di quella “filosofia del programma” che il regime napoleonico aveva ereditato dal Consolato e i cui risvolti pratici Domenico Lo Faso ebbe modo di conoscere e valutare durante la sua permanenza a Milano, dove si era recato fin dal 1807. Rientrano in questo profilo di responsabile esponente della classe dirigente siciliana i saggi (di decisa impronta liberista e garantista), pubblicati a Palermo nel 1814, Intorno alla organizzazione delle barriere delle strade e Memoria sulle opere di pubblica beneficenza, particolarmente degli spedali, oltre all’organico studio analitico, rimasto manoscritto, della configurazione geografica e delle prospettive economiche della Sicilia, Quadro delle città, fiumi, monti, laghi, promontori, siti antichi e moderni ed antiche strade della Sicilia antica (Palermo, Biblioteca comunale, Qq.H.148 n. 2). Sempre a Milano, città nella quale si occupò anche dell’eredità della famiglia materna, frequentò l’Ateneo ed entrò in contatto con gli esponenti più progressisti del locale mondo culturale. Luigi Cagnola lo iniziò alle discipline architettoniche, indirizzandolo, non senza qualche remora revivalistica, verso quella tendenza imitativa dei neostili che coniugava le ricerche di una nuova architettura agli studi scientifico-classificatori delle fabbriche dell’antichità, nell’ottica di indagare e di svelare saperi, codici e ordinamenti di espressioni artistiche e architettoniche pervenute a compiutezza, per poi declinarne i modi in funzione della ragione e del sentire della propria epoca.
Disincantato e gioviale, Domenico Lo Faso, già impenitente uomo di mondo, cambiò stile di vita nel 1819 sposando Enrichetta Ventimiglia, dei principi di Grammonte, dalla quale avrebbe avuto, nel 1821, la figlia Giulietta, e alla quale dedicò, dopo la morte di lei per colera nel 1837, un cenotafio classicista nel parco romantico realizzato a partire dalla metà del secondo decennio del XIX secolo nella tenuta di famiglia della contrada palermitana dell’Olivuzza, non lontano dal palazzo della Zisa. Si trattava di un impianto paesistico con sentieri alberati fra modesti rilievi artificiali (alcuni rocciosi) con grotte, romitaggio, comparto “lugubre” con sepolcreti, fonti e raggruppamenti arborei a boschetti disseminati di reperti archeologici (e con un labirinto) e corredati da architetture (fra cui un tempietto circolare dedicato al poeta Giovanni Meli), da folies e automi, da gruppi statuari allegorici e da piccoli padiglioni. Nel 1824 il parco fu anche dotato di un comparto lacustre rovinista (rimontando i resti della medievale chiesa urbana di S. Nicolò alla Kalsa danneggiata dal terremoto del 1823) sito in prossimità dei due corpi di fabbrica realizzati dallo stesso Lo Faso in forme neopalladiana, l’uno, e neomedievale (di ispirazione siculo-normanna e chiaramontana), l’altro, come propria dimora e come galleria delle collezioni d’arte di famiglia.
L’interesse del duca di Serradifalco per la tradizione palladiana è attestato dallo spazio riservato ad Andrea Palladio, a Vincenzo Scamozzi, a Richard Boyle conte di Burlington e soprattutto a Inigo Jones, nel suo manoscritto del 1807 Memorie sugli architetti antichi e moderni compendiate dalle memorie dello architetto Francesco Milizia (Palermo, Biblioteca comunale, Qq.H.148 n. 1). L’elaborazione di questo dizionario critico ricadde nel periodo in cui, soggiornando nella Milano bonapartista da poco eletta a sede del Grande Oriente d’Italia, egli instaurò il rapporto di apprendistato con Luigi Cagnola, del quale condivise la ripresa della regolistica maniera imitativa di Julien-David Leroy filtrata attraverso il gusto per le geometrie formali del razionalismo normativo.
Nel manoscritto Introduzione ad alcuni disegni architettonici immaginati ed eseguiti dal Duca di Serradifalco, a premessa delle considerazioni sulla proprietà imitativa di alcune culture artistiche e sull’idea dei «sistemi architettonici», Lo Faso indirizzò un elogio riconoscente a Luigi Cagnola: «egli mi fu maestro per ben quattro anni, ed iniziommi l’amore che vivo conservo per questa arte moderna» (Palermo, Biblioteca comunale, Qq.H.148 n. 13). I progetti da lui ideati per questo volume (Palermo, Galleria regionale di palazzo Abatellis) accusano invero un’originale declinazione delle logiche compositive e dell’insegnamento del maestro, e verificano, attraverso un ventaglio di tipologie proprie della prima trasformazione borghese della città di antico regime, il suo ideale di architettura imitativa, peraltro riscontrabile, sia pure con qualche cedimento, anche nelle poche opere fatte realizzare a Palermo su suo progetto, come la costruzione in forme neoclassiche del Teatrino delle Musica al Foro Borbonico (in collaborazione con Carlo Giachery). Oltre a rientrare tra le iniziative promosse come soprintendente dei teatri e pubblici spettacoli (per cui redasse anche bozzetti di scenografie, eseguite da Raimondo Gioia, Giuseppe Politi e Luigi Tasca, o, ancora, provvide alla realizzazione della volta del Real Teatro Carolino di Palermo), il Teatrino, una loggia-palchetto dall’aulico tenore templare, rappresenta l’opera manifesto della sua idea sui nuovi sistemi architettonici, alla quale, da diverse angolazioni, avrebbero attinto sia le teorie imitative di Fancesco Saverio Cavallari, che la produzione revivalistica di Giuseppe Patricolo e l’approccio scientifico e sperimentale dell’eclettismo di Giovan Battista Filippo Basile. Diversa è la riforma del palazzo di famiglia in piazza Pretoria, sua opera prima, dove adottò una maniera classicista calligrafica risultante dalla mediazione tra stilemi del primo neoclassicismo siciliano (ispirati ad Andrea Giganti) e logiche d’impaginato secondo i modi di Giuseppe Piermarini.
Continuatore della tradizione di ricerche e di conservazione del patrimonio storico architettonico siciliano, inaugurata dai due primi regi custodi di antichità (Gabriele Lancillotto Castelli principe di Torremuzza e Ignazio Paternò principe di Biscari) e da studiosi come Alfonso Ajroldi e Saverio Landolina, Lo Faso v’impresse una svolta decisiva per il superamento delle ultime manifestazioni di erudizione tradizionalista. La sua prima produzione scientifica risale al 1831, con il saggio Cenni sugli avanzi dell’antica Solunto (stampato a Palermo), preceduto da un decennio di ricerche e seguito da un’intensa attività di direzione di campagne di scavi e di rilevamento. Dal 1828, e fino all’anno del suo esilio, Lo Faso fu componente della Commissione centrale preposta alla tutela delle antichità del Regno di Sicilia. Insieme agli altri commissari (Giuseppe Lanza, Rosario Torregrossa, Valerio Villareale e Giuseppe Patania), garantì sistematicità alle campagne di scavi e ai restauri effettuati a Selinunte, Segesta, Solunto, Siracusa, Taormina e Agrigento. Attento alla scientificità dei rilievi, ne affidò le misurazioni a Domenico e Francesco Saverio Cavallari, entrambi spesso impegnati anche nella stesura dei progetti «inventati» dallo stesso Lo Faso e raccolti per un volume di architettura rimasto inedito e incompleto.
Il problema della ricerca delle origini, riflesso storiografico della volontà di rintracciare i caratteri distintivi di una cultura nazionale siciliana, indusse Serradifalco a considerare le favole mitiche scolpite nelle metope dei tempi sicelioti, o dipinte nei vasi, una mediazione fra deità della Grecia, culti ctonii e antico sacerdozio egizio. Allo stesso modo, le ricerche sull’uso dello stucco e dei rivestimenti policromi nei templi, già intraprese da Léon Dufourny e da Jakob Ignaz Hittorff, lo portarono a ipotizzare etimi di provenienza egizia.
Superando definitivamente la tendenza all’enciclopedismo, con i suoi studi sulle antichità s’indirizzò verso modalità già prossime a quell’orientamento di indagini scientifico-documentarie e comparative che avrebbe portato al pensiero positivista e che si riscontra tanto nelle sue analisi sui reperti dell’industria artistica siceliota, quanto nelle sue fondamentali opere edite a Palermo Antichità della Sicilia esposte e illustrate, in 5 volumi (1834-42), e Del Duomo di Monreale e di altre chiese siculo-normanne (1838). Quest’ultimo scritto (anch’esso illustrato), individuando ascendenze e peculiarità sia dei caratteri distributivi che di quelli stilistici, costituisce uno dei primi contributi originali del periodo romantico nell’ambito degli studi sull’architettura medievale in Italia. Successivi a questa intensa stagione sono i saggi Memoria sul cuore di San Luigi Re di Francia conservato nel Duomo di Monreale (Palermo 1843) e Vedute pittoresche (Palermo 1844) e gli articoli pubblicati nei periodici “Giornale di scienze, lettere e arti” (Sulle metope di Selinunte e Illustrazione di un antico vaso fittile) ed “Effemeridi sicule” (Intorno ad alcuni sepolcri di recente scoperti in Palermo).
La ricerca di una perfezione armonica caratterizzò le sue teorizzazioni del periodo della maturità. Il progetto per la villa del principe di Paternò alla Marina di Palermo riflette l’aspirazione a un linguaggio architettonico astilo: la severa stesura neopalladiana di piante e prospetti obbedisce a proporzioni semplici che strutturano l’insieme in una modulata articolazione volumetrica. Ancor più della villa di Luigi Cagnola a Inverigo (1814-30), l’effimero Ponte Trionfale progettato da Serradifalco nel 1831 per l’ingresso a Palermo del principe Leopoldo di Borbone risentì pesantemente della ricostruzione grafica dei Propilei di Atene a cura di Julien-David Leroy. Il suo progetto di un tempio circolare, pur nel consueto riferimento al Pantheon (rivisitato nello stesso periodo da Luigi Cagnola con la Rotonda a Ghisalba, da Antonio Canova e Antonio Selva con il tempio di Canova a Possagno, e da Thomas Jefferson con la biblioteca dell’Università della Virginia), svela la natura scientifica del tenore eclettico di Serradifalco, nonché le sue propensioni per una «architettura cosmica». Nei principî di Serradifalco, formulati per la prima volta in chiave di argomentazioni nell’Introduzione ad alcuni disegni architettonici, si avverte chiara una mediazione fra le lezioni di Cagnola e le idee maturate negli incontri con Leo von Klenze.
Nel saggio del 1847, Pensieri sull’architettura dettati dal Duca di Serradifalco sulle dimande del principe ereditario Massimiliano, indi Re di Baviera, Serradifalco estese il concetto di «imitabilità» a quelle architetture in cui fossero ravvisabili logici principi ordinatori ed esatta rispondenza fra l’immagine costruttiva e quella architettonica. Per lui la nuova architettura fa suoi i principi di euritmia e di imitazione, intesa come capacità dei greci antichi di declinare un «tipo» perfettamente compiuto in base ad un’ordinata gamma di variazioni fra loro combinabili; l’obiettivo della ricerca di una nuova architettura si orientava verso il conseguimento di un sistema logico.
Proprio alla luce di questi principi Lo Faso operò una rivalutazione storico-critica di parte dell’architettura medievale (meno convinta per quanto riguarda il periodo gotico) iniziandone alla comprensione il giovane Eugène Viollet-le-Duc, in viaggio di istruzione in Sicilia e in Italia nel 1836.
Dottore dell’Università di Oxford, corrispondente di quarantuno istituti e accademie internazionali, introdotto presso la corte dello zar, Serradifalco, ai tempi della lunga stagione palermitana di Luigi Filippo d’Orléans e quando ricoprì la carica di ministro (1812; 1848-49), instaurò quei contatti internazionali che, anche negli anni a venire, ne distinsero sempre l’operato. Per Viollet-le-Duc Serradifalco fu certo la personalità più autorevole nell’ambito dei propri interessi culturali maturati durante il viaggio in Italia.
Secondo Serradifalco le architetture medievali siciliane auliche dei periodi normanno e svevo, quelle di maggior interesse per il giovane studioso francese, e, solo in parte, quelle del cosiddetto gotico siculo-catalano potevano costituire modelli declinabili sia per contenuti intrinseci e oggettività costruttiva, sia per la compiutezza delle soluzioni tipologiche; soprattutto nel caso dei “sollazzi” e delle cattedrali normanne, entrambi emblematici di un regno dalla forte identità culturale (anche in ambito di pensiero) che accoglieva credi e saperi cristiano, islamico ed ebraico. Il suo progetto del “Palazzo per il perfezionamento dei giovani nelle scienze” riflette gli studi compiuti sull’architettura medievale e le sue teorie sulla nuova architettura; dichiaratamente esemplato sulle cattedrali normanne, costituisce una vera e propria declinazione di sistemi architettonici e culture figurative pervenute a maturità. Il mito della costruzione di queste grandi opere, per mano di corporazioni di costruttori e mosaicisti iniziati alla logica matematica dell’edificazione e alla custodia del “grande segreto” (nonché alla sua trasmissibilità attraverso il simbolo), diviene esso stesso archetipo di un tempio laico dedicato alla sapienza.
Morì il 14 febbraio 1863 a Firenze, città nella quale si era recato nel 1849 da esule politico per avere ricoperto la carica di presidente della Camera dei Pari nel Governo Provvisorio, antiborbonico e indipendentista, di Ruggero Settimo, principe di Fitalia.
Alla sua morte, parte della biblioteca (circa 2500 volumi) e dei suoi manoscritti fu donata alla Biblioteca comunale di Palermo e parte fu divisa tra gli eredi fra cui la figlia, Giulietta Lo Faso Ventimiglia duchessa di Serradifalco e marchesa di Torrearsa, che, con il testamento olografo del 7 aprile 1886, lasciò al Museo nazionale di Palermo (allora diretto da Antonio Salinas, del quale era stata mecenate) una parte cospicua delle collezioni d’arte, reperti di antichità e oggetti dell’industria artistica storica, ereditati in massima parte dal padre e conservati nel proprio palazzo di via Ruggero Settimo a Palermo.
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