serocchia
Nel fiorentino del tempo di D. s. è la forma normale per ‛ sorella ': nei Nuovi testi fiorentini ricorre 16 volte, mentre ‛ suora ' è usata soltanto col valore ecclesiastico (Castellani, Nuovi testi 260: " suora Bartola figliola di Baldovino "), e ‛ sorella ' non ricorre mai; e così per tutto il Trecento nelle scritture pratiche fiorentine (per maggiori particolari sulla distribuzione di ‛ suora ' / ‛ sorella ' / ‛ serocchia ', vedi SORELLA). Tanto più notevole che sia s. in D. la forma più rara: ricorre soltanto due volte e ambedue le volte in rima (una rima evidentemente difficile, in Pg IV 111 con ginocchia e adocchia, nelle parole di D. con riferimento a Belacqua [colui che mostra sé più negligente / che se pigrizia fosse sua serocchia]; e in XXI 28, in rima con conocchia e adocchia, nelle parole di Virgilio con riferimento a D.: l'anima sua, ch'è tua e mia serocchia), contro dieci casi di ‛ sorella ' (più due col valore di " monaca ") e otto di ‛ suora '. In entrambi i luoghi i codici danno anche le varianti formali sirocchia e sorocchia; cfr. Petrocchi, ad locum.
D. reagisce dunque negativamente davanti alla forma normale del fiorentino del suo tempo, perché avverte in s. un suffisso non armonico: parallela è la sostituzione di ‛ ranocchio ', usato una sola volta, con ‛ rana ', che ricorre quattro volte (v. I. Baldelli, D. e i poeti fiorentini del Duecento, Firenze 1965).