LEONE, Sergio
Nacque a Roma il 3 genn. 1929 da Vincenzo, in arte Roberto Roberti, apprezzato e prolifico "direttore artistico" del cinema muto, e da Edvige Valcarenghi, attrice col nome d'arte di Bice Waleran.
Al momento della sua nascita, la famiglia stava per conoscere momenti difficili: il padre girò in quell'anno un rifacimento di Assunta Spina ma fu subito dopo costretto, anche a causa della prepotente affermazione del cinema sonoro, ad affrontare un lungo periodo d'inattività, mentre la madre si ritirò dopo pochi mesi a vita privata. Solo dieci anni più tardi Roberti, probabilmente sgradito al regime, poté ritornare sul set dirigendo Il socio invisibile, ma lo scoppio della guerra e la successiva entrata in guerra dell'Italia gli permisero di girare pochi altri film prima di concludere la carriera.
Il L. studiò senza eccellere all'istituto dei padri salesiani e, tra gli otto e i quattordici anni, divenne uno spettatore cinematografico assiduo e competente, capace di appassionarsi ai film avventurosi con Charlie Chan come ai capolavori chapliniani e alle commedie di E. Lubitsch. Prima di ritirarsi definitivamente con la moglie nel paese natio, Torella dei Lombardi, il padre - che aveva coinvolto il L. nella lavorazione dei suoi ultimi film e lo aveva, in pratica, utilizzato come assistente alla regia de Il folle di Marechiaro (o I fuochi di San Martino, 1943, incompiuto e oggi irreperibile) - lo raccomandò ad amici e colleghi affermati perché aveva capito che gli studi di giurisprudenza non s'adattavano per nulla al ragazzo, ormai deciso a continuare la sua professione.
A Cinecittà il L. percorse le tappe canoniche della gavetta, assorbendo con umiltà - nonostante il prestigioso imprinting paterno - le lezioni di tecnica e di linguaggio che il vivace panorama del dopoguerra andava sperimentando tra polemiche culturali, tentativi di rifondazione industriale e slanci d'autore.
V. De Sica accettò di averlo accanto in Ladri di biciclette, poi furono A. Blasetti, C. Gallone, M. Camerini (che era stato il suo padrino di battesimo), M. Soldati e A. Fabrizi a fornirgli continue occasioni di guadagnarsi da vivere e apprendere il mestiere; in particolare imparò molto da Mario Bonnard, del quale fu aiuto in ben otto film (da Il voto, 1950, a Gli ultimi giorni di Pompei, 1959), un regista abbastanza old style che tuttavia possedeva, insieme con lo spirito caustico tipicamente romano, un forte senso della composizione cinematografica.
Sul set de L'uomo, la bestia, la virtù (regia di Steno, 1952), in cui ricopriva il ruolo di segretario d'edizione, si ritrovò a collaborare brevemente con Orson Welles, che ne era svogliato protagonista in coppia con Totò. Presentatasi l'occasione, Welles chiese al L., che lo ammirava e continuò ad ammirarlo moltissimo, di fargli da assistente e organizzatore per iniziare Rapporto confidenziale (o Mr. Arkadin, 1955), poi concluso altrove, in giro per l'Europa.
Nel 1953 il L. era stato aiuto di Bonnard per il divertente e sensuale "peplum" Frine, cortigiana d'Oriente, senza immaginare che sarebbe diventato uno specialista del genere "greco-romano" e che l'abilità nel gestire i figuranti e nell'allestire le scene di battaglia gli avrebbe permesso di essere scritturato sui set dei kolossal hollywoodiani realizzati in Italia.
Con le importanti esperienze in Quo Vadis? di M. LeRoy (1951), Elena di Troia (1955) di R. Wise, Ben-Hur (1958) di W. Wyler e, più tardi, Sodoma e Gomorra (1961) di R. Aldrich, il L. riuscì a preservare la personale tendenza - evidente anche nelle partecipazioni ai soggetti e alle sceneggiature di titoli come Nel segno di Roma di G. Brignone o Romolo e Remo di S. Corbucci - a conferire un minimo di attendibilità figurativa a quei coacervi rutilanti e paradossali di storia, mitologia e fantasia.
Nel 1959, la sua partecipazione alla realizzazione de Gli ultimi giorni di Pompei, molto liberamente ispirato al romanzo omonimo di E.G. Bulwer-Lytton, fu il suo effettivo esordio nella regia: infatti, subentrato a Bonnard, che si era ammalato nel corso delle riprese in Spagna, il L. terminò il film in autonomia.
Nonostante l'implausibilità letteraria e l'inespressività degli interpreti, lo scontro tra amori cristiani e lussurie pagane culminante nell'eruzione del Vesuvio si giovava di un piglio spettacolare grandioso che fece incassare alla pellicola una cifra ragguardevole.
Considerato il successo, lo stesso team produttivo italo-spagnolo decise di offrire l'anno seguente al L. - che si era appena sposato con Carla Ranalli - la possibilità di esordire con un "peplum" ancora più ambizioso e costoso del precedente: Il colosso di Rodi.
La prima regia ufficiale del L. si distingue dalla routine dell'epoca per una certa accuratezza di inquadrature, scenografie e trucchi, gli accentuati intermezzi ironici, le citazioni travestite (il duello sulla spalla e sul braccio del colosso, omaggio a Intrigo internazionale di A. Hitchcock) e gli sprazzi di sadismo che ne attraversano la convenzionale magniloquenza. Al film collaborarono due futuri esponenti del western all'italiana (o, con indicazione inizialmente spregiativa, "spaghetti-western"), M. Lupo (aiuto) e D. Tessari (sceneggiatore, insieme con E. De Concini e altri).
Nei primi anni Sessanta il cinema italiano entrava in una fase di trasformazione, in bilico tra vitalità d'autore e crisi dei filoni popolari in auge nel decennio precedente. Dal tipico fermento nostrano di astuzia, genialità e approssimazione cominciò a farsi strada l'idea di ricalcare il western, cioè il cinema americano per eccellenza che andava perdendo rapidamente il suo classico fulgore. Visto il successo arriso in Germania ai film ispirati ai romanzi autarchici di Karl May (la cosiddetta saga di Winnetou), il L. concepì il progetto di realizzare un film a basso budget ispirato al capolavoro di A. Kurosawa, Yojimbo (La sfida del samurai), che in Italia non aveva avuto grande successo, nonostante il premio di miglior attore vinto da Toshiro Mifune alla Mostra di Venezia. Scritto il copione con Tessari e la collaborazione, non accreditata, di F. Di Leo, ottenne dai produttori un contratto che prevedeva un compenso per metà in denaro e per il resto in partecipazione: il film, Per un pugno di dollari (1964), avrebbe incassato oltre 3 miliardi di lire.
Spostando l'ambientazione giapponese in un generico Sudovest americano e tramutando il samurai senza padrone Sanjuro in un laconico e spietato pistolero (Clint Eastwood, fino ad allora apprezzato solo per il ruolo nella serie televisiva Rawhide), il L. riesce, in effetti, a mettere in scena un far west cinico, brutale, realistico, stravolto rispetto ai modelli di J. Ford, H. Hawks o A. Mann - basti pensare all'istrionica figura del "cattivo" incarnata da uno strepitoso G.M. Volonté -, ma nello stesso tempo tanto astratto e paradossale da poter riacquistare l'aura fiabesca originaria. Tra le novità più trascinanti di Per un pugno di dollari (il titolo definitivo venne scelto alla fine delle riprese, quando, tra l'altro, i nomi italiani furono sostituiti da pseudonimi angloamericani e lo stesso L. divenne Bob Robertson) vanno annoverate: l'asciuttezza della partitura musicale (che include un rimando al deguello di D. Tiomkin, eseguito alla tromba da M. Lacerenza, e fece vincere al suo autore, E. Morricone, il Nastro d'argento 1965); l'insistenza sui primissimi piani dei volti e sui dettagli degli oggetti; la scansione esasperata del montaggio al servizio della dilatazione dei tempi; il flusso di gag amorali e battute sarcastiche; e l'abuso strategico dell'azione violenta. È chiaro che il L. desidera portare alla luce il lato nascosto della leggenda della frontiera, sottolineandone la durezza fisica e liberandola dall'alone romantico e da qualsiasi "giustificazione poetica"; il dato più sorprendente resta, però, quello che neanche Kurosawa - che pure intentò una causa di plagio alla Jolly Film, poi composta con una transazione commerciale - aveva inventato la storia di Yojimbo: l'aveva ricavata da Red harvest (1929, in italiano, Piombo e sangue), un romanzo del caposcuola del giallo hard-boiled D. Hammett.
Il successo subitaneo e straordinario ottenuto da Per un pugno di dollari (mentre la critica restava fredda e perplessa, incapace di tollerare lo "scopo commerciale" per cui era effettivamente nato il filone autarchico) mise il L. in una posizione di forza, consentendogli di produrre il suo secondo western, Per qualche dollaro in più, in compartecipazione con A. Grimaldi della PEA.
La sceneggiatura - cofirmata da L. Vincenzoni - accelera il meccanismo di flash-back e colpi di scena, lasciando alla regia maggiore libertà di svariare gli scenari, d'accentuare gli episodi collaterali e le divagazioni caricaturali o, addirittura, di sbizzarrirsi nelle tonalità surreali. Tra assalti e agguati, sparatorie e beffe, il Monco (Eastwood) e l'ex colonnello Mortimer (L. Van Cleef) inseguono per tutto il film la banda del crudele Indio (Volonté), ma mentre il primo bounty killer è interessato solo alla taglia che grava sulla testa del bandito, il secondo è mosso da oscuri sentimenti di vendetta: il L. mette ancora in scena una congrega priva di codici morali, degradata, dominata dall'avidità e squassata dall'istinto di morte; ridisegna un'epopea picaresca attraversata da una sorta di arcangelo Gabriele che viene dal nulla, "taglia la testa al drago" e nel nulla ritorna; contrappone o giustappone ironia e dramma, mito e storia nella rappresentazione di un mondo (cinematografico) in cui qualunque spettatore possa in qualche modo riconoscere se stesso e le proprie "contraddizioni", a cominciare da quelle generazionali tra bambini e adulti, giovani e vecchi.
Uscito in occasione del Natale 1965, il film ottenne un risultato ancora più cospicuo del precedente - 3 miliardi e mezzo di lire soltanto sul mercato italiano nei primi cinque anni di programmazione - finendo fatalmente con l'inasprire le polemiche dei recensori.
Ci voleva ancora del tempo, insomma, perché si perfezionassero gli strumenti di una critica svincolata dagli imperativi contenutistici e, al di là del giudizio pedagogico, si arrivasse a cogliere lo snodo strutturale dell'impostazione del L., quel senso di "lotta continua" esistenziale che non vuole celebrare tout court il culto della violenza, ma semmai esprimere il suo modo di vedere la cognizione del dolore e l'accettazione del destino.
Tale visione si confermò nel terzo capitolo di quella che sarebbe stata chiamata la trilogia del dollaro, Il buono, il brutto, il cattivo (1966), la cui ambizione è rivelata anche dalla durata originale di tre ore piene, sensibilmente ridotta nelle versioni per il mercato estero.
Innanzitutto, il L. incrementa il numero dei protagonisti: Eastwood e Van Cleef (rispettivamente il Biondo e Sentenza) devono fare spazio a Eli Wallach (Tuco), l'elemento farsesco indispensabile al film; poi affronta con inedita disinvoltura i temi oscuri e crudeli della guerra di Secessione americana; infine, fa comporre a Morricone la musica prima delle riprese, una partitura assai articolata che possa interagire con i contraddittori stati d'animo degli interpreti. I tre avventurieri alla spasmodica caccia di un tesoro scomparso, oltre che a cercare di eliminarsi a vicenda, sono costretti a schivare le insidie della mattanza fratricida, passando più volte da un campo all'altro e cambiando frettolosamente divisa e bandiera: la storia non è maestra di vita né percorso di liberazione; la storia è un canovaccio su cui s'iscrivono a caso le grandezze e le infamie, il coraggio e la codardia; la storia è lo sguardo del narratore che scruta i movimenti inconsulti dei personaggi e dona a essi l'armonia che non termina con the end, ma si prolunga all'infinito nel carattere ciclico della saga. Il procediment0 è palese quando il regista permette al Biondo di ritrovare e indossare in extremis il "suo" poncho e raggiunge l'acme nella corsa di Tuco nel cimitero di Sad Hill, ebbro di felicità perché sta per ghermire il bottino che nessun cadavere potrà mai sottrargli, ma anche pronto a occupare la posizione giusta nella sequenza del duello finale, il famoso "triello" tra i vecchi compari. Che il sogno dell'ancora frainteso L. non sia quello della banale dissacrazione, bensì quello di preservare l'Altrove western dall'inaridimento, lo dimostra del resto il gioco, mai così sofisticato, del doppiaggio, con le voci italiane che deviano e ricompongono la comunicativa degli attori americani, con le loro corpose inflessioni che trasformano delle maschere in divi, con le imprevedibili traiettorie di senso che accompagnano l'alternarsi di lirismo e umorismo, tragedia e commedia.
La United Artists, che aveva deciso di lanciare la trilogia sul mercato statunitense (il ritorno economico fu vantaggioso, ma le recensioni ricalcarono, in genere, quelle italiane più sfavorevoli), rimandò a data da destinarsi il successivo progetto in cui il L. credeva molto, trasporre in un film il romanzo semiautobiografico del gangster ebreo H. Grey The hoods (edito in Italia con il titolo Mano armata). Gli fu chiesto, di allestire, intanto, un altro affresco "alla sua maniera": subentrata la Paramount, che offriva ampie garanzie di libertà autoriale, il L. accettò, pur convinto di dover creare qualcosa di assolutamente nuovo.
Sinceramente interessato alla prima fase, spontaneistica e antiautoritaria, della contestazione giovanile, decise di affidarsi per la scrittura a forze nuove che, in qualche modo, ne incarnassero gli umori d'inquietudine e ribellione, D. Argento e B. Bertolucci; per la sceneggiatura si rivolse al suo ex assistente al montaggio, S. Donati, giallista in proprio e assai versato nella costruzione degli intrecci a suspense.
Quando C'era una volta il West (1968) era già in piena gestazione, il L. fondò una sua casa di produzione, la Rafran Cinematografica, alla quale si associò Bino Cicogna per la San Marco Film, assumendo il controllo totale della produzione e lasciando alla Paramount solo la distribuzione in America. La pellicola incassò quasi un miliardo di lire in meno di ciascuno dei tre titoli precedenti.
Il film non s'accontenta più di ricamare a margine del mito della frontiera, ma si propone l'arduo compito di rileggerlo a mente libera, di riviverlo sul suo terreno, accostando audacemente gli stereotipi e la loro revisione critica, la febbre nostalgica del cinefilo e l'invenzione genuina dell'artista: non a caso si avvale di un cast particolarmente eterogeneo, che al caratterista C. Bronson, all'inedita (per il genere) Claudia Cardinale e al veterano J. Robards affianca l'icona H. Fonda, peraltro consegnato al primo ruolo negativo della carriera. Lo sviluppo narrativo, allo stesso tempo stilizzato e lirico, frammentario e ipnotico; l'ordito di allegorie e rimandi scenografici, dialogici, musicali e sonori; la sospensione delle immagini, che disarticola la percezione del tempo sia per i protagonisti sia per gli spettatori (che ne furono in larga parte spiazzati), rendono tutto sommato secondaria l'elaborata trama, che racconta del magnate delle ferrovie Morton (G. Ferzetti) deciso a mettere le mani sulle proprietà dell'ex prostituta Jill (Cardinale) e pertanto pronto a ricorrere ai servizi del bounty killer Frank (Fonda). In difesa della donna s'erge, però, un ignoto pistolero soprannominato Armonica (Bronson), che, dopo essersi guadagnato un alleato nel pittoresco desperado Cheyenne (Robards), salderà i vecchi conti personali con Frank e alla fine scomparirà nel nulla da dove è venuto. Il ricercato immobilismo che i detrattori rimproverano al L. come fase terminale del suo formalismo (basti pensare all'interminabile prologo muto, con i due pistoleri Woody Strode e Jack Elam che aspettano Bronson) si dimostra progressivamente quanto mai "attivo", degno dell'esemplarità narrativa di un J.F. Cooper, funzionale, comunque, al senso di vuoto e di perdita che l'amata cosmogonia deve patire sino in fondo per far affiorare l'ineluttabile coscienza di un cambiamento: "il film ruota intorno a cinque figure che sembrano conoscersi da sempre, si incontrano continuamente e attendono soltanto il momento di scomparire (anche se nessuno di loro entrerà nella Storia). Armonica, Frank, Cheyenne e Morton si conoscono da sempre perché rappresentano tutti quelli come loro che li hanno preceduti, si incontrano continuamente perché, per quanto li riguarda, sono una razza che sta per sparire (e quindi è come se fossero rimasti soli al mondo) e aspettano di andarsene per non vedere la lenta agonia del West che conoscevano e che da domani non sarà più lo stesso. Questo, naturalmente, non riguarda Jill, che anzi attende la morte degli altri per diventare signora e padrona della situazione […]. Per la prima volta protagonista, il personaggio femminile rappresenta il futuro dell'America, l'inizio del matriarcato e la fine di quell'universo specificamente maschile che era il Far West" (Mininni, pp. 88 ss.).
Invischiato con i collaboratori più stretti in un progetto di produzione in America, sempre in attesa di sormontare le enormi difficoltà che lo dividevano dalla trasposizione del romanzo di Grey, il L. finì per accettare di dirigere Giù la testa (1971, David di Donatello per la regia), tratto da un soggetto di Donati e da una sceneggiatura più volte modificata da Vincenzoni con lo stesso regista.
Lo spunto era di per sé abbastanza forzato, indeciso tra il tema dell'individualista cialtrone risucchiato suo malgrado negli ingranaggi della storia e l'ammiccamento ai tic che già funestavano la ventata sessantottina, poi l'ambientazione in un Messico (in realtà Spagna) fitto di citazioni e allusioni ne inficiò ancora di più l'eterogeneo simbolismo. Con la conversione finale del volgare bandito Juan Miranda (R. Steiger) in adepto di P. Villa ed E. Zapata - favorita dalla fratellanza con l'indomito irlandese John Mallory (J. Coburn) - il vituperato spaghetti-western, nella cosiddetta variazione tortilla-western, si affaccia, in effetti, ai piani alti della contestazione, ma il film s'estenua in un andamento farraginoso e verboso, solo a tratti scosso dagli affondi derisori. Rispetto allo straniamento ieratico di C'era una volta il West, certo, il L. sembra voler tornare alla scanzonata libertà, alla rapsodica stravaganza, alla volgarità picaresca degli esordi ripercorrendo - con il consueto conforto delle musiche di Morricone, che comprendono la memorabile aria "Sean Sean" - temi a lui cari quali l'amicizia virile e l'aleatorietà del destino, ma è proprio il connubio tra le qualità di sbrigliato intrattenimento, l'invadenza del messaggio "rivoluzionario" e la partecipazione emotiva (per la prima volta) alquanto narcisistica dell'autore ad appannare l'insieme e rendere pretenziosa la riflessione sulla fine delle illusioni. E l'insistenza metaforica sulle esplosioni (un susseguirsi ininterrotto di fuoco, fiamme e boati che funge da vera e propria punteggiatura drammaturgica) diventa involontariamente il segnale di tutta una complessa e compressa energia espressiva che sfugge continuamente al controllo dello stile.
Giù la testa raccolse recensioni assai negative, riuscendo a mettere d'accordo gli esegeti neutrali e quelli della critica risolutamente schierata a sinistra (indignati per la maniera "ambigua e grossolana" con la quale sarebbero state trattate questioni come la dialettica tra le classi e la presa di coscienza politica).
In effetti, pur avendo firmato il documentario collettivo militante 12 dicembre (versione inglese Document on Giuseppe Pinelli, 1970, ma in realtà non partecipò alle riprese), il L. ebbe modo di chiarire senza peli sulla lingua il proprio pensiero in merito: "Non amo il falso film politico, il film comizio. Preferisco certi film politici indiretti, come Prima pagina di Wilder e Qualcuno volò sul nido del cuculo di Forman, che colpiscono il pubblico più degli slogan di partito" (Garofalo, pp. 158 s.). Il fatto più eclatante, all'uscita del film, riguardò, peraltro, il deludente responso del box office che lo vide surclassato in particolare da… Continuavano a chiamarlo Trinità di E.B. Clucher, alias l'ex amico e operatore E. Barboni. Il L., che si sentiva in un certo qual modo responsabile di quella "degenerazione" parodistica, tentò di reagire producendo Il mio nome è Nessuno (1973) del fidato T. Valeri, che affiancava T. Hill a Fonda e incrociava i riferimenti al western classico e alle riletture nichiliste di S. Peckinpah con il proposito di regolare i conti aperti con la serie Trinità. L'ottimo incasso non lenì l'amarezza del L., ma in compenso lo spinse a intensificare l'attività di produttore che (insieme con quella di realizzatore di brillanti spot pubblicitari per la Gervaise, la Talbot e la Renault) gli permetteva di arginare lo stress dell'interminabile attesa di poter girare il film della vita.
Dopo gli alterni esiti di Un genio, due compari, un pollo di D. Damiani (1975), Il gatto di L. Comencini (1977) e Il giocattolo di G. Montaldo (1979), il vero colpo di genio del L. fu quello di promuovere, con ruvida e amichevole determinazione, il debutto di C. Verdone (Un sacco bello, 1980 e Bianco rosso e Verdone, 1981), destinato a diventare un leader della nuova commedia all'italiana.
Poco dopo la lunga marcia verso C'era una volta in America (1984), durata circa sedici anni, imboccò la dirittura finale con l'acquisto, grazie alla mediazione di A. Grimaldi, dei diritti di The hoods. Dopo aver rotto con Grimaldi, il L. trovò nel produttore israeliano A. Milchan un finanziatore entusiasta e il tramite decisivo per proporre a R. De Niro la parte del protagonista.
Le riprese, iniziate nel giugno 1982, durarono circa un anno, fra esterni autentici in giro per il mondo ed esterni ricostruiti in teatro a Cinecittà, e la sceneggiatura fu portata a termine con il contributo di un team di professionisti provenienti da diverse esperienze (L. Benvenuti, P. De Bernardi, E. Medioli, F. Arcalli, F. Ferrini e, per i dialoghi aggiunti, S. Kaminsky) che s'impegnarono a rielaborare totalmente l'intreccio di Grey secondo le linee direttrici del regista romano.
Il film racconta l'ascesa e il declino di due gangsters ebrei del miserabile Lower East Side newyorkese, Noodles (De Niro) e Max (James Woods), dagli anni Venti, quando capeggiavano una banda di teppistelli, ai Sessanta, quando si rivedono, ormai invecchiati e ossessionati da sinistri rimorsi. Nel frattempo è trascorsa un'intera vita, piena di amicizie ribelli, desideri roventi, spietate violenze, fallimenti esistenziali, cambi d'identità e infami tradimenti: le prime imprese ai tempi del proibizionismo; il grande colpo a un laboratorio di diamanti; il salto di qualità verso una criminalità senza ritorno; l'amore dei due uomini per la stessa donna, Deborah (Elizabeth Mc Govern), capace di risorgere, intangibile come una dea, dalle cancrene dello spazio e del tempo; Noodles che scompare per trentacinque anni, dopo aver denunciato "per il loro bene" i compagni Max, Patsy e Cockeye alla polizia; lo stesso Max che, dopo esser stato creduto morto, diventa senatore e chiede all'ex amico di ucciderlo.
La forza del puzzle lungo tre ore e quaranta minuti (ma l'edizione che il L. avrebbe voluto considerare definitiva durava quattro ore e mezza), stratificato su di un'infinità di riferimenti cinefili e letterari, sta proprio nella sua struttura fascinosa e lirica, irridente e beffarda, svariante e coesa: sono insieme così limpide e ambigue le corde tirate nel corso della narrazione, da operare un folgorante cortocircuito fra realismo e mito. Il L. ha il coraggio d'innestare il dubbio tipicamente europeo nel cuore della tradizione filmica, nell'universo dei gangsters e dei poliziotti, dei Cagney e dei Gatsby, nel caleidoscopio delle visioni che non hanno mai cessato di perturbare la memoria degli appassionati di cinema: lungi dal volere distruggere gli schemi di genere con l'arma del paternalismo eurocentrico, mette in scena una scelta poetica nel senso della forma, della costruzione e del tono compositivo e induce la superba fotografia di T. Delli Colli a virare il pastiche d'epoca in una sorta di commedia umana, di ricerca del tempo perduto nell'immaginario collettivo. C'era una volta in America si struttura come una grande cavalcata, avanti e indietro nella vita, suddivisa in tre periodi, l'infanzia, la maturità e la vecchiaia; ma lo spunto magistrale sta nel fatto che questi tre movimenti vengono, appunto, inestricabilmente intricati a partire dallo shock del tradimento e, addirittura, da un luogo preciso che diventa a poco a poco universale e simbolico e riapparirà solo alla fine: la fumeria d'oppio dove Noodles si rifugia dopo il suo gesto, quasi per cancellarsi, e da cui si può pensare che riveda se stesso nel passato (con i flash-back) e preveda se stesso nel futuro (con i flash-forward). Come a dire che, invece di concludersi con la morte del personaggio-guida, il film si contamina con gli effetti della droga e ci si stabilizza, ci si "eternizza". Una chiave che rimanda a C'era una volta il West e Giù la testa, ma, mentre in quei casi si trattava dello scioglimento di traumi psicologici, adesso il clic è vuoto, non porta nulla, è un salto nel baratro del tempo, nella notte dei rimpianti: quando Moe e Noodles si ritrovano, il primo chiede "Che hai fatto in questi anni?" e il secondo risponde, dolcissimo e disperato, condannato alla saggezza e assuefatto alla solitudine, "Sono andato a letto presto". Il L. scolpisce un percorso vertiginoso in cui le sequenze, pur riannodate dal montaggio di N. Baragli, si stagliano con una potenza autosufficiente, svincolate dal filo romanzesco, lancinanti come le proustiane intermittenze del cuore. Siamo, insomma, alla cronaca di una fantasia, o meglio alla versione fantastica di una cronaca, dove il pessimismo forte e amaro si scontra con il piglio veemente della rappresentazione: del resto il "tempo" del L. prende tutto il suo tempo ed è ciò che lo rende "definitivo" avvicinandolo ai film-cattedrali di D.W. Griffith, A. Gance, S.M. Ejzenštejn. Nella ormai celebre inquadratura finale, De Niro ha sulle labbra uno strano sorriso: tutta la storia potrebbe essere il viaggio drogato nella favola che abbiamo conosciuto, adorato e mai dimenticato al cinema e solo per convenzione chiamiamo America.
Presentato come evento fuori concorso e acclamato da pubblico e critica al festival di Cannes 1984, C'era una volta in America si annunciò subito come un cult movie, ma - allarmati dagli esiti negativi di alcune anteprime americane - Milchan e il distributore A. Ladd jr. riuscirono a esercitare i propri diritti contrattuali e a sottoporre il film a un drastico ridimensionamento. Per il decisivo mercato statunitense venne, così, approntata una versione di 135 minuti, rimontata dal team di Z. Staenberg, in un "più comprensibile" ordine cronologico, col risultato di condannare il film mutilato al fiasco economico (costato 30 milioni di dollari, ne incassò 27 e mezzo).
Il L. si riprese a stento dall'amarezza e dall'indignazione, nonostante la serie di riconoscimenti ottenuta dal suo capolavoro in Italia, Giappone, Francia, Inghilterra e i record d'ascolto puntualmente battuti dai sempre più numerosi passaggi in televisione.
Tra il 1985 e il 1989 ebbe modo di coltivare molti progetti grandiosi, come un film ispirato ai suoi ricordi d'infanzia che si sarebbe dovuto chiamare "Viale Glorioso", le trasposizioni de La condizione umana di A. Malraux e di Viaggio al termine della notte di L.-F. Céline e addirittura il remake di Via col vento. Quello che lo appassionò maggiormente fu, però, il sogno di tradurre in un nuovo kolossal d'autore il libro I 900 giorni. L'assedio di Leningrado di H.E. Salisbury, che rievoca con sterminata ricchezza di documentazione i due anni e mezzo di assedio della città durante la seconda guerra mondiale. Nel gennaio 1989 firmò, al termine di estenuanti trattative con le autorità sovietiche, il contratto per girare finalmente il film.
Il L. morì improvvisamente, per un attacco cardiaco, a Roma nella notte tra il 29 e il 30 apr. 1989.
Fonti e Bibl.: Due utili monografie sul regista sono quella di O. De Fornari, S. L., Firenze 1977 (ripresa in Tutti i film di S. L., Milano 1984, e rist. 1997) e quella di F. Mininni (S. L., Firenze 1989). Per la biografia si può consultare: C. Frayling, S. L.: something to do with death, London-New York 2000 (trad. it. con il titolo S. L.: danzando con la morte, Milano 2002). Il compendio critico più lucido, esaustivo e sistematico dell'opera del L., che include filmografia, bibliografia e testimonianze di quanti con lui lavorarono, è costituito dal saggio di M. Garofalo, Tutto il cinema di S. L., Milano 1999, cui si rimanda.