CIMINELLI, Serafino (Serafino Aquilano)
Nato all'Aquila nel 1466 da genitori di nobile stirpe cittadina, Francesco e Lippa de' Legistis, compì i primi studi nella città nativa. Nel 1478 il C. seguì a Napoli lo zio materno Paolo de' Legistis, segretario del conte di Potenza Antonio de Guevara, ed entrò al servizio del conte come paggio. A contatto della raffinata società cortigiana, il C., favorito anche da una naturale. inclinazione, si dedicò con passione allo studio della poesia e della musica. Fu allievo, infatti, di un noto musicista fiammingo, GuglielmoGuarmer, sotto la cui guida "fece - scrive il Calmeta (V. Colli), amico e biografo del C. - in pochi anni tal profitto che a ciascuno altro musico italiano nel componere canti tolse la palma". Conobbe, inoltre, un altro importante musicista dell'epoca, celebrato dal Castiglione, Josquin Després, al quale si rivolgerà nel sonetto "Jusquin, non dir ch'el ciel sia crudo ed empio".
Ritornato all'Aquila per la morte del padre nel 1481, vi rimase fino al 1484, riscuotendo i primi successi presso i concittadini, entusiasti per l'abilità del giovane musico, che intonava Petrarca sul liuto con grazia senza pari. Ma il desiderio della fama maggiore che avrebbe conquistato nelle corti delle grandi città indusse l'ambizioso C. ad abbandonare l'Aquila per Roma. In questa città fu ospitato dal cavaliere gerosolimitano Nestore Malvezzi di Bologna, finché non passò alle dipendenze del cardinale Ascanio Sforza, fratello di Ludovico il Moro. Il cardinale conduceva a Roma un fastoso tenore di vita tra feste, banchetti, e frequenti battute di caccia che costituivano il suo principale divertimento. Il C., costretto a parteciparvi, non nascondeva una certa insofferenza per l'occupazione prediletta dal suo signore; a questa avversione si aggiungeva inoltre il palese disgusto della vita cortigiana, permeata di intrighi e bassezze incompatibili con il carattere fiero ed impetuoso del C., il quale sfogava il proprio risentimento contro l'esoso prelato e il servile stuolo dei cortigiani in mordaci componimenti poetici di stile burchiellesco. Questi sonetti, fissati spesso alla coda o al collo dei numerosi cani del cardinale, circolavano per Roma destando il riso e la benevola solidarietà del volgo.
Il giovane poeta incontrava un crescente favore popolare, spiegabile in parte con il singolare magnetismo che il personaggio esercitava sul pubblico. Di statura "mediocre" - come lo descrivono i contemporanei -, robusto, ma agilissimo, d'occhi neri e vivaci, di colorito olivastro, veloce di mano e di lingua, innamorato d'ogni donna e di nessuna, possedeva il dono straordinario di affascinare nelle sue esibizioni "l'animo degli ascoltanti, o dotti, o mediocri, o plebei, o donne..." (annota il Calmeta). Né disdegnava di ricorrere ai giochi di prestigio o di destrezza, praticati dai giullari, per suscitare l'ambito applauso degli spettatori.
Nel 1490 il C. accompagnò a Milano il cardinale che si recava dal fratello Ludovico il Moro. Alla corte del Moro, dopo aver sentito un napoletano cantare strambotti del Cariteo, improvvisò sul liuto poesie dello stesso genere, raggiungendo in breve tempo una perizia tale che ogni strambotto composto in quel periodo era attribuito al Ciminelli. Spesso l'esecuzione di tali recite veniva affidata a una bellissima cantante, Laura Birago, di cui il poeta era invaghito; a causa di questa passione, una notte, mentre ritornava da un colloquio con la donna, il C. fu aggredito e pugnalato da un sicario inviato dal marito geloso. A ricordo dello spiacevole incidente, rimase al C. una profonda cicatrice sul mento, che aggiungeva una nota caratteristica al suo aspetto.
Dopo il breve soggiorno milanese, tornò con il cardinale a Roma, dove fu accolto dagli amici e dai personaggi illustri che lo conoscevano e stimavano, con grande ammirazione per la nuova maniera di poetare appresa in Lombardia. L'istintiva vena poetica del C. otteneva, infatti, il consenso unanime dei letterati che frequentavano l'Accademia Cortesiana: Pietro Gravina, l'Accolti, il Calmeta (Vincenzo Colli), il quale, divenuto amico del poeta, ne scriverà più tardi una biografia.
In occasione del carnevale del 1491, il C. offrì agli amici un nuovo genere di poesia, componendo - a imitazione del Sannazzaro - l'egloga pastorale "Dimmi, Menandro mio, deh, dimmi sozio". L'egloga, rappresentata con il favore del cardinale Giovanni Colonna, colpiva duramente i vizi della corte pontificia, e provocò l'allontanamento del C. dal servizio del cardinale Sforza. Ormai libero, il poeta dovette affrontare gravi difficoltà economiche alle quali in parte sopperiva l'amico Calmeta ospitandolo spesso nella sua casa. Continuò, tuttavia, ad essere ammesso nei palazzi dei nobili romani, e riuscì ad ottenere la protezione del conte di Sarno, Gerolamo Estouteville. Ma il conte, caduto in disgrazia presso Innocenzo VIII, fu imprigionato e, a breve distanza di tempo, un certo Virginio da Pistoia ferì gravemente il C., per incarico forse di Franceschetto Cibo, figlio naturale del pontefice, che il C. pare avesse deriso in alcuni componimenti. Alloggiato, durante la convalescenza, dal prelato genovese Ibleto Fieschi, il C. in seguito fu assunto nuovamente al servizio del cardinale Ascanio.
Intorno al 1493, il C. si licenziò definitivamente dal cardinale Sforza e si trasferì a Napoli, su invito del principe Ferrandino, conosciuto probabilmente ad un convito offerto dal cardinale nel 1492, quando il principe aragonese si trovava a Roma per essere ricevuto dal pontefice Innocenzo VIII. Nello stesso anno 1493, la corte aragonese concesse al C. l'investitura di un canonicato nella chiesa di S. Pietro di Corno, e una prebenda nella badia regia di S. Martino d'Ocre e nell'arcipretura di Preturo. A Napoli il C. fu in rapporto con il Pontano e con il Sannazzaro, ma la sua permanenza nella città non, si protrasse a lungo, poiché nel 1494 seguì in Romagna Ferrandino, che invano tentava di resistere alle truppe di Carlo VIII.
La sconfitta ormai imminente degli Aragonesi convinse verosimilmente il C. a stabilirsi per qualche tempo nella corte di Urbino, dove era stato richiesto al principe aragonese dalla duchessa Elisabetta Gonzaga. Alla corte urbinate il C. ricevette un'ottima accoglienza ed incontrò il Tebaldeo dal quale apprese l'arte di trasformare il sonetto in galante tributo amoroso, celebrativo delle più svariate situazioni (uno sguardo, un gesto, un dono della donna amata). L'amore per Emilia Pio, moglie di Antonio da Montefeltro e cognata di Elisabetta, ispirò infatti al C. delicati sonetti ed una epistola, "Un umil servo il qual tacendo more", in cui traspare la passione senza speranza del poeta.
Da Urbino il C. partì, verso la fine del 1494, per iniziare una fortunata tournée nelle principali corti dell'Italia settentrionale. Al Principio del 1495 era sicuramente a Mantova, come risulta da una lettera di Giovanni Gonzaga, indirizzata alla marchesa Isabella il 25 genn. 1495, in cui è descritta la Rappresentazione della Voluttà, Virtù e Fama, composta e recitata alla corte dei Gonzaga dal C., il quale "assai lascivamente vestito" sostenne la parte della Voluttà. Nello stesso anno si recò a Milano con il marchese Francesco Gonzaga, per assistere alle fastose cerimonie con cui fu celebrata la presa di possesso del ducato da parte di Ludovico il Moro. Accolto onorevolmente alla corte sforzesca, il C. conobbe Baldassar Castiglione, ancora giovinetto, Niccolò da Correggio, Gaspare Visconti, e rivide l'amico Calmeta, divenuto segretario della duchessa Beatrice, moglie di Ludovico il Moro.
Nell'agosto del 1495 il C. raggiunse Novara, dove Ludovico Sforza, ormai siánore effettivo del ducato milanese, incontrò Carlo VIII reduce dalla battaglia di Fornovo; introdotto alla presenza del sovrano francese, che desiderava ascoltarlo, fu ammirato ed applaudito. Gli ultimi mesi del 1495 e l'anno seguente furono trascorsi dal C. a Milano, in giochi, feste, rappresentazioni, bruscamente interrotte, il 3 genn. 1497, dalla prematura scomparsa della duchessa Beatrice. Secondo la testimoni a del Calmeta, il C. rimase ancora nella città trattenuto forse, per amore della bella Cecilia Gallerani, più tardi amante del Moro.
Reclamato dal marchese Francesco Gonzaga, il C. andò a Mantova probabilmente nel febbraio del 1497, Il 22 giugno il cardinale Ippolito d'Este ringraziava la marchesa Isabella per avergli spedito alcune poesie del C., ma l'avvertiva che il poeta l'aveva ingannata, presentando come nuova una composizione risalente al soggiorno urbinate. In luglio pare che il C. si recasse per pochi giorni a Venezia; il 2 settembre fu richiesto ad Isabella dalla duchessa d'Urbino e, il 30 settembre, anche Guidubaldo pregò il marchese di Maritova di inviargli il Ciminelli. Ma solo nell'agosto del 1498 il C. si trasferì ad Urbino, dove si trattenne - escluso un breve viaggio compiuto a Genova - fino al dicembre del 1499, Giunto a Roma nel gennaio del 1500, entrò al seguito del Valentino, dal quale fu nominato cavaliere dell'Ordine gerosolimitano.
Mori improvvisamente a Roma il 10 ag. 1500 per un attacco di "febbre terzana doppia, quasi pestifera" - come scrive il Calmeta -, ed il suo corpo venne sepolto nella chiesa di S. Maria del Popolo.
Della copiosa produzione poetica del C. pochissimi componimenti furono editi durante la sua vita. Solamente dopo la morte del poeta, Francesco Flavio riunì per primo le rime del C. nel volume Opere del facundissimo SeraphinoAquilano (Roma 1502); negli anni successivi iniziò la strepitosa fortuna editoriale del C., le cui poesie ottennero (tra il 1502 e il 1513) ben venti edizioni.
L'opera del C. appartiene a quel genere di poesia denomipata "lirica cortigiana" non solo perché si rivolge di preferenza al pubblico delle corti, ma anche per il motivo che i suoi autori sono essenzialmente poeti cortigiani. Nella seconda metà del '400 - e nei primi decenni del secolo successivo - si assiste ad una ricca produzione di testi poetici, composti per intrattenere piacevolmente la raffinata società delle corti. La funzione, edonistica della poesia produce una varietà di soluzioni espressive, non di rado desunte anche dalla tradizione popolare. Sonetti, ballate, strambotti e barzellette figurano in quasi tutti i canzonieri dell'epoca, e rivelano il tentativo di divulgare un linguaggio poetico medio, più facilmente fruibile per i lettori. A questa tendenza si aggiunge il particolare non trascurabile che gran parte della lirica cortese nasce per essere musicata, favorendo in tal modo una più agevole ricezione del discorso poetico. Tali premesse spiegano l'incredibile successo raggiunto dal C., il quale univa alle doti del musico la capacità di amalgamare in sede poetica gli stili più diversi, per ottenere effetti particolarmente suggestivi.
La lettura delle rime del C., giunte a noi senza l'intonazione musicale, difficilmente può riprodurre l'impressione originaria, ma conferma tuttavia l'estrema duttilità di un linguaggio poetico, aperto ai più vari apporti. Reminiscenze provenzali e stiffiovistiche affiorano, infatti, nell'immagine dell'uccellino messaggero d'amore ("Vanne, uccellino a quella mia nimica"), e nel motivo della donna trait d'union tra l'uomo e Dio: "Spesso convien per lei tanto alto saglia / che conoscer mi fa che cosa è Dio" ("L'aquila che col sguardo affisa el sole"); mentre al modello petrarchesco si richiamano i sonetti che svolgono i temi tipici della lirica amorosa: la bellezza e il fascino della donna amata, la quale è paragonata alla mitica fenice ("lo cerco solo amar la mia fenice"), la sua crudele indifferenza che converte in marmo persino Cupido ("Quel nemico mortal della natura"), i pianti, le disperazioni, il tormento dèl poeta respinto ("Io giurerei che non ti offesi mai"). Nel C. il repertorio tradizionale è rinnovato, tuttavia, da un serie infinita di artifici formali (interrogazioni, dialoghi, allitterazioni, anafore, iterazioni) che ha suggerito ad A. D'Ancona la tesi di un secentismo ante litteram per un fenomeno linguistico spiegabile, invece, con l'esasperazione di moduli. sfilistici derivati dalla lirica petrarchesca.
Un contributo originale del C. è rappresentato dagli strambotti e dalle barzellette, il cui ritmo brioso conserva una traccia dell'accompagnamento musicale. Nello strambotto "Resguarda, donna, come el tempo vola", il motivo quattrocentesco della bellezza fugace viene espresso con particolare grazia ed arricchito di nuovi dettagli: "in breve se fa scura ogni viola... / così tua beltà ch'al mondo è sola / non creder come oro al foco affine"; in altri il gusto dell'assurdo e del gratuito sovverte, sul filo di una continua sorpresa, le leggi naturali: acqua e fuoco dimorano nella persona del poeta senza consumarsi a vicenda, perché egli nasconde nel cuore una fornace ardente ed effonde dagli occhi un largo fiume (strambotto "Se dentro porto"); ma, nuovo prodigio, le fiamme del suo amore non consumano la donna amata, che è di ghiaccio (strambotto "Se salamandra in fiamma vive"). Insolita semplicità d'argomenti ed un'agile struttura metrica caratterizzano le barzellette tra le quali divennero notissime "Poiché piacque alla mia sorte" e "Non mi negar signora", imitata nella poesia spagnola del sec. XVI: "Dime, sefiora, dì". L'inesauribile vena poetica del C. produsse inoltre capitoli, epistole amorose, egloghe, e due atti scenici (dell'Oroscopo e del Tempo, come li denomina V. R. Giustiniani), che, insieme alla Rappresentazione allegorica della Voluttà, VirtùeFama, furono recitati alla corte di Mantova tra il 1495 e il 1497.
Significative testimonianze dell'eccezionale prestigio goduto dal C. sono fornite dal volume commemorativo, dedicatogli dai più importanti poeti del tempo, Collettanee grece latine e vulgari per diversi auctori moderni nella morte de l'ardente Seraphino Aquilano (Bologna 1504), e dalla schiera numerosa di imitatori che il C. ebbe in Italia, Francia, Spagna ed Inghilterra.
Gli strambotti del C. sono stati pubbl. da B. Bauer Formiconi, Die Strambotti des Serafino Aquilano, München 1967; cfr. anche G. M. Monti, Uno strambotto ined. di Serafino Aquilano, in Rivista abruzzese, XXXI(1916), pp. 350 s.
Fonti e Bibl.: Fonte principale per la biogr. del C. è R Calmeta [V. Colli], Vita del facondo poeta vulgare S. Aquilano, in Collettanee grece latine e vulgari per diversi auctori moderni nella morte de l'ardente Seraphino Aquilano, Bologna 1504; altra fonte dell'epoca è A. Colocci, Apologia nell'opere di Seraphino, contenuta nella 2 ediz. besickiana delle Rime del C., Roma 1503; cfr. inoltre E. Casti, La vera genealogia di S. Aquilano, in Boll. della Soc. di storia patria A. L. Antinori negli Abruzzi, I(1889), pp. 66 ss.; e, per la ricostruzione degli anni 1497-99 della vita del C. cfr. A. Luzio-R. Renier, Mantova e Urbino, Torino-Roma 1893, pp. 89-96. Un'accurata bibl. delle ediz. si trova nella prefazione a Le rime di S. C. dall'Aquila, a cura di M. Menghini, I, Bologna 1894; e in G. Rossi, Ilcod. Estense X. 34, in Giorn. stor. d. letter. ital., XV(1897), pp. 15 s.; cfr. anche Id., Un'ediz. delle rime di S. Aquilano sfuggita ai bibliografi, ibid., XVII (1899), pp. 455 s. Per la critica cfr.: F. Flamini, Un virtuoso del Quattrocento, in Pag. di critica e d'arte, Livorno 1905, pp. 169-190;A. D'Ancona, Del secentismo nella poesia cortigiana del sec. XV, in Pagine sparse di letter. e di storia, Firenze 1914, pp. 63-97, 137-151; A. Ronda, Un poeta di corte della seconda metà del XV secolo. L'Aquila 1923;A. Caprioli Pirani, Varia fortuna di S. C. detto l'Aquilano, Roma 1928(con ricca bibliografia); B. Croce, S. Aquilano, in Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, III, Bari 1952, pp. 72-77;V. R. Giustiniani, S. Aquilano e il teatro del Quattrocento, in Rinasc., s. 2, XVI (1965), pp. 101-117, Sulla fortuna europea cfr. J. Vianey, L'influence ital. chez les précurseurs de la Pléiade, in Bull. ital., XXV (1903), 3, pp. 85-117;A. Cecchini, S. Aquilano e l'influenza della lirica italiana sulla lirica inglese del '500, L'Aquila 1934;J. C. Fucilla, A note on Aquilano's vogue in Spain, in Italica, XXXII (1955), pp. 104-106.