SENESCENZA E SENILITÀ
(XXXI, p. 378; App. II, II, p. 807)
Il fenomeno della senescenza riguarda chiaramente soltanto gli organismi viventi. Ogni altra accezione del termine fuori da questo campo è evidentemente un traslato più o meno efficace, anche se spesso si parla di senescenza dei colloidi o ''isteresi'', per un'estensione del concetto alle compagini macromolecolari, molto rappresentate nelle strutture dei viventi. D'altra parte, se ci atteniamo a un traslato ancor più generale, non si può non riconoscere che tutto nell'universo ha un'evoluzione, tutto si trasforma e decade (ma forse anche si rinnova) nel tempo. Ma il termine propriamente indica un fenomeno pertinente in modo peculiare agli organismi viventi, dai batteri fino all'uomo, anche se non per tutte le specie si manifesta allo stesso modo. I viventi sono organizzazioni materiali molto complesse, fondamentalmente similari nello schema generale, anche se poi diversissime nelle apparenze fenotipiche (cioè nel come si presentano concretamente), e da quel tipo di organizzazione derivano le loro prestazioni funzionali, tra le quali quella fondamentale di potersi autoriprodurre. Ma l'autoriproduzione non è che l'aspetto terminale (o quasi) dell'ancor più fondamentale autoregolazione di tutti gli aspetti strutturali e funzionali che sono in equilibrio dinamico tra loro e con l'ambiente: equilibrio dinamico (o dissipativo) il quale però non mantiene costante nel tempo il suo punto, ma anzi varia secondo i cicli della vita, da quello onnicomprensivo per ogni vivente, dalla nascita alla morte, a quelli più brevi e inseriti in esso, delle trasformazioni secondo le età, le stagioni (perché v'influisce anche l'ambiente esterno col quale appunto i viventi sono anche in equilibrio), dei ritmi giornalieri.
Questa autoregolazione coinvolge anche la sua stessa durata come equilibrio possibile, e infatti per ogni individuo cessa con la morte, che è una cessazione filosoficamente necessaria, indipendentemente dagli accidenti che possono variamente (e di fatto lo fanno) anticiparla. Ma per ogni determinata specie, e parzialmente anche per ogni determinata popolazione della specie, poiché anche la nicchia ecologica nella quale essa si sviluppa e perdura nella vita può in qualche modo minore diversificarsi, vi è un termine di vita statisticamente rispettato: secondo la nostra cronologia umana, da pochi minuti per i batteri a poche ore per certi insetti ad anni e decenni per alcune forme vegetali e diversi animali. Nessun animale raggiunge le longevità di certi alberi, ed è noto che tra i mammiferi vi è un grande divario; spesso le forme meno longeve sono anche più piccole di mole e hanno un metabolismo più accelerato. Una situazione del genere chiaramente indica che la durata della vita, indipendentemente dalle vicissitudini dei singoli individui, è in larga misura geneticamente programmata, nel senso che il supremo sistema regolativo della macchina organismica, cioè il genoma, ha in sé anche il programma della sua fine.
Ciò ha portato a controllare con esperimenti se già le cellule isolate dal corpo e tenute lungamente in coltura con espianti successivi dimostrino una scadenza fatale, cioè se anche la popolazione in coltura (essa non è un organismo, ma un insieme di cellule più o meno eguali) sia destinata al declino e alla morte. Alcune ricerche hanno dato risultati positivi con le cellule normali, mentre le cellule neoplastiche si sono dimostrate incapaci di arrestarsi nella crescita moltiplicativa; una parte di questi risultati può esser dovuta al fatto che le cellule normali in coltura tendono anche a differenziarsi in modo specifico (secondo il loro specifico programma relativo al tessuto di origine), ma comunque si può concludere che se anche le cellule isolate e svincolate dai maggiori rapporti intercellulari, intertessutali e organismici nella totalità finiscono per arrivare a un declino e all'incapacità di moltiplicarsi ulteriormente, a maggior ragione è comprensibile il declino o senescenza di un intero organismo, ove i condizionamenti sono estremamente moltiplicati.
Anche entro una stessa specie, la durata media della vita dei vari individui, che già non può non oscillare statisticamente intorno all'astratto limite genetico, è anche influenzata dalla condotta di tutta la vita precedente la morte e, quindi, anche dalla patologia pregressa o dalla subpatologia, dalle abitudini, dall'igiene e così enumerando.
Ma tenendoci ancorati a quell'astratto limite genetico, possiamo dire che la senescenza in sé è un evento fisiologico; insieme alla stessa morte, ambedue condizioni del procedere dell'evoluzione fra i viventi. Biologicamente parlando, ogni individuo esce gradatamente (in taluni casi improvvisamente) dalla scena del mondo dopo essersi riprodotto, e cioè dopo aver messo in operazione genomi con temperie diverse per i futuri adattamenti. Una prova di questo è data dalla senescenza parziale di parti dell'organismo, la quale appunto è del tutto fisiologica: si pensi alle foglie caduche degli alberi, agli organi genitali della femmina umana nella menopausa, alla diversa estensione del sistema linfatico nel bambino e nell'adulto, ecc.
I medici spesso trascurano di riconoscere a pieno questa valenza fisiologica della senescenza e non trovano quasi limite nel prospettare mezzi e cure al fine di prolungare al massimo la vita, che è tutt'uno che considerare la stessa senescenza una malattia, secondo l'antico aforisma senectus ipsa morbus. In realtà apparirà chiaro che l'insidia morbosa, com'è presente lungo tutta la vita (ed è già notevole alla nascita) sarà ancor maggiore nella vecchiaia, poiché al declino strutturale e fisiologico non può non corrispondere una maggiore suscettibilità alla malattia. Bisogna quindi distinguere la pura senilità (che è un po' un'astrazione e che comunque è abbastanza rara) dalle malattie che così facilmente la investono. Infatti, coloro che muoiono in assai tarda età hanno spesso minori lesioni tipiche della vecchiaia quali si riscontrano comunemente (l'arteriosclerosi in particolare); essi sono arrivati a quell'età proprio perché sono stati meno colpiti da quella malattia, cioè sono invecchiati più fisiologicamente. Sono stati rilevati e studiati molti cambiamenti che sono caratteristici del declino senile; essi sono naturalmente strutturali, di fisiologia più integrata e, nell'analisi moderna, della dinamica biochimica e immunologica.
Per quanto riguarda la struttura ricordiamo la tendenza all'aumento dello stroma connettivale in alcuni organi, all'opposto della tendenziale atrofia dei muscoli lisci e volontari, l'atrofia degli organi della sfera sessuale che, come si è accennato, inizia anche molto prima, specie nella donna, l'opacamento del cristallino per modificazione delle sue proteine, una rarefazione dello stroma calcifico delle ossa (osteoporosi), una tendenza ai depositi di eteri colesterolici, una perdita dell'elasticità di molti tessuti, che nel polmone favorisce l'instaurarsi di uno stato di enfisema, in generale uno stato del sangue tendente alla diminuzione dei globuli rossi e a una diminuzione dell'emoglobina.
Dal punto di vista funzionale si rileva una generale e progressivamente minore efficienza di prestazione degli organi e apparati, in particolare di quelli della circolazione, cuore compreso, della motilità intestinale, della capacità respiratoria, dell'attività metabolica che oltre a ridursi subisce anche alcune deviazioni, specie del ricambio dei glicidi e dei lipidi. Anche la reattività alle situazioni patologiche cambia: ne è un esempio la velocità di risposta tessutale nella guarigione delle ferite, che già comincia a rallentare dopo la giovinezza. Questi sono i principali cambiamenti riguardanti la vita vegetativa; per la vita di relazione vanno ricordati la minore prestazione del sistema motorio, degli organi dei sensi (minorazione dell'udito e in modo minore, a meno di malattie, anche della vista), il cambiamento della voce, la minore profondità del sonno, la perdita o la difficoltà della memoria recente.
L'analisi della situazione senile in termini di biologia molecolare si è molto sviluppata negli ultimi tempi, sia per la disponibilità dei mezzi d'indagine, sia nella speranza di trovare un astratto primum movens e potervi reagire. Si sono trovate le seguenti principali carenze: una generale, ma anche differenziata a seconda dei distretti, inefficienza della DNA-riparasi, col che si determina una minore capacità autocompensatoria del genoma delle cellule, nel quale invece si vanno accumulando insulti inerenti allo stesso vivere; un aumento dei radicali liberi perossidanti che danneggiano i tessuti e vi depositano i cosiddetti pigmenti da usura, e ciò per una deficienza dei sistemi antiperossidi; una diminuzione della sorveglianza immunologica, onde la tendenza allo sviluppo di alterazioni autoimmunitarie. Naturalmente in tutta questa congerie di fatti e fattori andrebbe bene distinto ciò che può essere la causa dell'invecchiamento da ciò che invece ne è la conseguenza, che è relativa alla programmazione genetica.
Le malattie che più di sovente si accompagnano alla senescenza, ma non la definiscono, sono l'osteoporosi e altre malattie osteoarticolari, l'arteriosclerosi, il diabete senile, l'ipertrofia prostatica, la cataratta, il morbo di Parkinson, la demenza senile. Infine v'è un particolare rapporto tra senilità e tumori. Quei tumori che non sono da cause esterne (per es. per inquinamento ambientale, per il fumo) crescono d'incidenza con l'età, come segno di un essenziale e progressivo spostamento della capacità regolativa del genoma delle varie cellule.
Bibl.: D.S. Fairweather, J. Grimley Evans, Ageing, in The metabolic & molecular basis of acquired diseases, a cura di D.D. Cohn e altri, Londra 1990, vol. i; E.J. Masoro, Biology of disease; biology of aging: facts, thoughts and experimental approaches, in Lab. Invest., 65 (1991), pp. 500-610; C.E. Finch, New models for new perspectives in biology of senescence, in Neurobiology of aging, 12 (1991), pp. 625-34; J.L. Kirkland, The biochemistry of mammalian senescence, in Clin. Biochem., 25 (1992), pp. 61-75.
Patologia della senescenza: la demenza tipo Alzheimer. - Sotto tale denominazione, spesso sostituita da sigle più o meno differenti (DA, Demences Alzheimer's; DAT, Demences Alzheimer's Type; FAD, Familial Alzheimer's Demences, ecc.), sono comprese le sindromi demenziali degenerative già distinte da E. Kraepelin in ''demenza pre-senile di Alzheimer'' e ''demenza senile''. A partire dagli anni Ottanta il problema eziopatogenetico della malattia di Alzheimer è stato affrontato con metodicità e vigore particolari nell'ambito della patologia classica (neuroistopatologia), della biologia molecolare, e della genetica, con particolari sperimentazioni, in vitro e in vivo, mobilitando molteplici centri di ricerca, sparsi in vari continenti e idealmente riuniti nella cosiddetta ''comunità di Alzheimer''.
All'incremento dell'attività di ricerca ha corrisposto un'eccezionale intensificazione dell'attività pubblicistica che ha raggiunto livelli numericamente elevatissimi: secondo M.N. Rossor (1993) nel 1992 il numero degli articoli concernenti in qualche modo le DAT ha raggiunto, sul piano mondiale, la media di uno ogni cinque ore. Probabilmente a questo straordinario fervore per i problemi delle DAT non è estraneo un certo allarme per il numero crescente di soggetti ''a rischio'', a causa dell'allungamento della speranza di vita contrappuntato dal calo delle nascite: infatti sulla base di statistiche, sia pure semplicemente orientative, si calcola che per la fascia di popolazione compresa fra i 65 e i 75 anni la prevalenza delle DAT non supera il 5%, mentre tocca il 10% per la fascia sino a 80 anni e raggiunge il 30% oltre quest'età.
Patologia. - Sul piano neuroistopatologico, nel 1982 hanno avuto particolare risalto le indagini eseguite da un gruppo di ricercatori di Baltimora che, sotto la guida di D.L. Price, hanno effettuato l'analisi quantitativa dei neuroni del cervello di un cospicuo numero di soggetti deceduti in fase di piena senilità, confrontando i reperti ricavati in coloro che avevano sofferto di DAT con i reperti provenienti da soggetti di pari età ma che ne erano rimasti esenti. Detta analisi ha permesso di stabilire che nei soggetti colpiti da DAT, e solo in essi, si era verificata una rarefazione particolarmente accentuata a carico dei neuroni del Nucleo basale di Meynert, formazione situata in ciascun emisfero cerebrale nella compagine della sostanza innominata, all'altezza della confluenza dei due tratti ottici nel chiasma omonimo. Queste perdite neuronali e le già individuate degenerazioni granulo-vacuolari dei neuroni piramidali dell'ippocampo (v. XXXI, p. 378: La cerebropatia senile) concorrono a determinare un calo dell'attività colinergica della corteccia cerebrale, con ripercussioni negative sulla memoria e sul comportamento. Infatti dalle suddette formazioni s'irradia verso la corteccia temporo-parietale la quota maggiore del tratto colinergico ascendente. Con altre ricerche sono state dimostrate, nello stesso anno, analoghe alterazioni neurotrasmettitoriali, di minore entità, a carico della noradrenalina, in conseguenza del deficit della dopaminobetaidromilasi provocato dalla degenerazione del locus coeruleus, e della serotonina per la compromissione del tronco dell'encefalo; fra i neuropeptidi si è verificato unicamente un cospicuo abbassamento della somatostatina.
Di attento studio e di considerazioni varie sono stati oggetto i reperti relativi alle degenerazioni neurofibrillari, i cosiddetti ''vortici'' e ''grovigli'' (neurofibrillary tangles, nella terminologia anglo-americana), che sono risultati costituiti da esili neurofilamenti appaiati a due a due e attorcigliati a elica l'uno sull'altro e nei quali è stata dimostrata una forma alterata (fosforilata) della proteina tau (v. oltre: gene APOE), che nella fase fetale, e solo in essa, era stata riconosciuta normale componente del citoscheletro neuronale a livello dei microtubuli; non è superfluo precisare che ''vortici'' e ''grovigli'' non sono esclusivi delle DAT: sono stati dimostrati in altre condizioni di sofferenza cerebrale, nei pugili, nei portatori della sindrome di Down (DS) e nel cervello di abitanti di alcuni distretti dell'isola di Guam (Pacifico occidentale).
L'interesse per le placche senili si è concentrato, o trasformato, in quello per la loro essenziale componente, la sostanza amiloide, o meglio, la Proteina β Amyloid (PβA), presente, oltre che nelle placche, in molte altre sedi, nel sistema nervoso (filamenti neuritici, pareti dei vasi sanguiferi della corteccia cerebrale e delle meningi) e fuori di esso (cute, tessuto sottocutaneo, intestino), sia in sofferenti di DAT, sia in soggetti indenni, purché in fase avanzatissima di senilità.
Una prima descrizione della struttura chimica dell'amiloide si è avuta nel 1984 a opera di G.G. Glenner e U.W. Wong, che hanno esaminato l'amiloide presente nelle pareti dei vasi della pia meninge, costituita da una catena aminoacidica di modeste proporzioni (29 nucleotidi) e l'hanno denominata PβA. L'anno successivo altri due ricercatori, C.L. Masters in Australia e K. Bayreuther in Germania, hanno studiato l'amiloide prelevata, però, dalle placche senili: ne hanno ricavata una descrizione quasi identica, anche se con qualche nucleotide di più, di quella precedente, denominandola Amyloid A 4 Protein. Ricerche orientate al confronto tra le due descrizioni hanno dimostrato lo scarso significato delle differenze e le due denominazioni sono considerate sinonimi.
Substrato genetico. - L'avvio a ricerche metodiche orientate a comprovare il possibile intervento di fattori genici nell'insorgenza delle DAT e, in caso affermativo, a precisarne le modalità è avvenuto a opera di un gruppo internazionale di ricercatori, dislocati in varie nazioni, Italia compresa, guidati da P.H. St George-Hyslop operante a Boston (Massachusetts General Hospital - Harvard Medical School); essi hanno collaborato alla ricostruzione preliminare, quanto mai ampia e accurata, degli alberi genealogici di un consistente numero di soggetti affetti da DAT, scavando in profondità nelle rispettive anamnesi familiari − per più generazioni, anche otto − per poter distinguere, con sufficiente aderenza alla realtà, i casi ''sporadici'' da quelli a trasmissione ereditaria e, nell'ambito di questi, quelli a trasmissione autosomica dominante. Di questi ultimi sono stati individuati quattro ceppi, che, come si vedrà, hanno costituito un materiale clinico quanto mai utile allo spostamento delle ricerche a livello cromosomico. A tale scopo, nonostante la consapevolezza che all'eterogeneità della sindrome clinica dovesse corrispondere un substrato genico tutt'altro che omogeneo, l'attenzione del gruppo di ricercatori si concentrò sul cromosoma 21 per la correlazione della sua trisomia con la sindrome di Down, che talora presenta qualche nota comune con le DAT: un decadimento mentale in età non proprio avanzata, i già accennati reperti autoptici di degenerazione neurofibrillare (''vortici'' e ''grovigli''). La tecnica del mappaggio genetico per ricombinazione ha permesso, in questa fase della ricerca, d'identificare nel braccio lungo del cromosoma 21 il tratto in cui è localizzato un gene delle FAD.
Una ricerca parallela guidata da R.E. Tanzi e da R.L. Neve, cui, assieme a ricercatori della precedente indagine, ha partecipato lo stesso St George-Hyslop, ha preso in considerazione il controllo genico della PβA, perché questa proteina, anche se per mancanza di una prova concreta non può essere definita fattore causale, è ampiamente coinvolta con la DAT. Questa ricerca, imperniata sull'uso del cDNA (complementary DNA), ha permesso di localizzare nello stesso braccio lungo del cromosoma 21, in una regione posta al di sopra di quella correlata con la DS, il gene codificante per la PβA, o meglio per la macromolecola che funziona da suo precursore. A tale proposito è opportuno far presente che detta funzione è svolta non da una ma da tre macromolecole Protein Amyloid Protein Precursors, o AβPPP-495-751-770, ciascuna delle quali, in corrispondenza dell'aminoacido 289, dà inserzione a una catena aminoacidica di lunghezza modesta, ma differente l'una dall'altra: queste catene, staccandosi dalle macromolecole, costituiscono la PβA. Dev'essere ricordato, inoltre, che è stata osservata la migrazione dei precursori dal sito della loro formazione, nel corpo del neurone o pirenoforo, lungo il neurite in direzione della sua terminazione, e che frammenti contorti di quest'ultima usualmente circondano le placche senili. Sempre per quanto concerne i precursori non va dimenticato che l'esame della loro struttura autorizza a presumere che essi possono svolgere un'azione antienzimatica sugli inibitori proteasici.
Nel 1992, cinque anni dopo la scoperta del ruolo svolto dal cromosoma 21 nel controllo genico delle DAT, il dubbio che un solo gene potesse controllare una sindrome clinica discretamente eterogenea è stato risolto grazie alla scoperta di G.D. Schellemberg e dei suoi collaboratori che al cromosoma 21 hanno affiancato il cromosoma 14, dimostrando in esso un locus per un gene dotato di un'attività nettamente superiore a quella dimostrata dal gene collegato al cromosoma 21, caratteristica poi confermata dallo stesso St George-Hyslop. Nel 1993 è stata la volta del cromosoma 19, già noto per la produzione, col suo gene APOE, dell'Apolipoproteina E, trasportatrice del colesterolo nella corrente ematica. Autore di questa acquisizione è stato A.D. Roses della Duke University della Carolina del Sud, che con alcuni collaboratori ha correlato il rapporto fra alcune varianti alleliche del suddetto gene e l'instaurazione del processo degenerativo proprio delle DAT.
Roses ha preso in considerazione, essenzialmente, le varianti del gene APOE caratterizzate dalla presenza degli alleli ε2-ε3-ε4 e ha osservato che la presenza di un individuo dell'allele ε4 in doppia copia (ε4/ε4) orienta l'esordio della demenza verso gli anni 68,4, mentre l'insorgenza si orienta verso gli anni 76,5 nel caso di associazione di una copia di ε4 con una di ε3 (ε4/ε3) o di ε2 (ε4/ε2) in caso di presenza esclusiva delle copie e2, ε3 (ε2/ε3; ε2/ε2; ε3/ε3) l'esordio si verificherebbe oltre gli anni 80. Roses e il suo collaboratore W.J. Strittmatter, che per la neurodegenerazione attribuiscono notevole importanza alla fosforilazione della proteina tau, correlano − il primo in via d'ipotesi, il secondo dandolo per dimostrato in base a un metodo sperimentale allestito personalmente − le differenze nell'esordio della malattia alla diversa capacità di protezione contro la fosforilazione posseduta dalle varianti alleliche: irrilevante nella variante ε4, di una qualche efficienza nelle altre due. In un seminario organizzato dal NIA (National Institute on Aging) le osservazioni di Roses sono state accolte con interesse e così le sue ipotesi di lavoro, il cui sviluppo, tuttavia, è stato giudicato irto di difficoltà. Invece, è stata giudicata tutt'altro che valida, da K. Kosik e molti altri, la dimostrazione prospettata da Strittmatter, in quanto basata su una tecnica sperimentale che implica una concentrazione proteica eccessiva, nettamente superiore a quella che si osserva in vivo.
Nuovi orientamenti nelle ricerche di patologia sperimentale. - L'argomento che in questi ultimi anni ha subito un particolare approfondimento è rappresentato dallo specifico significato da attribuire alla PβA, se ''causa'' o ''prodotto'' di malattia. Purtroppo si deve riconoscere che a tutto il 1993 i risultati delle ricerche, sia in vitro, sia in vivo, si sono limitati ad accostarsi a una tesi o all'altra e non hanno raggiunto un risultato decisivo. Particolarmente illustrative nei confronti delle due opposte tesi sono due ricerche guidate da S.G. Younkin. La prima (1992) ha condotto alla dimostrazione della presenza della PβA nel liquor cefalo-rachidiano umano, sia in pazienti affetti da DAT, sia in soggetti perfettamente sani ed esenti, nei collegamenti familiari, da qualsiasi rapporto con l'Alzheimer. La seconda (1993), molto più complessa, è stata diretta a verificare se la capacità amiloidogenica di un precursore della PβA possa essere influenzata dalla presenza di una particolare mutazione nella sua catena aminoacidica.
La ricerca è stata imperniata sulla cultura in vitro di molteplici linee cellulari prelevate da un neuroblastoma umano (M 17) e previamente transfettate col precursore APP770 normale (wild-type) o con sue varianti: tre erano rappresentate da una mutazione semplice; una, invece, presentava una mutazione doppia consistente nella sostituzione della lisina e della metionina (lys670− met671 in βAPP770) con asparagina e leucina; un'altra linea di coltura era stata impegnata per la verifica della mancanza di azione amiloidogenica del vettore usato per la transfettazione, per poter escludere nella valutazione dei risultati l'intervento di un artefatto tecnico. A parte alcuni particolari superflui per questa sede, l'esperimento è stato coronato da una conclusione di notevole interesse, essendosi realizzata, nella linea cellulare transfettata con la doppia mutazione, la liberazione nel mezzo ambiente di un quantitativo di Aβ pari a sei volte quello presente nelle altre linee cellulari, fatta eccezione per la linea cellulare transfettata col solo vettore in cui la βA era del tutto assente.
Gli esperimenti in vivo hanno l'obiettivo di produrre in animali di laboratorio una malattia artificiale, un modello di malattia, che consenta di studiare le DAT nelle manifestazioni elementari e preliminari, per ricavare informazioni sulle modalità capaci di bloccarne lo sviluppo. Per la loro realizzazione, consistente nell'induzione di una malattia genica in animali privi, al loro stato naturale, del necessario substrato morbigeno, si è dovuta prendere in considerazione la modifica del patrimonio genico degli animali prescelti (topi), trasformandoli in animali transgenici con un intervento di notevole delicatezza da effettuarsi allo stato pre-embrionario e, cioè, in quello di uovo già fecondato ma non ancora segmentato. I risultati di questi esperimenti, che hanno impegnato vari gruppi di ricercatori, non hanno corrisposto sinora alle aspettative, in quanto o si sono limitati a produrre una deposizione di PβA sulla corteccia cerebrale e sull'ippocampo (Quom, Cordell e altri 1991) o hanno fornito risultati interpretabili come artefatti tecnici di laboratorio dagli stessi autori (D.O. Wirak 1991) o da esperti appositamente nominati per una verifica.
In quest'ultimo grave insuccesso sono incappate le ricerche di Kawabata, Higgins e Gordon che avevano annunciato, pubblicandolo su una rivista scientifica quanto mai autorevole (1991), di aver ottenuto sul topo le tipiche alterazioni dell'Alzheimer, cioè i grovigli neurofibrillari e le placche senili. Purtroppo, però, le microfotografie che avrebbero dovuto suffragare tali reperti, per essere state riprodotte prive di un qualsiasi rapporto col tessuto cerebrale circostante, non fornivano elementi suscettibili di dimostrare che effettivamente le lesioni si erano sviluppate proprio nel cervello di topo anziché in frammenti di tessuto cerebrale umano e solo in un secondo tempo penetrati, chissà in quale modo, nel tessuto cerebrale dell'animale di esperimento. Per di più l'insuccesso contro cui cozzarono gli altri dodici esperimenti, effettuati a scopo di verifica, contribuì a troncare qualsiasi discussione in merito.
Tuttavia, secondo quanto pubblicato da E. Giacobini (1993) su un quotidiano, il tentativo di realizzare un modello vivente di Alzheimer proseguirebbe nel quadro di un programma assai ben coordinato, con la collaborazione di due rinomati istituti appartenenti a due nazioni differenti, il Karolinska Institutet di Stoccolma e l'università di Heidelberg in Germania. Il primo istituto dovrebbe avere il compito di prelevare, isolare, purificare e clonare il gene già ben identificato e studiato in due famiglie svedesi, mentre il gruppo di Heidelberg dovrebbe effettuare l'immissione del materiale patogeno nell'ovocellula fecondata di una topina e procedere al successivo impianto in utero. In caso di successo della gravidanza, a nascita avvenuta, i topolini sarebbero riportati in Svezia per uno studio clinico completo.
La mancanza di un'interpretazione pienamente soddisfacente della patogenesi delle DAT lascia spazio a interpretazioni di differente complessità, come quella di un'alterazione della proteina tau, scaturita come sopraccennato dal ritrovamento di una sua forma fosforilata a livello delle degenerazioni neurofibrillari e ulteriormente valorizzata dagli studi del gruppo di Roses. Altra interpretazione ugualmente complessa è rappresentata dalla compromissione del sistema neurotrasmettitoriale colinergico che darebbe luogo a un compenso del calo di colina nel mediatore (acetil-colina), a spese della fosfatildicolina delle lamine neuronali, compromettendo la protezione che detti elementi esercitano sulle formazioni molecolari presenti nel neurone; questo perturbamento agirebbe in modo particolare sulle APP: le attiverebbe causando un'iperproduzione di sostanza amiloide. Del ruolo attribuito all'alluminio nell'amiloidogenesi si può fare a meno di parlare, dato che la relativa ipotesi appare ormai considerevolmente ridimensionata.
Sintomatologia. - Per quanto riguarda il complesso dei sintomi, domina la scena un decadimento demenziale a carattere progressivo, più o meno rapido, principalmente imperniato sulla compromissione della memoria, soprattutto di quella a breve termine e di quella dei nomi delle persone (afasia nominum, o amnesia nominum) e, in un secondo tempo, anche degli oggetti; coesistono gravi lacune del patrimonio ideativo con impoverimento della critica e delle funzioni mnestico-associative. A differenza di quanto si verifica nella demenza arteriosclerotica e in quella multi-infartuale non intervengono deficit circolatori cerebrali localizzati. Le bioimmagini, specialmente quelle che si ottengono con la tomografia a Risonanza Magnetica Nucleare, forniscono una chiara dimostrazione dell'atrofia cerebrale diffusa: assottigliamento delle circonvoluzioni cerebrali, allargamento dei solchi, dilatazione dei ventricoli, riduzione dell'area occupata dall'ippocampo. Il ricorso alla tomografia con emissione di positroni (PET) con l'uso del desossiglucosio dimostra un significativo calo del consumo di glucosio, specialmente nelle aree associative della corteccia parieto-temporale: se è particolarmente compromesso il linguaggio, nell'emisfero sinistro; se sono colpite le attività visuo-spaziali, in quello destro.
Terapia. - La terapia è ancora in fase di studio e di elaborazione: in data affatto recente si è raggiunto un risultato sia pure modesto nella protezione dell'attività neurotrasmettitoriale colinergica con l'adozione di un anticolinesterasico, la tetraidroaminoacridina (più brevemente Tacrina) il cui impiego è stato autorizzato negli Stati Uniti dalla Food and Drugs Administration nel secondo semestre del 1993. I vantaggi indotti da tale prodotto possono definirsi incoraggianti, piuttosto che soddisfacenti. Per la loro modestia sono apprezzabili solo nei primi anni di malattia, quando la sintomatologia è più leggera, e consistono nella ricomparsa nel paziente di un accenno ad autonomia con conseguente miglioramento del comportamento spontaneo. Per altro il trattamento è controindicato negli epatopazienti e il relativo dosaggio dev'essere attuato con prudenza e seguito con attenzione per gli effetti che la Tacrina esercita sulla funzionalità epatica, effetti che possono richiedere la riduzione delle dosi e anche l'interruzione della cura. Metodi basati sull'uso del NGF (Nerve Growth Factor) e delle neurotrofine in genere sono ancora allo studio.
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