Senato
Principale e caratteristica istituzione dell'antica Roma; se ne attribuiva la creazione a Romolo, che l'avrebbe formato di cento membri anziani (senes) di censo patrizio (patres), quale consiglio del rex.
In età repubblicana il S., aprendosi via via anche ai plebei (conscripti), aumentò il numero dei componenti ed estese la propria autorità fino a diventare il supremo organo di governo; ma fu irrimediabilmente scosso nel suo prestigio nel corso dei conflitti civili del primo secolo, quando la crisi delle istituzioni e il drammatico affermarsi al potere effettivo di personalità di eccezionale rilievo (cui a tratti il S. tentò di opporsi con generosi ma sfortunati sussulti di dignità) tolsero potere e spazio di azione all'antico consesso. La riforma augustea, mirante a ridare decoro morale all'ordo senatorius, non ne ristabilì tuttavia le antiche prerogative, ché anzi nell'età imperiale il S. venne riducendosi a organismo consultivo marginale esautorato dalla burocrazia di palazzo e talvolta compromesso in impotenti conati di reazione all'inarrestabile evoluzione costituzionale verso il dominatus assoluto. L'appartenenza al S., divenuta da tempo, in pratica, un diritto ereditario, caratterizzò allora il ceto aristocratico e conservatore, cui peraltro non venne mai meno un alto prestigio culturale e morale e che nel crepuscolo dell'Impero e nell'affermarsi del cristianesimo rimase lungamente il custode dell'antica tradizione pagana e del mito della grande Roma.
Ma quali che siano state le vicende costituzionali del S., qui occorre soprattutto ricordare che D. poté documentarsi sull'azione di quest'istituto principalmente attraverso le Deche I e III di Tito Livio e le tarde compilazioni che ne derivarono: vale a dire che egli conobbe il S. nel periodo più glorioso della sua autorità, quando il coraggio e la saggezza dei suoi provvedimenti - che Livio celebra con epico respiro - decisero le sorti di Roma. Può stupire quindi che nella sua ricostruzione-interpretazione della storia romana (incentrata, specie nel libro II della Monarchia, sull'età repubblicana in cui Roma più spesso periclitò e risollevandosi diede testimonianza del favore divino) D., piuttosto che nel S., veda nei singoli personaggi della tradizione storica gli strumenti provvidenziali del progresso dell'Impero, e del S. non faccia ricordo tra i ‛ baiuli ' dell'aquila nel VI del Paradiso. In realtà, per D. il S. si configura come collegium, cioè come una di quelle istituzioni quibus homines ad rem publicam quodammodo religati esse videntur (Mn II V 7): in altre parole come " il migliore e indispensabile tratto d'unione tra la molteplicità dei cittadini e l'unità del governante " (Vinay), con un'interpretazione della costituzione romana secondo gli schemi della dottrina politica aristotelica.
Nel quadro di un esame dedicato ai de intentione populi romani signa indubitabilia tam in collegiis quam in singularibus personis (Mn II V 6) la trattazione dei collegia si limita ad addurre un'auctoritas dal De Officiis ciceroniano (II VIII) ov'è detto fra l'altro che " regum, populorum et nationum portus erat et refugium senatus ", senza aggiungere alcun commento e passando subito a un'ampia rassegna delle personae; dal che appare come a queste ultime, in definitiva, D. attribuisca la responsabilità, il significato e l'esemplarità dell'azione concreta. Le altre menzioni del S. nell'opera dantesca sono abbastanza incidentali.
In Cv IV XXVII 10, a proposito delle virtù proprie alla vecchiaia, si nota che lo collegio de li rettori fu detto Senato perché composto di vecchi, ai quali specialmente appartiene la virtù della giustizia (per questa osservazione, cfr. Cicerone Senect. VI 19 " Quae [scil. consilium, ratio, sententia] nisi essent in senibus, non summum consilium maiores nostri appellassent senatum "). In Mn II XI 6 si nega che Erode fosse vicem Tiberii gerens sub signo aquilae vel sub signo senatus: dov'è poco probabile che D. alluda " alla distinzione delle province in imperiali (" sub signo aquilae ") e senatorie (" sub signo senatus ") " (Vinay), giacché tale distinzione sembrerebbe presupporre da parte di D. la conoscenza di fonti antiche che con tutta verosimiglianza gli rimasero invece ignote, onde, come lo stesso Vinay suggerisce in alternativa, si dovrà piuttosto pensare a un'allusione generica " alle due supreme fonti d'autorità nella tradizione romana: il senato e l'imperatore ".
Una menzione del S. è anche in Mn II V 12, mentre Senatoribus almae Urbis, unitamente a tutti gli altri governanti d'Italia, è diretta l'epistola v. Il S. romano dei tempi di D. e precisamente dopo la costituzione di Niccolò III del 1378 era formato da uno o due membri appartenenti al ceto dirigente romano, di diretta nomina papale, ma divenne ben presto prerogativa delle grandi famiglie cardinalizie che in tal modo si contesero la signoria della città. Si noti infine l'espressione di Ep VI 11 Senatus aeternus, " corte celeste ".