Sempre più disuguali
Recenti studi dell’OCSE e del FMI denunciano l’acuirsi dei divari di reddito in quasi tutti i paesi avanzati, e l’effetto negativo di questo fenomeno sulla società. La tesi di Piketty e le misure di Obama.
Negli ultimi 3 decenni la disuguaglianza nei redditi disponibili è aumentata in quasi tutti i paesi avanzati e si è così interrotta la tendenza, piuttosto generalizzata, verso la sua riduzione in atto dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Come documentano molti studi, questo processo non ha interessato allo stesso modo tutti i paesi e, d’altro canto, le disuguaglianze attuali, per quanto crescenti, sono inferiori a quelle di inizio Novecento. Di questo non vi è però da sorprendersi, considerando che nel secolo scorso è stato concepito e si è affermato il welfare state che tra i suoi scopi ha proprio quello di mitigare le disuguaglianze che si formano nei mercati.
L’importanza del welfare state si apprezza meglio chiedendosi quanto più alta sarebbe oggi la disuguaglianza in sua assenza. A questo scopo occorre misurare la disuguaglianza nei cosiddetti redditi di mercato, cioè i redditi complessivi percepiti da un nucleo familiare prima del pagamento delle imposte e prima di ricevere i trasferimenti pubblici. I dati dicono che questa disuguaglianza è molto maggiore di quella nei redditi disponibili e, soprattutto, che negli ultimi decenni essa ha conosciuto – in molti paesi, tra cui il nostro – un drastico peggioramento che il welfare state fatica sempre più a contenere. Per esempio tra il 1985 e il 2010, in base ai dati OCSE, in Italia la disuguaglianza nei redditi disponibili – misurata con l’indice di Gini – è passata dal 28,7 al 31,9%, mentre quella nei redditi di mercato è cresciuta molto di più, dal 38,6 al 50,3%.
Questo peggioramento della disuguaglianza di mercato è in larga misura dovuto all’aggravarsi, non soltanto in Italia, delle disuguaglianze tra i percettori di redditi da lavoro, sia dipendente sia autonomo. Una prova di questa tendenza è la comparsa di 2 figure, tra loro opposte, in precedenza neanche immaginabili: i working poor, cioè coloro che benché occupati non raggiungono il reddito che corrisponde alla soglia della povertà, e i working rich, cioè coloro che rientrano tra i più ricchi della società e derivano tutto o gran parte del loro reddito dalla remunerazione del proprio lavoro piuttosto che dal rendimento della propria ricchezza.
Questi sviluppi appaiono a molti, ma non a tutti, preoccupanti.
Coloro che se ne preoccupano poco propongono, tra gli altri, l’argomento che la disuguaglianza riferita al mondo come un tutto negli ultimi anni non sarebbe aumentata; anzi, potrebbe anche essere diminuita grazie all’impetuosa crescita economica di paesi poveri e popolosi, come l’India e la Cina, che ha permesso a molti ‘poveri estremi’ di uscire dal loro stato; va, però, aggiunto che ciò non ha impedito alla disuguaglianza interna di quei paesi di crescere enormemente.
Misurare con precisione la disuguaglianza a livello globale è un compito molto difficile. Chi si è misurato con esso trova che la diminuzione, se c’è stata, non ha raggiunto valori significativi e, soprattutto, che la disuguaglianza nel mondo come un tutto resta altissima, al livello di paesi in cui vige la segregazione razziale.
Un altro argomento tranquillizzante è quello dell’effetto benefico che la disuguaglianza avrebbe sulla crescita economica. Il ragionamento, in breve, è che una più elevata disuguaglianza favorisce la crescita economica e, quindi, gli svantaggiati di oggi potranno godere domani di un reddito più elevato. Questa idea è molto diffusa; tuttavia, l’analisi delle teorie economiche e, soprattutto, dei dati mostra che essa – soprattutto se elevata al rango di legge generale – poggia su fragili basi.
Sul piano teorico, i possibili collegamenti tra disuguaglianza e crescita sono molteplici e derivano da meccanismi diversi che spingono in direzioni opposte.
Anche per questo è difficile credere che esista una legge generale che lega la disuguaglianza alla crescita.
Dalle verifiche empiriche, poi, emerge una grande varietà di risultati, mutevoli in relazione – tra l’altro – al periodo considerato e ai paesi esaminati. La possibilità che tassi di crescita diversi si associno alla stessa disuguaglianza può dipendere dalla diversità delle istituzioni presenti nelle varie fasi storiche e dalle politiche adottate.
Potrebbero essere rilevanti anche le caratteristiche della disuguaglianza.
Per esempio, se la disuguaglianza deriva da premi molto alti riconosciuti dal mercato al cosiddetto ‘capitale umano’, cioè alle competenze e conoscenze di ognuno, oppure da rendite consentite dalle protezioni di cui si può godere anche nei mercati, le implicazioni per la crescita di una stessa disuguaglianza ‘quantitativa’ possono essere diverse.
Numerosi indizi lasciano pensare che oggi, soprattutto nel nostro paese, buona parte della disuguaglianza sia del secondo tipo e questo potrebbe essere di per sé sufficiente per invocarne la riduzione in nome della crescita.
Un altro argomento, piuttosto antico ma sempre valido, è quello degli effetti negativi della disuguaglianza sulla domanda di consumo. Il reddito che si trasferisce dai poveri ai ricchi è reddito che invece di essere integralmente, o quasi, consumato sarà in larga parte risparmiato. La domanda complessiva di consumo ne risente e, in assenza di aggiustamenti compensativi in altre componenti della domanda – da escludere in una fase nella quale la spesa pubblica ristagna o retrocede e gli investimenti privati cadono –, tutto ciò si traduce in un vincolo alla crescita.
Dunque, nelle condizioni attuali vi sono validi motivi per sostenere che la disuguaglianza anziché favorire la crescita la danneggia e a questa conclusione sono di recente giunti, benché seguendo vie diverse, anche studi pubblicati dal Fondo monetario internazionale e dall’OCSE.
In questo contesto si fanno più frequenti i suggerimenti di politiche dirette a contrastare le disuguaglianze: Thomas Piketty propone una tassa globale sui patrimoni, mentre Anthony B. Atkinson, facendo riferimento soprattutto alla Gran Bretagna, avanza un articolato pacchetto di proposte che non sono soltanto di carattere fiscale.
Il tema sembra avere conquistato, almeno un po’, l’attenzione dei politici, ma più negli Stati Uniti che in Europa, se è vero che esso è al centro dell’appena avviata campagna presidenziale statunitense e, ancora di più, se a esso Obama ha dedicato una speciale attenzione nella sua legge finanziaria per il 2016. In quella legge, infatti, sono previste misure che dovrebbero trasferire reddito dalle società finanziarie e dai percettori di capital gain alla classe media sotto forma anche di agevolazioni per l’istruzione dei figli, allo scopo di limitare i rischi di un ulteriore rallentamento della già bassa mobilità sociale negli Stati Uniti, un tempo considerata la ‘terra delle opportunità’.
In realtà il fatto che le disuguaglianze si producono principalmente nei mercati e non per effetto di un indebolito ruolo del welfare state richiederebbe di intervenire sulle regole di funzionamento dei mercati per renderli più capaci di contenere le disuguaglianze, soprattutto quelle meno accettabili. Di interventi di questo tipo potrebbe giovarsi anche la crescita economica e, dunque, il complessivo benessere sociale.
La teoria di Piketty
Il volume Il capitale nel ventunesimo secolo (2013) dell’economista francese Thomas Piketty disamina l’andamento secolare delle disuguaglianze, unito alla tesi che queste siano destinate ad aumentare e che la ricchezza possa ulteriormente concentrarsi nelle mani dell’1% più ricco della popolazione. Ha generato un ampio dibattito in molti paesi, spingendo alla riflessione sulle ricadute sociali delle dinamiche del capitalismo.
Il Nobel 2015 è dedicato alle disuguaglianze
Dallo scoppio della crisi economica nel 2008, gli studi sulle disuguaglianze, sulle loro cause e sulle possibili politiche pubbliche da adottare per ridurle hanno avuto notevole rilevanza nella comunità scientifica: tra essi spiccano quelli di Angus Deaton (scozzese, nato a Edimburgo nel 1945 e dal 1983 professore all’Università di Princeton negli Stati Uniti), insignito del premio Nobel per l’economia 2015. Il Comitato del premio Nobel spiega che le opere di Deaton si ricollegano all’analisi di consumi, povertà e welfare, e ruotano attorno a 3 questioni fondamentali:
- la prima riguarda il modo in cui i consumatori distribuiscono la spesa per beni diversi e conduce al modello elaborato da Deaton e John Muellbauer della almost ideal demand, per cui la domanda di ciascun bene dipende dal prezzo degli altri beni, dal reddito del consumatore e da fattori demografici quali l’età o la composizione della famiglia;
- la seconda concerne la quantità di reddito risparmiata e quella impiegata nei consumi, tematica rispetto alla quale Deaton rileva che ciascun consumatore adatta i suoi consumi al reddito individuale, le cui fluttuazioni sono diverse rispetto al reddito aggregato;
- la terza riguarda l’utilizzo di affidabili misurazioni dei livelli di consumo individuale come strumenti per comprendere taluni meccanismi sottostanti lo sviluppo economico.
La scelta di insignire Deaton del premio Nobel per l’economia è stata influenzata dall’eccezionale attualità dei temi trattati in molti dei suoi studi. Alle disuguaglianze Deaton ha dedicato il libro del 2013 La grande fuga: salute, ricchezza e origini della disuguaglianza, in cui evidenzia come il mondo sia oggi migliore che in passato, ma anche come gli eventi che hanno consentito il progresso dell’umanità abbiano reso possibile solo ad alcuni ‘la grande fuga’ da deprivazione, da cattive condizioni di salute, dalla mortalità precoce, lasciando indietro molti altri. Vengono dunque a generarsi disuguaglianze che sono ‘conseguenza’ del progresso: non tutti si arricchiscono nello stesso momento, non tutti hanno accesso negli stessi tempi all’acqua potabile, ai vaccini, ai farmaci contro gli attacchi di cuore. Ma le disuguaglianze a volte possono incidere sul progresso persino in modo positivo: per esempio, constatando i vantaggi dell’istruzione, oggi sono molti di più i bambini indiani che vanno a scuola. Un risvolto negativo emerge allorché chi ha avuto successo cerca di impedire agli altri di raggiungere i medesimi obiettivi: chi è ricco da non avere bisogno di ciò che il governo offre in termini di sostegno alla salute o all’istruzione non ha interesse nel pagare le tasse per soste nere tali servizi. E in virtù della propria ricchezza, può influenzare le decisioni politiche, minando la fornitura di quei beni pubblici che sono essenziali per la collettività.
Per saperne di più
- A.B. Atkinson, Inequality. What can be done?, Harvard University Press, Cambridge Mass., 2015
- M. Franzini, Ricchi e poveri. L’Italia e le disuguaglianze (in)accettabili, Milano, 2010
- M. Franzini, E. Granaglia, M. Raitano, Dobbiamo preoccuparci dei ricchi? Le disuguaglianze estreme nel capitalismo contemporaneo, Bologna, 2014
- C. Lakner, B. Milanovic, Global income distribution: from the fall of the Berlin wall to the great recession, in World Bank, Policy Research Working Paper 6719,
2013