SEMITI
. I. Estensione territorriale. - Col nome di Semiti è designato un vasto e compatto gruppo etnico e linguistico dell'Asia anteriore le cui sedi presentavano nell'antichità e (prescindendo da pochi nuclei isolati formatisi in seguito a particolari vicende migratorie) presentano tuttora una singolare continuità territoriale. I suoi confini sono segnati a N. dalle catene dell'Amano del Tauro e dell'Antitauro, che separano l'Asia Minore e l'Armenia dalla Siria e dalla Mesopotamia; a E. dall'orlo occidentale dell'Altipiano Iranico affacciantesi sulla valle del Tigri e dalla costa occidentale del Golfo Persico; a S. dalla costa dell'Arabia lungo l'Oceano Indiano; a O. dalla costa dell'Arabia lungo il Mar Rosso, dalla depressione dell'Istmo di Suez, dalla costa della Siria fino al golfo di Alessandretta. Entro questi confini non mancano (v. appresso) le infiltrazioni di stirpi allogene, ma il carattere etnico generale del territorio è quanto mai uniforme e le differenze che distinguono i varî sottogruppi non sono così grandi da alterare sostanzialmente l'unità semitica. Da questo territorio ben delimitato si è dipartito, già in età molto remota, un movimento migratorio (forse anche più di uno) che ha prodotto lo stanziamento stabile di popolazioni semitiche sulla porzione meridionale della costa africana del Mar Rosso e nel retroterra (Etiopia); invece i tentativi di penetrazione semitica che a N. della migrazione etiopica e parallelamente a questa si erano, fin da età antichissima, diretti verso l'Egitto, non acquistarono carattere di stabilità se non in un tempo prossimo a noi, con la conquista araba del secolo VII d. C., in conseguenza della quale un altro popolo semitico, gli Arabi, si stabilì in Africa, dapprima nella valle del Nilo, che risalì fino a congiungersi, nel Sudan, con le estreme propaggini dei Semiti di Etiopia, quindi lungo la costa e nel retroterra dell'Africa settentrionale, fino a raggiungere l'Europa attraverso lo stretto di Gibilterra e a introdurre nella Spagna elementi etnici semitici, peraltro non copiosi né immuni da mescolanze allogene né destinati a prevalere nel territorio occupato.
Anche più scarse numericamente, benché importantissime per la storia della civiltà, sono due altre correnti migratorie che condussero i Semiti oltre i confini del loro territorio: quella dei Fenici, che molto prima degli Arabi si erano disseminati, in centri cittadini, lungo le coste africane e spagnole e nelle grandi isole mediterranee; quella degli Ebrei, del tutto particolare per origine e per sviluppi posteriori (v. diaspora), in seguito alla quale colonie di origine semitica si sono stanziate in tutti i paesi d'Europa e anche, in tempi recenti, in America. Le comunità ebraiche contemporanee (e fino a un certo punto anche le colonie di Arabi della Siria stabilite nell'America Settentrionale e Meridionale) segnano, a rigore di termini, l'estremo punto di arrivo dell'espansione migratoria semitica.
L'uso del vocabolo "Semiti" si riconnette alla famosa "Tavola dei popoli", documento di origine molto discussa che si trova inserito nel racconto biblico della storia dell'umanità subito dopo il diluvio (Genesi, X): sono Semiti i popoli discendenti da Sem, il primogenito di Noè; i quali vengono pertanto a essere distinti dai discendenti degli altri due figli, Cam e Iafet. Come è stato osservato fin dagl'inizî dello studio scientifico dell'etnografia e della linguistica semitiche, le assegnazioni etniche della Tavola dei popoli non corrispondono sempre alla realtà: la Tavola rappresenta un'elaborazione ingenuamente erudita di racconti della tradizione genealogica e dell'osservazione diretta di dati geografici e linguistici; tuttavia, all'ingrosso, essa elenca abbastanza compiutamente i principali popoli semitici e attesta che alla fine del 2° millennio a. C. (l'epoca più probabile della redazione) era viva presso gli Ebrei la coscienza che le stirpi che oggi si dicono semitiche (e alle quali gli Ebrei stessi appartenevano) avevano tra loro una stretta affinità. Questa affinità, come per gl'Indoeuropei, il gruppo etnico col quale il confronto è più ovvio, così anche per i Semiti si manifesta soprattutto nei linguaggi, la cui parentela fu osservata fin dai primordî dello studio scientifico dei popoli semitici. L'affinità linguistica non è, per sé sola, sufficiente prova dell'unità etnica, sicché anche per i Semiti, come per gl'Indoeuropei, questa è piuttosto postulata che rigorosamente dimostrabile; tanto più che un assoluto criterio antropologico distintivo della razza semitica non è stato finora trovato. Mentre infatti è sicura e facile la distinzione del tipo raziale semitico da quelli negro e negroide da un lato, mongolo e mongoloide dall'altro, non altrettanto chiaramente si differenziano i Semiti dai così detti Camiti, dagl'Indoeuropei, dagli Asianici (razze "caucasiche"). Tuttavia (senza pregiudizio del problema dei substrati etnici eventualmente preesistenti ai Semiti nel territorio da essi occupato) è ovvio che al sussistere di un'individualità linguistica dei Semiti deve corrispondere, sia pure in senso generico, una loro individualità etnica: in altri termini, i Semiti, in un'età preistorica finora imprecisabile e partendo da sedi non ancora sicuramente accertate, devono essersi separati in blocco dagli altri gruppi umani più affini a essi - Indoeuropei, Asiani, Camiti - prima di procedere a quell'ulteriore suddivisione che ha condotto all'individuarsi dei singoli popoli e linguaggi semitici quali appaiono in età storica.
2. I popoli semitici. - Questi popoli (dei quali l'enumerazione segue da N. a S. la distribuzione geografica corrispondente all'inizio della loro rispettiva evoluzione storica, senza riguardo alla loro provenienza da sedi più remote) sono i seguenti:
1. Assiro-Babilonesi, termine di conio moderno e di significato approssimativo, col quale si designano le varie stirpi, unificate nel linguaggio e nella civiltà, che in varî tempi si stabilirono nella valle dell'Eufrate e del Tigri, dal suo estremo settentrionale fino al suo sbocco nel Golfo Persico. Queste stirpi, fin dalla prima occupazione delle loro sedi storiche, sono state fortemente commiste con elementi allogeni.
2. Aramei, attestati molto più tardi degli Assiro-Babilonesi nelle loro sedi storiche, poste all'interno della fascia arcuata costituita dal territorio di questi; si estesero verso O. e S., giungendo con i loro estremi settentrionali alle pendici dell'Amano e al golfo di Alessandretta, con i meridionali al Deserto siro-arabico, e compenetrandosi più tardi tanto con gli Assiro-Babilonesi quanto con i Cananei e con gli Arabi.
3. Cananei, termine anch'esso recente nell'accezione estesa che qui gli è data, mentre antica è l'accezione ristretta, per la quale v. appunto canaan; formano la più interna delle tre fasce gravitanti dalla valle dei Due fiumi verso il Mediterraneo (le prime due sono costituite dagli Assiro-Babilonesi e dagli Aramei) e occupano la striscia costituita dal Libano e Antilibano, dall'Altipiano israelitico-giudaico (Siria e Palestina) e dalla depressione tra il Mar Rosso e il golfo di el-‛Aqabah, nonché i territorî a O. e a E. di questa striscia, fino al Mediterraneo da una parte, fino al Deserto siro-arabico dall'altro. Del gruppo cananeo fanno parte i Fenici, gli Ebrei, gli Ammoniti, i Moabiti, gli Edomiti.
4. Arabi ed Etiopi, occupanti i primi il vastissimo territorio a S. dei tre gruppi precedenti, ossia la Penisola Arabica e il Deserto siro-arabico che riattacca questa al continente dell'Asia Anteriore. Dal ramo meridionale degli Arabi procedono gli Etiopi o Abissini, in seguito a una migrazione che li condusse nel territorio dell'Etiopia attuale.
3. L'Origine e la sede primitiva dei Semiti. - L'esplorazione paleoetnologica e archeologica del territorio occupato in età storica dai Semiti è stata finora tanto incompleta da non offrire alcun criterio definitivo per la sua preistoria; tuttavia, anche sulla scorta degli scarsi risultati fin qui ottenuti, è possibile dimostrare in esso la presenza di una civiltà paleolitica e neolitica che sembra anteriore alla venuta dei Semiti. Questi pertanto devono avere occupato le loro sedi storiche provenendo da altri territorî. Ma quali questi siano e in quale direzione si siano mosse le prime migrazioni semitiche, è problema ancora lontano da una soluzione soddisfacente. L'indagine scientifica di tale problema assegnava nella sua fase più antica valore di testimonianza storica al racconto biblico, e faceva pertanto muovere i Semiti (come, d'altra parte, i Camiti e i Iapetiti) dall'Altipiano Armeno dove si collocava il punto d'approdo dell'arca di Noè, li faceva discendere la valle mesopotamica e di lì li faceva spargere nei territorî più tardi occupati da essi. Una conferma di questa teoria si riscontrava negli avanzi, peraltro non ancora ben noti, della civiltà assiro-babilonese, la cui remotissima antichità, che ben presto si rivelò superiore a quanto di storico era noto fin allora in base alla cronologia biblica, sembrava assegnarle il posto di prima tra le civiltà semitiche in ordine di tempo. Sennonché, scossa la fede nel carattere di assoluta storicità del racconto biblico, ed essendosi constatato, dopo la decifrazione della scrittura cuneiforme e il progredire della conoscenza della civiltà assiro-babilonese, che questa, nonché presentare un carattere primitivo, era il prodotto di una lunga evoluzione storica, e che il suo linguaggio rappresentava una fase molto pregressa del primitivo linguaggio semitico, la teoria dell'origine mesopotamica dei Semiti cadde in discredito, e si credette di dover ravvisare la culla dei Semiti nell'Arabia, dove sia il linguaggio sia i costumi dei nomadi presentavano un aspetto sintomatico di arcaicità. Ma alla teoria "araba" (sostenuta con grande energia dallo svizzero A. Sprenger) si oppose nel 1878 l'italiano I. Guidi, il quale, nella sua classica memoria Della sede primitiva dei popoli semitici, fondandosi sulle più recenti conquiste della linguistica comparativa, si propose di ridar valore alla tesi tradizionale, pur astenendosi da ogni apprezzamento intorno alla storicità del racconto biblico. Tuttavia la teoria araba continuò ad aver fortuna, specialmente dopo la constatazione che tutte le migrazioni semitiche di cui si aveva sicura notizia storica erano mosse da S. verso N. e dopo il riconoscimento (già osservato peraltro dal Guidi) di certe affinità linguistiche tra il semitico e i linguaggi camitici, le quali fecero supporre l'esistenza di una più vasta unità primitiva camito-semitica e diedero ansa all'ipotesi di un'origine africana dei Semiti (Th. Nöldeke). D'altra parte L. Caetani sostenne nel 1907, fondandosi su dati geologici, che le condizioni climatiche postulate dal Guidi per i linguaggi (e quindi per i popoli) semitici potevano applicarsi, meglio che alla Mesopotamia, all'Arabia stessa in una fase immensamente più antica dell'età dei primi documenti storici (l'argomento principe del Guidi consisteva nell'osservazione che tutte le lingue semitiche possiedono un vocabolo comune, nahar, per designare il "fiume", mentre ciascuna di esse ha un vocabolo differente per il "monte").
Il problema delle origini semitiche è peraltro legato, com'è ovvio, a quello più generale dell'origine e della diffusione del genere umano. Riconosciutosi che la storia dell'umanità si è andata svolgendo attraverso un periodo di tempo smisuratamente più lungo di quanto si supponesse fino a pochi decennî addietro e che gli spostamenti umani attraverso la Terra sono stati molto più vasti e più complicati di quanto si credesse, la questione delle origini semitiche assume un aspetto nuovo, nel quale le due teorie contrastanti possono comporsi in un insieme più complesso. È infatti possibile supporre che i Camito-semiti siano partiti in origine dall'Asia centrale, dove avrebbero occupato sedi prossime a quelle primitive degl'Indoeuropei e degli Asiani, procedendo in direzione sudovest, in un'età così antica e in uno stadio di civiltà così primordiale, da consentire, attraverso un'evoluzione più volte millenaria, la differenziazione dei due grandi gruppi linguistici camitico e semitico nonché il formarsi dei caratteri etnici specifici dei Camiti e dei Semiti dopo che essi ebbero occupato le loro sedi attuali, rispettivamente in Africa e in Asia. Le correnti migratorie semitiche le quali, in un'epoca sempre remota ma molto più vicina a noi, si riscontrano dirigersi da S. a N. sarebbero in tal caso soltanto correnti di ritorno, rifacenti a ritroso il cammino percorso molti millennî innanzi dalla primitiva migrazione camitosemitica. Con questa ipotesi trovano la loro spiegazione più soddisfacente anche le corrispondenze linguistiche del gruppo camitosemitico e dei gruppi indoeuropeo, caucasico, forse anche ugrofinnico. Qualunque siano per risultare in avvenire i rapporti tra questi diversi gruppi linguistici (l'indagine di essi è appena iniziata), è fin d'ora legittimo supporre che gli antenati dei Camitosemiti, degl'Indoeuropei, dei Caucasici, degli Ugrofinni in una fase antichissima della loro storia abbiano occupato sedi contigue, mentre le affinità linguistiche di questi gruppi non potrebbero spiegarsi con l'ipotesi dell'origine africana dei Camitosemiti.
Poiché la corrente migratoria dei Semiti da sud (Arabia) verso nord (Mesopotamia e Siria) è già attestata fin dal 4° millennio a. C., è necessario che sia trascorso un periodo di tempo molto lungo da quando i Camitosemiti iniziarono la loro prima migrazione dall'Asia centrale verso l'Asia anteriore e l'Africa; periodo durante il quale essi sì differenziarono al punto di scindere l'unità primitiva nei due gruppi camitico e semitico e infine, preso assetto stabile nei loro territorî, una parte di essi, i Semiti di Arabia, cominciarono a sentirsi a disagio nella regione da loro occupata e iniziarono la seconda grande fase migratoria, in direzione nord. La mancanza di sicuri criterî archeologici non permette ancora di calcolare, neppure approssimativamente, l'epoca della prima migrazione camitosemitica; non è inverosimile, peraltro, che essa risalga al periodo più arcaico del Paleolitieo.
Nell'Africa stessa sembra che i Camiti abbiano occupato dapprima un territorio molto più esteso di quello dove si trovano attualmente, se ad essi devono attribuirsi gli avanzi preistorici e le pitture rupestri recentemente scoperti a sud del Sahara. La loro retrocessione sarebbe stata provocata dall'espansione dei popoli negri e negroidi dell'Africa centrale, e sotto la spinta di questi si sarebbe prodotto quel movimento retrogrado di alcune stirpi camitiche verso oriente, al quale sarebbe dovuto il sorgere della civiltà egiziana.
Se così è, agl'inizî della prima migrazione camito-semitica non può attribuirsi un'età più recente di 10 o 12 mila anni a. C.; forse anzi essa è anche più antica.
4. Le migrazioni semitiche nell'età storica. - L'ipotesi esposta sopra non potrà naturalmente essere verificata se non in seguito a lunghe indagini paleoetnologiche e linguistiche; ma, comunque sia di ciò, rimane accertato che i Semiti propriamente detti devono avere assunto la loro fisionomia caratteristica nel territorio dell'Arabia; infatti mantengono tuttora il loro pieno valore i due argomenti principali in favore della tesi "araba": la maggiore arcaicità del tipo linguistico dell'arabo di fronte alle altre lingue semitiche; la direzione costante da S. a N. di tutte le migrazioni semitiche avvenute in tempi storici. Se sia da accettarsi completamente la teoria del Caetani, che cioè la spinta a emigrare verso nord sia venuta ai Semiti arabi dall'inaridimento progressivo della loro penisola è difficile a stabilirsi finchè non sia conosciuta la cronologia delle migrazioni più antiche: quelle finora note sono avvenute in un'età (4° millennio a. C.) in cui quell'inaridimento doveva già essere compiuto da qualche millennio. D'altra parte, se anche negli ultimi sei o sette millennî le condizioni climatiche dell'Arabia non si sono modificate in misura sensibile, l'impulso a emigrare può egualmente essere spiegato mediante il naturale accrescimento demografico, in seguito al quale le zone adatte al pascolo dovevano diventare gradatamente insufficienti al mantenimento della popolazione.
I Semiti dei quali si hanno le prime notizie storiche sono quelli che si riscontrano nella Babilonide, dove si trovano a contatto (almeno a partire dal 4° millennio a. C.) con i Sumeri, i creatori della civiltà mesopotamica. Dalla circostanza che, nel tempo più antico in cui le relazioni tra Sumeri e Semiti sono attestate, questi si trovano stanziati a settentrione di quelli, E. Meyer ha voluto dedurre che i Semiti abbiano preceduto i Sumeri (la cui provenienza e pertinenza etnica sono tuttora oscure) nell'occupare la Babilonide. Ora è verosimile che i Sumeri abbiano già trovato nel paese, al momento della loro venuta, un primo strato di popolazione camitosemitica, diverso però dai Semiti di provenienza araba: questi, non avendo forze sufficienti per invadere il territorio sumerico, possono averlo aggirato risalendo il corso dell'Eufrate attraverso il Deserto siro-arabico e avere varcato il fiume più a nord, volgendosi poi in direzione Sud, così come fecero ripetutamente, molti secoli più tardi, gli Aramei e gli Arabi, impediti dal penetrare direttamente nella Babilonide dalla presenza in questa di stati superiori per civiltà e organizzazione. A ogni modo i Semiti della Babilonide (ai quali si dà di norma il nome di Accadi), mentre conseguivano la supremazia politica sui Sumeri, ne assorbivano la civiltà superiore, a cominciare dalla scrittura cuneiforme; cosicché, nonostante l'età remota dei documenti che provengono da essi, la lingua e il carattere sociale e religioso degli Accadi presentano un grandissimo divario dal tipo semitico originario. Delle vicende particolari degli Accadi dopo il loro assetto a nazione ben definita è detto alla voce babilonia e assiria (si vedano le voci particolari anche per gli altri popoli semitici che saranno via via ricordati); basti qui ricordare la comparsa di un altro popolo, gli Assiri, il quale sembra provenire da una migrazione semitica posteriore: stanziatisi nella regione più settentrionale della valle del Tigri e dell'Eufrate (essendo quella meridionale già occupata dagli Accadi), essi si mischiarono fortemente con la popolazione presemitica; la loro ulteriore marcia verso nord (attestata già per il 3° millennio a. C. dalle cosiddette "tavolette cappadociche") fu arrestata dalla resistenza opposta dalle stirpi asianiche e indoeuropee dell'Asia Minore.
A una successiva ondata semitica appartiene la cosiddetta dinastia araba (quella del famoso Ḫammurabi), avvenuta alla fine del 3° millennio e alla quale è dovuto l'intensificarsi della semitizzazione della Babilonide.
Parallelamente alle migrazioni semitiche verso la Babilonide e la Mesopotamia, e a occidente di essa, altre si dirigono verso la Palestina e la Siria: a una di queste appartengono gli Amurru o "Cananei orientali", la cui influenza si fece sentire anche sulla Babilonide; a un'altra i Cananei in senso stretto, i quali probabilmente trovarono già in Palestina una popolazione semitica immigratavi anteriormente e certo numerose popolazioni non semitiche. Una parte dei Cananei, stabilitisi sulla costa del Mediterraneo e, molto più tardi, sviluppatisi a nazione commerciante e marinara, furono conosciuti dai Greci col nome di Fenici e, con la loro espansione nel Mediterraneo centrale e occidentale, recarono elementi etnici e culturali semitici molto al di là dell'Asia anteriore. A nord dei Fenici, nel territorio dell'odierna el-Lādhiqiyyah (Lattaquié), si sono trovate di recente le tracce di un'altra popolazione semitica, forse affine agli Amurru, la quale ha lasciato ampia documentazione della propria civiltà nelle tavolette di Rās Shamrā. Nel terzo millennio e nella prima metà del secondo Siria e Palestina rimasero sotto l'influenza politica e culturale dell'Egitto, ma più volte da esse partirono movimenti offensivi verso l'Egitto stesso, senza che tuttavia un'occupazione duratura di questo paese da parte di stirpi semitiche abbia mai avuto luogo, a quanto sembra (v. hyksôs).
Una delle più cospicue migrazioni semitiche, la cui importanza è stata capitale per lo svolgimento ulteriore della storia dei Semiti, è quella che ebbe inizio, sempre nella stessa direzione N-S., verso la metà del 2° millennio e si sviluppò durante almeno due secoli: essa è quella che condusse gli Aramei, gli Ebrei e i popoli loro affini (Ammoniti, Moabiti, Edomiti) nelle regioni dove essi assunsero consistenza etnica e si diedero assetto politico. I nuovi venuti, sovrappostisi ai precedenti immigrati semiti e amalgamatisi con essi (tipico è il sincretismo di Ebrei e Cananei), modificarono profondamente il loro aspetto originario, tanto più che, accanto ai Semiti dell'immigrazione più antica e agli avanzi dello strato presemitico, trovarono nel territorio siro-palestinese altre popolazioni di razze diverse, scese da settentrione fino dal 2° millennio a immettere nuovo sangue, nuove istituzioni e nuove idee nel complesso etnico, sociale e culturale dell'Asia anteriore. I nuovi venuti costituivano alla loro volta una mescolanza di stirpi di origine diversa, in cui elementi asianici ed egei ed elementi indoeuropei si erano intrecciati e fusi in varie guise: Filistei, Hittiti, ecc. Da ciò risulta che di un "semitismo" puro non si può parlare per nessuno dei popoli stabiliti nell'Asia anteriore né dal punto di vista etnico né da quello della civiltà.
Quasi immune da influssi estranei (tuttavia la presenza di uno strato anteriore di popolazione sembra attestata dalla presenza di caste inferiori, quali quelle dei cacciatori e dei metallurgici) rimaneva invece il serbatoio dei popoli semitici, l'Arabia. Da essa nuove ondate di tribù nomadi erano sospinte verso settentrione con movimento ininterrotto, il quale tuttavia per varî secoli fu contenuto dall'assetto stabile raggiunto dagli stati dell'Asia anteriore e specialmente dall'affermarsi del dominio di vasti e potenti imperi, quello degli Assiri e poi quello dei Persiani, i quali opponevano all'invasione degli Arabi l'argine delle guarnigioni disseminate al limite del deserto. Con la caduta dell'impero persiano (sec. IV a. C.) il movimento migratorio degli Arabi assume un ritmo più celere e sulle rovine degli antichi stati si formano aggregati politici arabi, talvolta assurti a vere e proprie dinastie, come quelle dell'Osroene e della Commagene, o addirittura a stati nazionali arabi, come quello dei Nabatei. Ma il movimento migratorio di gran lunga più importante (non tanto per numero quanto per conseguenze politiche e culturali) fu quello che il Caetani ha felicemente definito "l'ultima migrazione semitica", ossia le conquiste degli Arabi, i quali a metà del sec. VII d. C., unificati dalla nuova religione di Maometto e favoriti dal logorio degl'imperi romano-bizantino e persiano-sassanide, mossero da ogni parte della penisola a invadere l'Asia anteriore, già semitizzata a più riprese nel corso di oltre quattro millennî. L'immensa estensione delle conquiste arabe, travalicando i confini raggiunti fino allora dal semitismo, semitizzò definitivamente sotto l'aspetto della lingua (e anche, naturalmente, con elementi religiosi e culturali) gran parte dell'Africa settentrionale, spingendosi poi fino in Europa. Qui peraltro la semitizzazione non fu che fenomeno effimero, mentre a essa rimasero inaccessibili, nonostante l'occupazione politica, l'Iran e l'Asia Minore.
Molti secoli prima che gli ultimi Semiti d'Arabia muovessero alla conquista dell'Asia anteriore, una parte di essi, e precisamente quelli che, distinti per lingua e per civiltà dai nomadi dell'Arabia settentrionale e centrale, costituirono poi gli stati dell'Arabia meridionale, diramarono le loro propaggini di là dal Mar Rosso e, stabilite colonie nell'attuale Etiopia, finirono, soprattutto mercé l'assimilazione delle popolazioni cuscitiche sottomesse, con l'assumere una propria individualità etnica e linguistica. In che età sia avvenuta la semitizzazione dell'Etiopia è impossibile stabilire, nello stato attuale delle nostre conoscenze, ma con ogni probabilità essa è anteriore al primo millennio a. C.
5. Caratteri etnici, sociali, religiosi. - I singoli popoli semitici appaiono nella loro concreta figura storica notevolmente differenziati, non già dal punto di vista linguistico (che anzi, come si dirà più oltre, la parentela delle lingue semitiche è molto stretta), ma da quello della loro composizione etnica, della loro costituzione sociale, politica e religiosa, delle loro vicende storiche. È pertanto malagevole distinguere in essi un fattore comune che si possa assumere a caratteristica generale della razza semitica. I tentativi che sono stati ripetutamente fatti di definire questa caratteristica peccano in genere di astrattezza, mentre d'altra parte errano per lo più nel considerare come specificamente semitico questo o quell'elemento che non è se non la risultante di un determinato e individuale svolgimento storico. Si può tuttavia riconoscere, specialmente negli Arabi nomadi (Beduini) tra i quali sopravvive immutata l'antichissima società semitica, qualche elemento più rappresentativo del semitismo, che presso gli altri popoli semitici più progrediti e più esposti alle influenze straniere si è o completamente obliterato o mantenuto in forme latenti e alterate.
Perfino dal punto di vista antropologico il cosiddetto "tipo semitico" si distingue imperfettamente dagli altri facenti parte della così detta razza "orientalida" (v. razza, XXVIII, p. 914). Nell'Arabia stessa, dove questo tipo è più frequente, esso non appare quasi mai con assoluta purezza: le unioni con altre razze (specialmente quella "etiopida"), già attestate in tempo antico e verosimilmente praticate in età molto anteriore a quella per la quale se ne ha la documentazione, lo hanno alterato in misura grandissima. Molto più notevole è poi l'immistione di elementi allogeni negli altri popoli semitici, tanto che nei Babilonesi-Assiri è addirittura da ammettersi una percentuale bassissima di sarigue semitico: le rappresentazioni della figura umana che si riscontrano nella statuaria offrono piuttosto un tipo armenoide. Anche negli Aramei e nei Cananei la commistione è stata molto forte; fortissima poi negli Etiopi.
Neppure nell'organizzazione sociale i Semiti presentano caratteri assolutamente originali, né quelli che si possono considerare come primitivi si sono poi mantenuti attraverso lo sviluppo storico dei singoli popoli. Data l'origine nomade dei Semiti, è ovvio trovare presso di loro le forme sociali caratteristiche del cosiddetto ciclo pastorizio: patriarcato e costituzione tribalizia. Tracce di antico matriarcato si riscontrano presso gli Arabi preislamici e, in misura più ristretta, presso gli Ebrei dell'età premonarchica; sono quasi nulle presso i Babilonesi-Assiri. L'organizzazione della tribù si ritrova quasi pura presso gli antichi Arabi e sopravvive parzialmente nei Beduini contemporanei; avanzi abbastanza notevoli ne presentano anche gli Ebrei. Ma in questi appunto può scorgersi, attraverso il loro graduale passaggio dalla vita nomade a quella sedentaria dopo la conquista della Palestina intorno al sec. XIV a. C., il dissolversi della tribù, cui subentra il più ristretto gruppo gentilizio da un lato, lo stato monarchico dall'altro. La trasformazione della costituzione politica con l'affermarsi della monarchia si riscontra presso tutti i popoli semitici come fenomeno concomitante del cessare del nomadismo: fin da tempi remotissimi in Babilonia, dove appare, coi re-sacerdoti, circondata di un carattere sacrale che le rimane anche presso gli altri Semiti, perfino colà dove, come tra gli Ebrei, le funzioni regali sono nettamente distinte da quelle sacerdotali (il re è "l'unto di Iahvé"). Tuttavia presso gli stessi Ebrei, nei quali le sopravvivenze dell'antica costituzione beduina resistono tenacemente all'affermarsi del principio monarchico, e ancora più presso gli Arabi del deserto (mentre nell'Arabia meridionale e occidentale si trovano stati monarchici), si mantiene sempre viva e spiccata la tendenza antimonarchica, che trova talvolta la sua espressione (tipicamente presso i profeti ebrei) nel concetto del dominio diretto di Dio sul suo popolo ossia della teocrazia pura. Presso questi popoli la monarchia non raggiunge mai un potere assoluto e incontra un limite al proprio arbitrio nell'assemblea dei capitribù o dei capifamiglia oppure nel sacerdozio e nel profetismo, limite che non esiste colà dove, come presso i Babilonesi e gli Assiri, la costituzione tribalizia è interamente dissolta e dove il re è al tempo stesso sacerdote.
L'organizzazione sacerdotale è del resto fenomeno secondario, e in parte d'importazione straniera, nella religione dei Semiti. Questa è stata profondamente modificata, soprattutto presso i Babilonesi-Assiri, dall'influsso dei Sumeri, estendendo poi la propria azione modificatrice agli altri popoli semitici. Notevole è stato anche l'influsso delle religioni asianiche, portate dagli Hittiti e dai popoli affini, soprattutto sulla religione degli Aramei.
Nel suo aspetto primitivo e originario la religione dei Semiti si fonda principalmente sul concetto della fecondazione della terra da pascolo per mezzo del cielo largitore di pioggia. A questo concetto risponde la rappresentazione religiosa della coppia divina Baal-Astarte, e la sua manifestazione cultuale è data dal sacrificio delle primizie vegetali e animali. Sacrificio, questo, essenzialmente familiare e, in origine, compiuto senza l'intervento di un sacerdozio professionale. Sedi del sacrificio sono i luoghi in cui si crede avvenga la manifestazione del dio, sia sulla vetta di monti sia in monoliti isolati, e intorno a questi luoghi di culto si organizza in volger di tempo il sacerdozio, spesso appannaggio di particolari gruppi familiari (esempio tipico i Leviti ebraici), il quale regola il sacrificio e le altre cerimonie sacre, di cui la più cospicua è il pellegrinaggio, culminante in una processione compiuta intorno alla pietra sacra. Uno sviluppo notevole hanno le interdizioni alimentari; la circoncisione, largamente diffusa tra i Semiti occidentali e meridionali, ma non tra i Babilonesi-Assiri, è certamente di origine africana. Il dio maschile dei Semiti è al tempo stesso concepito come divinità universale e come dio particolare della tribù e più tardi, con l'evolversi della costituzione tribalizia a più larghe organizzazioni nazionali, diventa il dio del popolo, del quale in qualche caso porta addirittura il nome (tale l'Aššur degli Assiri).
Il carattere armico della religione semitica è stato conservato dal persistere, nella storia di taluni popoli semitici, di alcune forme della vita nomade. La coincidenza dell'avversione alle forme di esistenza sociale più progredita (monarchia, sacerdozio organizzato, vita cittadina) con la fedeltà al carattere tribale della divinità ha favorito l'affermarsi del monoteismo, il quale, sublimato nell'altissima concezione morale di giustizia propria del profetismo ebraico, costituisce il punto più alto a cui sia giunta la religiosità semitica e al tempo stesso il massimo contributo dei Semiti alla civiltà universale, contributo che il cristianesimo, erede e propagatore del monoteismo ebraico, ha immesso nella civiltà greco-romana. Altri apporti del semitismo sono infinitamente meno importanti, in quanto si riferiscono soltanto alla civiltà materiale, né sono per lo più intimamente connessi col carattere dei Semiti né appartengono loro interamente, ma sono piuttosto genericamente orientali, ossia prodotti di quella civiltà composita della quale i Semiti non costituiscono se non uno dei componenti: tali, per citare soltanto qualche esempio, i giorni della settimana, legati al culto planetario babilonese, o alcuni ritrovati tecnici (il vetro, la porpora. ecc.) dei quali i Fenici, piuttosto che inventori, furono soltanto trasmettitori all'Europa.
Dalla constatazione che i Semiti, attraverso la loro influenza religiosa, entrano come uno degli elementi essenziali nella formazione della civiltà contemporanea scaturisce l'esigenza di un giudizio di valore, specialmente in confronto, e in contrasto, dell'altro elemento essenziale di questa civiltà, costituito dagl'Indoeuropei. La maggior parte dei numerosissimi scritti che da oltre un secolo sono stati dedicati allo studio di questo problema assumono a rappresentanti del semitismo gli Ebrei, dell'indoeuropeismo i Greci, o, anzi, pongono a confronto il monoteismo trascendente della religione dei profeti con l'ideale filosofico e artistico dell'Atene di Platone, di Eschilo e di Fidia. Con ciò si viene a perdere di vista che i fenomeni sopra accennati non sono già la risultante meccanica di certi principî e di certe tendenze connaturate con gl'immaginarî concetti di "semitismo" e di "indoeuropeismo", bensi realtà concrete, formatesi in seguito a processi storici ben definiti, nei quali la pertinenza originaria a questo o a quel gruppo etnico non costituisce se non uno degli elementi, e non il più importante. E senza dubbio giustificato il riconoscere che negli Ebrei (e in generale nei Semiti) l'emotività religiosa prevale, come fattore di vita spirituale, sulle altre attività dello spirito, mentre nei Greci prevale il pensiero filosofico e scientifico e l'attività artistica; ed è altresì legittimo il concedere il primato, a seconda delle proprie tendenze personali, a questa o a quella forma di spiritualità. Ma sarebbe erroneo il trarre da questa semplice constatazione conseguenze di carattere più generale.
Alcuni dei giudizî, poi, che sono stati pronunciati su questo argomento sono viziati dall'intento polemico, palese o nascosto, dal quale essi sono ispirati: sia che si tenda a svalutare il principio della trascendenza sul quale si fonda, attraverso l'ebraismo, il cristianesimo (così in Renan); sia che si voglia trovare, in una condanna generica della mentalità semitica, la giustificazione filosofica e storica dell'antisemitismo (nel quale vocabolo stesso l'adeguazione di Semiti a Ebrei favorisce l'equivoco), come, per es., nel famoso libro dell'assiriologo F. Delitzsch (v.), Die grosse Täuschung, nel quale la deformazione della storia raggiunge il grottesco; sia finalmente che si voglia esaltare la superiorità assoluta, nella storia dell'incivilimento umano, dello "spirito indoeuropeo", come nelle vecchie teorie raziali recentemente rimesse a nuovo, nelle quali la sostituzione dei Germani ai Greci, quali rappresentanti di quello spirito, toglie ogni significato specifico al problema, non riuscendosi a vedere quale contributo i Germani, considerati soltanto come fattore etnico, abbiano recato alla civiltà universale.
6. Le lingue semitiche. - L'affinità linguistica dei varî linguaggi che fanno parte del gruppo semitico è così stretta che venne empiricamente osservata anche prima della fondazione della linguistica storica: specialmente la rassomiglianza dell'ebraico e dell'arabo era stata già segnalata dai grammatici ebrei di Spagna dei secoli X e XI. Tuttavia la glottologia semitica è tuttora molto meno progredita di quella indoeuropea, in parte per il motivo del tutto estrinseco che essa è stata ed è coltivata da un numero di studiosi minore che non siano gl'indoeuropeisti, ma essenzialmente perché appunto la grande uniformità degl'idiomi semitici è indizio che essi si sono fissati e irrigiditi assai per tempo e, perduta la facilità di trasformarsi, offrono molto minor agio all'osservazione comparativa. Segni caratteristici di tale irrigidimento sono, nel campo della fonetica, la scarsissima permutabilità delle consonanti, in quello della morfologia lo schematismo delle radici triconsonantiche. Da ciò deriva la grande semplicità della grammatica semitica, semplicità la quale tuttavia non deve interpretarsi come primitiva, ma piuttosto nasconde, e rende difficile a scoprirsi, le tracce delle trasformazioni subite in una fase antichissima della storia linguistica.
Il vocalismo semitico appare, in confronto a quello indoeuropeo e ugrofinnico, assai povero. Suoni fondamentali sono a, i, u, brevi e lunghe, mentre le altre vocali appaiono, nello stadio attuale, come secondarie. Ma è verosimile che la povertà attuale sia il risultato della riduzione di un vocalismo primitivo molto più ricco. Nella fase storica, le vocali lunghe hanno un carattere di stabilità quasi assoluta (solo fenomeno cospieuo è il passaggio, proprio del semitico occidentale, ã > ō), alla quale contrasta l'instabilità delle vocali brevi, la ricchezza di sfumature vocaliche e intervocaliche, la facile caduta delle vocali pre- e posttoniche.
Il consonantismo è ricco e persistente; la base dell'articolazione è più arretrata che nelle lingue indoeuropee, il che spiega la ricchezza delle laringali (', h, ḥ, ḫ, ‛, g???) e delle cosiddette enfatiche (ḍ, q, ṣ, ṭ, ẓ; anche ḥ è una laringale enfatica). Abbondanti sono anche le sibilanti (s, s, z; s sibilante palatale; ṣ, ẓ sibilanti enfatiche), mentre assenti sono le palatali (ğ dell'arabo, č dell'amarico sono secondarie) e non molto abbondanti le velari (k, g; q velare enfatica), le labiali (p, spesso ridotta alla spirante f), le dentali (t, d, con le relative spiranti ḏ, ṯ). Altre spiranti (interdentali) sono secondarie nell'ebraico e nell'aramaico. L'articolazione molto facile delle consonanti semitiche fa sì che esse siano molto resistenti all'assimilazione: questa si verifica su larga scala soltanto in quei territorî dove è molto forte l'influsso straniero: così nei dialetti arabi occidentali, nei dialetti aramaici moderni, nelle lingue etiopiche. Queste ultime lingue hanno numerose consonanti (specialmente cacuminali e precacuminali), ignote alle altre lingue semitiche, che esse debbono a influsso cuscitico.
La posizione dell'accento è molto varia, e non è ancora chiara né l'accentuazione di alcune lingue estinte né quella originaria del semitico.
Nella morfologia è tipica la persistenza della radice tematica (lo stesso termine di "radice" è entrato nella linguistica dal vocabolario tecnico dei grammatici ebrei medievali), facilissima a riconoscersi in tutte le forme derivate, e non meno caratteristico è il "triconsonantismo": la grande maggioranza delle radici sono costituite da tre consonanti. È tuttavia da notarsi che le radici biconsonantiche non sono ignote (e neppure quelle di quattro o di cinque consonanti, le quali tuttavia sono per lo più o reduplicazioni o antichi composti) e che esse si riferiscono quasi sempre a voci molto primitive (yad "mano", dam "sangue"; in *f "bocca n è forse da riconoscersi una radice monoconsonantica). È ormai indubbio (specialmente per mezzo del rapporto con fenomeni analoghi delle lingue cuscitiche) che il triconsonantismo rappresenta l'estensione di un biconsonantismo primitivo.
Le forme nominali sono numerose, e sono formate sia per mezzo di modificazioni nel vocalismo della radice, sia per mezzo di suffissi e prefissi (uno dei più frequenti è m + vocale breve). Caratteristico è l'uso dei suffissi pronominali, sia col nome, in funzione di possessivo, sia col verbo, in funzione di complemento oggetto. La declinazione è molto semplice, a tre casi: essa si è conservata soltanto in alcune lingue, mentre altre l'hanno perduta in seguito alla caduta delle vocali brevi finali che costituiscono la flessione. Così è andata perduta in molte lingue la desinenza n o m ("nunazione" e "mimazione") con la quale viene espresso lo stato indeterminato del nome. Caratteristico del semitico (ma conservatosi con funzione attuale soltanto nell'arabo e nell'etiopico) è il "plurale interno", formato da modificazione del vocalismo della radice (arabo malik "re", plur. mulūk; nahr "fiume", plur. anhār).
La flessione del verbo è molto semplice: una forma di "perfetto" esprime l'azione compiuta, un "imperfetto" o "aoristo" l'azione in via di compimento. I modi verbali (indicativo, congiuntivo, iussivo, energetivo) si conservano integralmente solo nell'arabo; nelle altre lingue se ne hanno avanzi. Le persone si distinguono per mezzo di suffissi nel perfetto, di prefissi nell'imperfetto: degli uni e degli altri si riconosce facilmente l'origine pronominale. Grande è lo sviluppo delle cosiddette "forme verbali", nelle quali, mediante raddoppiamento consonantico, prolungamento vocalico, aggiunta di prefissi, si esprimono le funzioni di riflessivo, reciproco, causativo, incoativo, desiderativo e simili.
La composizione è quasi ignota alle lingue semitiche nella loro fase storica, mentre è probabile che fosse frequente in quella preistorica. Il cosiddetto "stato costrutto" o "annessione", con cui si esprime la relazione di genitivo, è una sorta di composto, ma gli elementi ne rimangono sempre distinti.
Lo scarso sviluppo dei modi e tempi verbali rende molto semplice la sintassi del semitico. Caratteristico è l'uso della "proposizione nominale" formata da soggetto e predicato giustapposti senza copula (p. es. ebraico ānōkhī ōkhēl "io (sono) mangiante", "io mangio"). Da essa ha preso grande sviluppo, specialmente in fasi seriori dei singoli linguaggi, la coniugazione perifrastica.
Sono state tentate varie classificazioni delle lingue semitiche, distinguendosi un gruppo settentrionale da uno occidentale oppure uno orientale da uno occidentale. I criterî della linguistica più recente hanno fatto abbandonare questi tentativi. Qui sotto segue un elenco esclusivamente descrittivo delle varie lingue semitiche (per i particolari si vedano le singole voci).
1. Gruppo assiro-babilonese (accadico), i cui documenti sono in scrittura cuneiforme, ciò che ne rende talvolta ardua l'esatta comprensione fonetica. Per quanto documentato in età molto più antica di tutte le altre lingue semitiche, questo gruppo rappresenta una fase molto pregressa del semitico, specialmente per l'influsso di lingue diverse.
2. Gruppo cananeo, rappresentato dal cananeo antico, dall'ebraico (nelle sue varie fasi, fino a quella contemporanea, di origine artificiale), dal fenicio, dal moabitico. Per queste lingue il metodo di scrittura offre varie difficoltà relative all'intelligenza del vocalismo. La lingua delle tavolette di Rās Shamrā, pure accostandosi al cananeo, sembra appartenere a un gruppo distinto.
3. Gruppo aramaico, rappresentato dalle iscrizioni e dai papiri per l'età più antica, da varî dialetti in età più recente (tra cui il più importante è il siriaco) e da pochi avanzi di dialetti contemporanei, fortemente alterati.
4. Gruppo arabo, rappresentato dall'arabo settentrionale, attualmente la più estesa e la più vitale delle lingue semitiche, e da diverse varietà (mineo, sabeo, ḥimyaritico, qaṭabanico, ecc.) dell'arabo meridionale, documentate in iscrizioni, con qualche sopravvivenza contemporanea. L'arabo presenta, tra le lingue semitiche, il consonatismo più ricco ed è, se non in tutte, certo in molte delle sue caratteristiche il più arcaico dei linguaggi semitici.
5. Gruppo etiopico, rappresentato dalla lingua della liturgia (ge‛ez) e da numerose lingue vive, le quali tuttavia, e specialmente quelle meridionali (amarico, hárari, guragē), sono state profondamente modificate dall'influsso delle lingue cuscitiche. Nella sua forma più antica è molto vicino all'arabo meridionale, del quale probabilmente non era, in origine, se non una varietà.
Il problema dell'affinità del semitico con altre famiglie linguistiche è stato posto fin dai primi tempi dell'indagine scientifica dei linguaggi, e in tempi recenti è stato affrontato con rinnovata energia. La parentela col camitico è ormai fuori discussione, benché la dimostrazione specifica delle singole affinità non sia ancora completa, a causa anche dell'immaturità della linguistica comparativa del camitico. I tentativi sono stati fatti in tre direzioni: verso l'egiziano antico, verso il berbero, verso il cuscitico. Nonostante le incertezze ancora regnanti, alcune corrispondenze sembrano sicure (specialmente nei pronomi e nei numerali). Anche la comparazione con l'indoeuropeo, con l'ugrofinnico, col caucasico sembra sulla via di dare risultati soddisfacenti: mentre, fino a pochi anni or sono, si tentava di dimostrare la maggiore affinità del semitico con l'uno o con l'altro di questi gruppi, oggi si tende piuttosto a stabilire l'esistenza di alcuni caratteri comuni a tutti quei gruppi di lingue alle quali il Pedersen ha dato il nome di "nostrati" e che appartengono a popoli i quali, a quanto sembra risultare anche da altre considerazioni (v. sopra), hanno occupato in età preistorica territorî contigui e devono essere stati in stretta relazione tra loro.
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