seme
La parola è usata piuttosto raramente nel senso proprio di " corpo riproduttivo " dei vegetali: altrimenti è disposta una stagione a ricevere lo seme che un'altra (Cv IV II 7); cose sono dove l'arte è instrumento de la natura, e queste sono meno arti ... sì com'è dare lo seme a la terra (IX 12); trattando più color... / che l'alta terra [il Paradiso terrestre] sanza seme gitta (Pg XXVIII 69; v. anche il v. 117); tanto più maligno e più silvestro / si fa 'l terren col mal seme e non cólto (XXX 119). Fa parte a sé, per il carattere sentenzioso e per la chiara eco biblica, Pg XVI 114 pon mente a la spiga, / ch'ogn'erba si conosce per lo seme, cioè la spiga, il frutto buono o cattivo, dipende dal s. (cfr. Luc. 6, 44 " Unaquaeque.... arbor de fructu suo cognoscitur "), mentre in altra occasione si ha, sempre sulla base del valore proprio, una concentrata comparazione: l'orto dove tal seme s'appicca (If XXIX 129) è Siena, dove la costume ricca / del garofano alligna come s. in buon terreno. Di senso proprio si potrà parlare, in accezione più lata, anche quando il termine denota il principio generativo degli animali e dell'uomo, oltre che delle piante: quando l'umano seme cade nel suo recettaculo (Cv IV XXI 4); le cose generate, che produce / con seme [animali e piante] e sanza seme [minerali] il ciel movendo (Pd XIII 66).
In tutti gli altri casi predominano gli usi figurati, i quali si appoggiano sull'ambivalenza semantica del vocabolo, che rispetto alla realtà individuale della pianta indica ora il suo antecedente, la sua premessa necessaria, ora il suo conseguente, il suo prodotto.
Pertanto in molte occorrenze s. indica la " causa " o " l'origine " di qualche cosa: così in Cv I III 7, sullo schema s.-concepimento-generazione-parto è costruito quello della buona fama che il ‛ buon operare ' di alcuno ‛ genera ' ne la mente de l'amico (cioè in una materia ben disposta a ‛ patire '), sicché quest'ultima è in grado di ‛ partorirla '; viceversa la mente del nemico [proprio perché mal disposta a patire] avvegna che riceva lo seme non concepe.
Ancora la prossimitade è seme d'amistà (Cv I XII 6), le parole... sono quasi seme d'operazione (IV II 8), le lagrime sono dette seme del piangere (Pg XXXI 46; ma l'espressione pon giù il seme del piangere può anche essere interpretata: " deponi il timore, causa del tuo pianto "; poco persuasiva la proposta del Pézard: " Ne pleure pas sans cesse, comme un enfant chez qui les larmes semblent germer des larmes "); Al mio ardor fuor seme le faville, / che mi scaldar, de la divina fiamma / onde sono allumati più di mille (Pg XXI 94; Stazio, in certo modo controfigura di D., considera Virgilio fiamma divina di poesia che illumina e scalda gli altri poeti; le faville di tal fiamma - i componimenti virgiliani - erano stati seme all'ardore poetico di lui stesso, inducendolo a scrivere la Tebaide e l'Achilleide); fu mal seme per la gente tosca (If XXVIII 108: si allude alla frase di Mosca dei Lamberti Capo ha cosa fatta che, favorendo l'uccisione di Buondelmonte da parte degli Amidei, fu causa di dolori per i Toscani, in quanto dette principio alla lotta tra guelfi e ghibellini); altrove con chiaro riferimento al rapporto s.-frutto: se le mie parole esser dien seme / che frutti infamia, ecc. (If XXXIII 7; per s.-frutto cfr. anche Cv IV XVI 10, XX 9, XXI 13, XXII 12); lo seme dal quale sono nate ventiquattro piante (Pd XII 95) è, con forte metafora, la fede di cui si alimentano i ventiquattro beati che circondano D. in duplice ghirlanda nel cielo del Sole.
A quest'orbita semantica sembra sia da ricondurre la controversa sentenza dell'animal binato che non ‛ discinde ' col becco il legno, dolce al gusto, della pianta dispogliata nel Paradiso terrestre: Sì si conserva il seme d'ogne giusto (Pg XXXII 48; Cristo - il grifone - conferma che all'origine della giustizia è il rispetto della volontà di Dio, con allusione al fallo di Adamo ed Eva, ribelli al comando di non assaggiare il frutto dell'albero edenico). L'astinenza del grifone è infatti espressione di umiltà e obbedienza ai decreti divini e la sua frase, più che riguardare la conservazione della " stirpe " dei giusti mediante l'ossequio alla volontà del creatore (Lana, Anonimo, Vellutello), fa appunto coincidere con l'umiltà l'" origine " di ogni giustizia (Porena), il " fondamento o principio di ogni retto operare " (Mattalia).
Dall'accezione di " causa ", " principio ", è agevole il trapasso a quella di " capostipite ", " progenitore ", o anche soltanto " padre ": Vostra natura, quando peccò tota / nel seme suo (Pd VII 86: il s. della stirpe umana è qui, ovviamente, Adamo); com'esser può, di dolce seme, amaro (Pd VIII 93: " idest quomodo amarus fructus potest nasci de dulci semine, quasi dicat: quomodo ex patre liberali potest nasci filius avarus " [Benvenuto]); Tant'è del seme suo minor la pianta (Pg VII 127: tanto, cioè, Carlo II d'Angiò è meno virtuoso del padre Carlo I).
Con uso collettivo, in If XXV 12 Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi / d'incenerarti sì che più non duri, / poi che 'n mal fare il seme tuo avanzi?, superi nel male i tuoi progenitori; e XXVI 60 de' Romani il gentil seme.
Per If III 104 Bestemmiavano Dio e lor parenti, / l'umana spezie e 'l loco e 'l tempo e 'l seme / di lor semenza e di lor nascimenti, non si registra concordia d'interpretazioni. Secondo l'esegesi vulgata (Benvenuto, Tommaseo, Scartazzini, Torraca, Porena, Rossi, Casini-Barbi, Mattalia, in parte Sapegno e Fallani) i pusillanimi bestemmiano qui i padri dei loro padri (seme / di lor semenza, intendendo semenza come " stirpe ", " casato ") e i padri medesimi (seme... / di lor nascimenti). Ma già il Buti spiegava altrimenti: " seme è innanzi che si semini, semente è poi ch'è seminato; sicché vuol dire che bestemmiavano lo luogo dov'erano generati e nati, et il tempo quando furono generati e nati, e lo seme paterno e luogo materno del quale e nel quale erano generati e nati ". E anche il Boccaccio aveva avanzato una proposta simile (" bestemmiavano il seme di lor semenza, cioè della quale seminati furono "). Questa proposta, che conferisce a s. il senso tecnico di " s. umano " è stata ripresa dal Padoan (Il canto III dell'Inferno, in Nuove lett. I 65-67), il quale completa il chiarimento del luogo distinguendo tra semenza come " concepimento " e nascimento come " atto per cui, avendo il seme femminile condotta a termine la sua opera, nasce il bimbo ". Perciò la maledizione dei dannati colpisce " il Creatore, i genitori, la specie umana, e il luogo e il momento e il seme del loro stesso concepimento e della loro nascita ", con eco di Iob 3, 3 " Pereat dies in qua natus sum, / et nox in qua dictum est: Conceptus est homo ".
Altre volte s. denota l'" effetto " di un evento precedente, e quindi anche la " discendenza ", i " figli " rispetto ai padri, sicché il mal seme d'Adamo (If III 115, con uso collettivo) qualifica i dannati, i reprobi, essendo Adamo " il primo nostro padre... del quale noi siamo tutti seme " (Boccaccio), e Cacciaguida benedice commosso Dio per esser stato tanto cortese nel suo seme, cioè in D. (Pd XV 48).
Discutibile è se in Pg XXX 110 le rote magne, / che drizzan ciascun seme ad alcun fine, il vocabolo abbia il senso di " creatura umana ", " essere creato " (Porena, Chimenz, Sapegno), o si restringa alla più precisa indicazione dell'" embrione " (Mattalia), oppure ancora rimandi alla nozione generica di principio generativo suscettibile di maturazione, come suggerisce il Buti: " fanno venire ogni seme che ha virtù generative ad alcun effetto ch'è fine della virtù generativa che è nel seme ".
Di qualche chiarimento necessita quel passo del Paradiso dove, a proposito della diversificazione dei caratteri operati degl'influssi stellari perfino in fratelli gemelli, si afferma che Esaù si diparte / per seme da Iacòb (VIII 131): " per l'indole infusa dai cieli " annotano il Porena e il Chimenz; originariamente, " fin dalla concezione ", il Torraca, Casini-Barbi, Sapegno, Mattalia; mirando gli uni e gli altri a un'esplicazione concettuale. Ma letteralmente l'espressione per seme si riallaccia di certo al citato luogo di Cv IV XXI 4 quando l'umano seme cade nel suo recettaculo, cioè ne la matrice, esso porta seco la vertù de l'anima generativa e la vertù del cielo e la vertù de li elementi legati, cioè la complessione, ecc., donde il suo ovvio valore.
Altrove, sulla scorta di Ovidio (Met. VII 624-660), viene ricordata la prodigiosa generazione degli uomini dalle formiche nell'isola di Egina: si ristorar di seme di formiche (If XXIX 64); l'esempio mette in evidenza, con l'attribuire alle formiche la funzione normalmente propria del s. umano, l'eccezionalità dell'intervento di Giove. Anche in Ovidio: " Speque fideque, pater... maiora videbis " (v. 648).
Mutuando i propri modelli dalle dottrine biologiche e dalla predominante pratica agreste, la nozione di s. fu largamente diffusa nella cultura antica e trasposta, in particolare, nel linguaggio filosofico. La terminologia stoica ebbe al riguardo grande influenza. Per gli stoici infatti (Zenone in specie) il logos, come forza agente universale, veniva a frantumarsi in una molteplicità di s. che in quanto particelle del logos vennero detti λόγοι σπερματικοὶ (rationes seminales, nel calco latino), preposti alla formazione delle singole essenze individuali tratte dalla materia. Essi rappresentavano le ‛ forze germinative ' nelle quali si articolava il logos o ‛ ragione universale ', e che - proprio in quanto s. - recavano in sé i principi e la regola del loro sviluppo. In tal senso la nozione di s. veniva a coincidere con quella di " causa " e a sovrapporsi a quella di εἵδος-forma sia platonica che aristotelica. Nella visione ilozoica e monistica degli stoici, infatti, la materia e i principi informatori di cui era gravida, costituivano due aspetti di una sola e unica sostanza. I s. o ‛ ragioni seminali ' assolvevano pertanto il compito di forze agenti nella natura (in quanto parti di un'unica ragione creatrice primigenia), orientavano in conformità di essa tutti i fenomeni e si ponevano al contempo come germi di tutte le cose future. Tale dottrina passò attraverso le elaborazioni e, le correzioni dell'ermetismo, del neopitagorismo e del neoplatonismo.
Plotino, in particolare, pur parlando di ragioni seminali o s., le restituì a una nozione più vicina a quella di forme razionali o ideali, agenti sulla materia e sull'organismo, ma dall'esterno (cfr. Enn. III 31, IV 310, 439, V 73, 96, VI 25, 75). Presente nel giudaismo alessandrino (Filone), nella patristica greca e latina, il tema è ripreso - e come tale consegnato al Medioevo - da Agostino, nel quale le concezioni stoiche e neoplatoniche vengono poste nel contesto della concezione cristiana del Dio libero creatore. Per Agostino, infatti, Dio con atto creativo diede origine alle cose, alcune delle quali nelle sole ‛ disposizioni germinative ' o cause ‛ razionali ' (rationes seminales). Esse determinano lo sviluppo dei vari enti all'interno del disegno provvidenziale.
Tali ragioni seminali non sono più, alla maniera stoica, forze creanti ed emanazioni immediate di un logos infuso nella materia, ma forme intelligibili ed extratemporali irradiate e immerse da Dio nella materia all'atto della creazione, e riflesso delle ‛ ragioni ideali ' dimoranti nella mente divina. In virtù di esse, e senza esserne vincolato, Dio, creatore supremo e trascendente, predispone le singole specie al loro prodursi nel tempo (Quaest. in Hept. II 21 " Insunt... rebus corporeis per omnia elementa mundi quaedam occultae seminariae rationes, quibus cum data fuerit opportunitas temporalis atque causalis, prorumpunt in species debitas suis modis et finibus... Deus solus unus creator est, qui causas ipsas et rationes seminarias rebus insevit "; Gen. ad litt. IV 33 " ex illis rationibus insitis quas tamquam seminaliter sparsit Deus in ictu condendi "; v. 4, 23, 33, VI 5, 6, 10, 11, 14, 15, VII 28, IX 1, 17 " quasi seminales rationes habent ", X 20, 21; v. anche Conf. I 9, Civ. XXII 24). La concezione agostiniana sarà ampiamente sviluppata nella dottrina della materia come potenza attiva, attività incipiente predisposta all'eduzione delle forme (inchoatio formae); da vedere, in particolare, Bonaventura (cfr. II Sent. 7 II 2 1, 15 11), Alessandro di Hales Summa, II, pp. 662-665) e Alberto Magno (cfr. De praedicat. V 4).
Tali dottrine si ritrovano, inoltre, nell'ambito della morale. Con riferimento alla cosmologia stoica (v.STOICISMO), Cicerone a tal riguardo parlò di semina virtutum o ignicula (in quanto particelle del logos come ‛ fuoco ' universale), cioè s. divini piovuti dal cielo dentro l'uomo, in forza dei quali egli è per natura orientato a esplicare la virtù e la propria essenza razionale (Tusc. III I 2 " sunt... ingeniis nostris semina innata virtutum, quae si adolescere liceret, ipsa nos ad beatam vitam natura produceret "; Fin. V VI 17, VII 18, XV 43; Leg. I VIII 21-25 " perpetuis cursibus conversionibusque caelestibus extitisse quandam maturitatem serendi generis humani, quod sparsum in terra atque satum divino auctum sit animorum munere... animum esse ingeneraturn a Deo... Iam vero virtus eadem in homine ac deo est... est autem virtus nihil aliud nisi perfecta et ad summum perducta natura "; Seneca [Ep. CVIII 8 e CXX 4] parlava della natura che " omnibus... fundamenta dedit, semenque virtutum " e di " semina... scientiae "). Se l'influenza di Cicerone e Seneca nell'etica medievale è un fatto certo, andrà inoltre ricordata la dottrina di Giustino (Apol. II 7, 8, 10, 13) che, spostando la nozione di λόγοι σπερματικοὶ dall'ambito fisico a quello etico spirituale, aveva parlato del s. del logos divino presente in ogni uomo, che lo rende atto alla conoscenza naturale e alla stessa conoscenza di ogni altra verità e di Dio.
Alla nozione morale di s., e a quella connessa di bontà fruttificante, D. fa più volte ricorso in rapporto al tema della felicità e dell'anima nobile e virtuosa. In Cv IV Le dolci rime 119, sulla figurazione seminatore-s.-terreno coltivato è costruita quella di Dio seminatore che pone il s. di felicità nell'animo predisposto (sì ch'ad alquanti / che seme di felicità sia costa, / messo da Dio ne l'anima ben posta). Tale seme di felicità è da D. identificato con la nobiltà, che in quanto esplicazione delle virtù morali e intellettuali, è seme (IV XVI 10) di queste ultime. Se la nobiltà è seme, cioè " causa generatrice " di felicità, la sua origine a sua volta va ricercata in Dio. Dio, infatti, in quanto diretto creatore dell'anima individua di ogni uomo, lascerà ‛ cadere ' il suo s. (divino seme) non in schiatta, cioè in istirpe, ma ... ne le singulari persone (XX 5). L'individualità dell'anima umana e la diretta creazione di essa da parte di Dio, implicano anzitutto l'individualità del principio seminale con cui il creatore predispone ogni essere alla totale esplicazione di sé. Tale principio germinativo individuale si configura come divino dono (§ 6) che, come s., ‛ cala ' o ‛ discende ' per libera scelta di Dio (e perciò grazia) in ogni individuo acconcio e disposto a questo divino atto ricevere (§ 7). Il s. dunque è il dono gratuito con cui Dio costituisce l'essenza naturale dell'uomo, e che reca potenzialmente con sé le ragioni del proprio sviluppo e della propria perfezione (v.). Proprio in quanto potenzialità germinale, il s. contiene l'inclinazione alla totale attuazione della forma che, nell'uomo, è esercizio di virtù e acquisizione di beatitudine o felicità. Di qui l'identificazione dantesca di s. e nobiltà (è manifesto che nobilitade umana non sia altro che ‛ seme di felicitade ', messo da Dio ne l'anima ben posta, XX 9; la nobilitade è ... seme divino ne la umana anima graziosamente [cioè " per grazia "] posto, XXIX 3) e la conseguente definizione di tale s. come causa formale (§ 10).
La nobiltà è dunque semente de la virtù divina (XXI 2) e perciò stesso somma bontà partecipata all'uomo (§ 1). Ma affinché la discesa del s. divino che si compie per modo teologico, cioè divino spirituale, fruttifichi pienamente nell'uomo, occorre che quest'ultimo sia anzitutto predisposto ad accoglierla per effetto della bontà che scende in lui per modo naturale (§ 1), cioè per effetto della buona disposizione organica indotta per generazione naturale. Quanto migliore sarà quest'ultima, tanto migliore sarà il frutto del s. divino, e solo in ciò consisterà la diversa nobiltà e bontà delle anime (XXI 2-3).
A tale scopo D. espone la teoria biologica della generazione naturale dell'uomo, che egli vuole condizionata dalla maggiore o minore perfezione ‛ fisica ' del s., che è inteso, in questo caso, come s. naturale, cioè sperma paterno (quando l'umano seme cade nel suo recettaculo, cioè ne la matrice, esso porta seco la vertù de l'anima generativa e la vertù del cielo e la vertù de li elementi legati, cioè la complessione, XXI 4). Il s. dell'uomo, nel concepimento, agisce come principio attivo (disposto a fare) sopra un principio passivo disposto a patire (la matrice della donna è, più specificamente, il sanguis menstruus dei medici medievali: cfr. Pg XXV 44-45; Arist. Gener. anim. I 19-20 e comm. ad l. di Averroè). Il s. paterno reca con sé tre fondamentali determinazioni organiche atte alla generazione: la ‛ capacità di formare ' (formativa) un organismo, insita nell'anima di chi genera e trasmessa nel s., la virtù derivata dagl'influssi celesti (vertù del cielo: in II XIII 5 D. ricorda la teoria aristotelica del calore naturale del seme in cui è contenuta la vertude celestiale: v. CALORE), e infine la costituzione fisica del s. risultante dal contemperamento dei quattro elementi e delle relative qualità (vertù de li elementi legati; cfr. Arist. Gen. anim. II 1-3; Alb. Magno Animal. XVI I 6-7 e Sum. theol. II IV 21, che parlano della triplice virtus del s.).
La complessione del s. ha il compito di maturare la materia data dalla donna e disporla a subire l'influenza delle altre due virtù. In tal senso la potenza del seme corrisponde a una vera forza germinativa o ‛ ragione seminale ' che ha già tutte in sé le determinazioni ‛ naturali ', che saranno predisposte dalla virtù dell'agente e recate in atto dalla virtù del cielo: il s. e matura e dispone la materia a la vertù formativa... e la vertù formativa prepara li organi a la vertù celestiale, che produce de la potenza del seme l'anima in vita (Cv IV XXI 4). A questo punto la potenza del s. ‛ naturale ' è totalmente esplicata ed è pronta a ricevere la discesa del s. divino. Quest'ultimo è identificato da D. con l'anima razionale o intelletto possibile (v.) fecondato dall'illuminazione di Dio; infatti l'anima sensitiva incontanente produtta, riceve da la vertù del motore del cielo lo intelletto possibile; lo quale potenzialmente in sé adduce tutte le forme universali, secondo che sono nel suo produttore, e tanto meno quanto più dilungato da la prima Intelligenza è (XXI 5).
Nozione e funzione di s. naturale e soprannaturale o spirituale vengono così congiunte da D. in una serie di inseminazioni ulteriori, volte a spiegare la maggiore e minore nobiltà o bontà dell'anima umana. Infatti quanto meglio è costituito e sviluppato il s. naturale, tanto meglio la sua potenza germinativa è destinata a fruttificare e a ben predisporre l'anima sensitiva a ricevere l'infusione del s. divino: E però che la complessione del seme puote essere migliore e men buona, e così pure la disposizione del seminante e la disposizione del Cielo... incontra che de l'umano seme e di queste vertudi più pura [e men pura] anima si produce (XXI 7). A sua volta, quanto maggiore sarà la purezza dell'anima ricevente (la sensitiva), tanto più la vertude intellettuale possibile scesa in noi sarà esente da ogni ombra corporea. Infine, in ragione della sua purezza, l'intelletto possibile sarà meglio atto ad accogliere, far ‛ moltiplicare ' e ‛ fruttificare ', secondo le sue capacità, la divina bontade (XXI 7-8). E tale ‛ moltiplicarsi ' non è altro che l'attuazione di quelle forme universali (§ 5, citato) che l'intelletto possibile potenzialmente in sé adduce, cioè l'esplicazione di quelle essenze intelligibili possedute in modo eminente da Dio (secondo che sono nel suo produttore) e da lui irraggiate e impresse come rationes seminales nella mente umana (v. anche POTENZIALMENTE). Per questo motivo è proprio l'intelletto possibile quel seme di felicitade del quale al presente si parla (XXI 9). Come il s. naturale possiede in sé tutte le determinazioni fisiche, poste in atto dai motori celesti, così il s. divino dell'intelletto possibile contiene in sé tutti i germi razionali, creati direttamente da Dio e posti in atto dalla sua illuminazione. L'intelletto possibile è dunque un s. della ragione divina sceso in noi. È appunto in questa chiave che D. puntualmente recupera attraverso un passo di Cicerone la dottrina pitagorico-stoica della celestiale anima scesa in noi (Senect. XXI 77) e attraverso uno del Liber de causis (pr. 3) la dottrina dell'anima nobilis che ha come sua più alta operazione quella divina, cioè per D. l'attuazione delle forme universali (per l'origine dell'anima v. ANIMA, e B. Nardi, Studi di filosofia medievale, Roma 1960, 34-54). Già in Cv IV XV 8, D. aveva ricordato la testimonianza di Ovidio (Met. I 78-81) che parlò dell'origine celeste di ogni uomo con termini tratti dalla teoria seminale stoica (questo [cioè l'uomo] l'artefice de le cose di seme divino fece, o vero... la recente terra... li semi del cognato cielo ritenea, " hunc divino semine fecit / ille opifex rerum... / sive recens tellus... / cognati retinebat semina coeli ").
Questa discesa ‛ per modo naturale ' della bontà divina in noi, è ripercorsa da D., per via teologica, con la figurazione del Dio benigno seminatore che infonde nella natura umana predisposta il s. soprannaturale e gratuito dei doni dello spirito santo (Cv IV XXI 11-12). È questo un modo nuovo di manifestarsi in noi del s. divino. Esso, oltre che fruttificare nella ragione, fruttifica anche nella volontà buona attraverso l'appetito naturale al bene e alla perfezione ultima ('l primo e lo più nobile rampollo che germoglia di questo seme, per essere fruttifero, si è l'appetito de l'anima, XXI 13; v. anche APPETITO; hormen). La bontà divina, infatti, se seminata in una natura umana ben predisposta, dà luogo all'appetito che da divina grazia surge e che si sviluppa conformemente a quello che, in ogni altro essere naturale, da natura nudamente viene (XXII 4-5). Tale appetito, il cui sviluppo è già tutto prefigurato nel s., per giungere a giusto fine dovrà progredire secondo la regola della sua essenza, che è la bontà divina. Attraverso la crescita corretta (XXII 6-9) dell'amore naturale, infatti, l'appetito della ragione (speculativo) e della volontà (pratico) giungerà alla sua perfetta attuazione, cioè alla beatitudine e somma felicitade in cui consiste la dolcezza del sopra notato seme (XXII 11). Se a tale dolcezza molte volte cotale seme non perviene, ciò accade per male essere coltivato, e per essere disviata la sua pullulazione (§ 11). Non c'è dunque nessuna forza necessitante nel processo di sviluppo verso la perfezione, anche se potenzialmente infusa dalla grazia divina, ma occorre la forza assistente e operante della volontà e dell'intelletto di ogni singola creatura. Anzi, aggiunge D., ove questo seme [della bontà divina] dal principio non cade, esso potrà essere aggiunto per via d'insetazione alla mala radice di quell'uomo che non avesse sin dalla nascita questa sementa (§ 12). Fuor di metafora, se per un verso le buone tendenze naturali possono essere deviate da cattiva condotta, è pur vero che le cattive potranno essere corrette e ben coltivate attraverso l'abito di virtù, il che, aristotelicamente, è uno modo quasi d'insetare l'altrui natura sopra diversa radice (§ 12; qui D. ha evidentemente presente il tema aristotelico dell'abito etico che si aggiunge come una nuova natura a quella innata: cfr. Eth. Nic. II 1, 1103 a 23-26, 31-32 " Neque igitur natura neque contra propter naturam insunt virtutes, sed innatis quidem nobis suscipere eas, perfectis autem per assuetudinem... Virtutes autem accepimus operante prius, quemadmodum et in aliis artibus "; v. anche ABITO).
Esposto in tal modo lo sviluppo del s. divino nell'ordine naturale e soprannaturale, D. conclude identificando nuovamente s., bontà divina e nobiltà (Cv IV XXIII 1). E a dimostrare come quest'ultima luce e risplende per tutta la vita del nobile (§ 2), egli riassume i gradi dello sviluppo di questo seme divino, di cui parlato è di sopra, dal piano puramente naturale della nascita a quello della finale congiunzione con Dio: il s., infatti, ne la nostra anima incontanente germoglia, mettendo e diversificando per ciascuna potenza de l'anima, cioè organizzando il feto e articolandone le posse (cfr. Pg XXV 57) in anima vegetativa, sensitiva e razionale. Di qui poi si ‛ dibranca ' nelle varie virtù (naturali, etiche e dianoetiche) di cui l'anima è capace, conducendole a perfezione e mantenendole in essa fino al momento in cui l'anima razionale o intelletto possibile a l'altissimo e gloriosissimo seminadore al cielo ritorna (Cv IV XXIII 3). Frutto finale e perfetto di questo s., dunque, non è altro che il " reditus " all'eterno seminadore, da cui era iniziata la sua ‛ discesa ' in terra.