segno (signo solo in Detto 90)
Qualunque cosa sensibile che oltre a manifestare sé stessa manifesta anche un'altra cosa con la quale è in genere collegata mediante un rapporto di effetto a causa, o di antecedente a susseguente.
1. La manifestazione per signa di verità non immediatamente percepibili, e il conseguente specifico valore di signum, appartengono a un campo concettuale frequentato dalla cultura classica.
Già Aristotele, in sede di logica, pone la differenza tra il probabile e il signum [σημεῖον], e definisce con chiarezza il senso del signum: " verisimile autem et signum non idem est, sed verisimile quidem est propositio probabilis... Signum autem vult esse propositio demonstrativa vel necessaria vel possibilis; nam quo existente est vel quo facto prius vel posterius facta est res, signum est vel esse vel fuisse vel quoniam erit " (Anal. pr. II 27 70a 2-3, 7-9).
Tra le forme di sillogismo il σημεῖν coincide per Aristotele con un tipo di entitema, sullo schema: " se una donna ha latte, essa ha partorito " (cfr. Anal. pr. 70a 10-16), dove l'aver latte è s. dell'aver partorito, ed è s. ‛ naturale ', cioè discendente dalla natura stessa dell'oggetto preso in esame. Come tale, questo schema sillogistico ha carattere necessario e il s. vi è prova irrefutabile della verità (cfr. Anal. pr. 70a 29-30).
In altri casi (specie quando si tratti di rapporti abituali tra due fatti che si succedono nel tempo, il secondo dei quali è assunto a s. del primo) il processo logico διὰ σημείων può dar luogo a inganni, onde Aristotele conclude che i sillogismi fondati su s. non rispondono ad autentiche finalità scientifiche (cfr. Anal. post. 75a 27-38).
Di natura sempre convenzionale (καθᾶ συνθήκην) è poi il rapporto tra il s. come parola e il suo significato, secondo la nota formula del Perihermeneias (2, 16a 19-20).
Dopo Aristotele la discussione sul s. fu continuata con ampiezza d'interessi dagli stoici, i quali tra l'altro svilupparono e misero in evidenza la distinzione tra σημᾶινον e σημαινόμενον, o, come oggi diremmo, tra significante e significato.
Qualche cenno sul problema del s. troviamo anche presso i Latini. Per esempio Cicerone, riferendo il signum al " probabile, quod sumitur ad argumentationem ", precisa che " signum est, quod sub sensum aliquem cadit et quiddam significat, quod ex ipso profectum videtur, quod aut ante fuerit aut in ipso negotio aut post sit consecutum... " (Invent. I XXX 47-48).
Ma chi riprende con novità di accento e profondità di visuale la dottrina semiologica (principalmente in relazione ai verba), innestandola nella concezione cristiana, è s. Agostino.
I verba sono per Agostino signa: " Dicimus enim et signa universaliter omnia quae significant aliquid, ubi enim verba esse invenimus " (De Mag. IV 9: verba come ‛ verbi ' coniugabili e come nomina in generale); " constat ergo inter nos verba signa esse " (De Mag. II 3); ma signa privilegiati per potere espressivo e significante: " verba enim prorsus inter homines obtinuerunt principatum significandi quaecunque animo concipitur, si ea quisque prodere velit " (Doctr. christ. II 3-4; e cfr. Tomm. Sum. theol. II II 111 1c e 174 3c).
Tuttavia Agostino finisce col limitare il potere dei verba quando, da un lato, giudica la conoscenza superiore in valore ai s. con i quali è stata ottenuta (" confectum est... cognitionem ipsam signis, quibus cognoscimus, cariorem nobis esse oportere ", De Mag. X 31), e dall'altro, riserva ancora più grave, considera utile la parola-s. soltanto se si conosca di che cosa essa è s., ché altrimenti suona incomprensibile e a vuoto: " Cum enim mihi signum datur, si nescientem me invenit, cuius rei signum sit, docere me nihil potest, si vero scientem, quid disco per signum? " (De Mag. X 33). Di qui la funzione rammemorativa ed esortativa del linguaggio, conformemente alla gnoseologia ‛ platonica ' del vescovo d'Ippona, che ripone la verità in interiore homine ed elegge Dio a unico vero maestro.
In linea subordinata è da ricordare come s. Agostino riconfermi l'arbitrarietà del s. linguistico, analogo per tale aspetto ai gesti e alle insegne militari (cfr. Doctr. christ. II 3, 4 e De Mag. IV 9).
La dottrina del s. non ha particolare rilievo in s. Tommaso, che a proposito della divinazione riconosce la natura sensibile e dimostrativa del signum, e ne stabilisce i nessi con la cosa significata: " Omne... corporale signum vel est effectus eius cuius est signum, sicut fumus significat ignem, a quo causatur: vel procedit ab eadem causa, et sic, dum significat causam, per consequens significat effectum, sicut iris quandoque significat serenitatem, inquantum causa eius est causa serenitatis " (Sum, theol. II II 95 5c). Ma essa è punto di passaggio obbligato per i trattatisti di logica, che ricavano dal commento di Boezio ad Aristotele (e assumono in proprio) la distinzione tra i s. (.in genere le ‛ voci ') naturaliter significativi e i s. significativi ad placitum: " Vox significativa est illa quae aliud significat. Item vocum significativorum alia significativa naturaliter, alia ad placitum. Illa dicitur significativa naturaliter quae aliquid significat a natura, ut gemitus infirmorum, latratus canum. Sed videtur quod illa significent ad placitum quia nomina sunt, et nomina significant ad placitum " (Lamberto d'Auxerre Logica, ediz. F. Alessio, Firenze 1971, 7).
La presenza dell'uno o dell'altro di questi punti affermati dalla tradizione nelle opere dantesche è innegabile. Specie negli scritti latini il vocabolo ha spesso uso tecnico. Si veda il passo che tratta della necessità di dedurre da tracce sensibili, simili a quelle lasciate da un sigillo sulla cera, la volontà o di Dio o degli uomini: Voluntas quidem Dei per se invisibilis est; et invisibilia Dei " per ea quae facta sunt intellecta conspiciuntur... [cfr. Paul. Rom. 1, 20 " Invisibilia enim ipsius a creatura mundi, per ea quae facta sunt intellecta, conspiciuntur... "] "; nam, occulto existente sigillo, cera impressa de illo quamvis occulto tradit notitiam manifestam. Nec mirum si divina voluntas per signa quaerenda est, cum etiam humana extra volentem non aliter quam per signa cernatur (Mn II II 8); de intentione omnium ex electione agentium nichil manifestum est extra intendentem nisi per signa exteriora (II V 6; cfr. Pg XXXIII 132). Per signum come " parola ", v. oltre.
Anche nei testi in volgare, s. si rifà spesso alla sua matrice tecnica. La stretta corrispondenza tra l'indizio sensibile e la realtà significata si afferma, per esempio, a proposito della teoria sulla nobiltà, che si svolge di contro allo sfondo di un costante e necessario parallelismo tra gli atti, il comportamento esteriore dell'uomo nobile e la sua interna condizione: dicer voglio omai, sì com'io sento, / che cosa è gentilezza, e da che vene, / e dirò i segni che 'l gentile uom tene (Cv IV Le dolci rime 80; cfr. vv. 121-123 L'anima cui adorna esta bontade / non la si tiene ascosa, / che dal principio ch'al corpo si sposa / la mostra). I segni apparenti (XXIII 4, XXVI 1) dai quali si riconosce l'uomo virtuoso coincidono con alcune virtù (secondo le età: obbedienza, soavità, vergogna, bellezza e snellezza nel corpo; temperanza, fortezza, amore, cortesia, lealtà; prudenza, giustizia, liberalità, affabilità; il ritorno della mente a Dio e la benedizione del passato) considerate nel concreto dell'agire virtuoso o degli atteggiamenti fisici che alla virtù si connettono: la vergogna è apertissimo segno in adolescenza di nobiltade (Cv IV XXV 3); buono e ottimo segno di nobilitade è ne li pargoli e imperfetti d'etade, quando dopo lo fallo nel viso loro vergogna si dipinge (XIX 10; v. anche XXIII 1, XXVIII 19, e XXIX 1). Lo stesso valore si riscontra in altre occorrenze del Convivio: Dico che reverenza non è altro che confessione di debita subiezione per manifesto segno (IV VIII 11; un'altra occorrenza nel medesimo paragrafo, e v. anche il § 16).
Ci si riferisce a s. esteriori, assunti a significare moti di passione, in If XXXII 133 O tu che mostri per sì bestial segno / odio sovra colui che tu ti mangi (si direbbe che l'odio e il s. che lo manifesta si confondano in una cosa sola) e, in un campo affettivo diverso, in Pg XXX 48 conosco i segni de l'antica fiamma (cfr. Virg. Aen. IV 23).
Il sintagma formato dall'unione di s. col verbo ‛ essere ' è seguito normalmente da una proposizione soggettiva: " ... questa è a udir sì cosa nuova ", / rispuose, " che gran segno è che Dio t'ami... " (Pg XIII 146); a Belisario la destra del ciel fu sì congiunta, / che segno fu ch'i' dovessi posarmi (Pd VI 27; parla Giustiniano). Affine la costruzione di Vn XXV 4.
2. Con significazione pregnante indica una " figura " eletta a rappresentare simbolicamente un'entità astratta, secondo moduli espressivi comuni alla civiltà classica e ripresi dal linguaggio biblico: fra i tanti esempi scritturali, v. Matt. 12, 39; Luc. 2, 12; Marc. 8, 12; Act. Ap. 4, 16.
La rinnovata visione della verità propria dei Vangeli arricchisce il vocabolo di valori particolarissimi, dove pure è dato riconoscere sviluppi di spunti tradizionali. Il s. evangelico sembra essere, in misura predominante, una " testimonianza " operata da Cristo per suscitare o rafforzare la fede degli uomini. Si veda per esempio Ioann. 20, 30-31 " Multa quidem et alia signa fecit Iesus in conspectu discipulorum suorum, quae non sunt scripta in libro hoc. Haec autem scripta sunt, ut credatis quia Iesus est Christus Filius Dei et ut credentes vitam habeatis in nomine eius ", donde la timorosa perplessità dei Farisei: " Quid facimus, quia hic homo multa signa facit? " (11, 47).
Tra i signa eccellono i " miracoli " (anche se non tutti i signa sono riducibili a miracoli). Così la trasformazione dell'acqua in vino segna l'" initium signorum Iesus " (Ioann. 2, 11). Cristo stesso dice ai discepoli, poco prima di salire in cielo: " Signa autem eos qui crediderint haec sequentur; in nomine meo daemonia eicient, linguis loquentur novis, serpentes tollent, et, si mortiferum quid biberint, non eis nocebit, super aegros manus imponent, et bene habebunt " (Marc. 16, 17-18; v. anche Act. Ap. 2, 29). La parola si richiama appunto a " miracolo ", in Pd XVIII 123 dentro al templo / che si murò di segni e di martìri (sintomatico il comune riferimento di s. e martìri alla sfera semantica di " testimonianza ").
Come rivelazione drammaticamente sensibile della ‛ gloria ' divina e supremo impulso alla fede, il più alto dei s. è la croce (v. Ioann. 19, 31-37), il " signum Filii hominis " (Matt. 24, 30; cfr. Agost. Tractatus in lohann. 118 " Quid est signum Christi, nisi crux Christi? "). Forse in questa prospettiva va posto il luogo di Pd XIV 101, dove il venerabil segno / che fan giunture di quadranti in tondo è per l'appunto una croce greca, a bracci uguali, sulla quale ‛ lampeggia ' Cristo (per analogia, v. anche Pg II 49).
Nei suoi disegni di pacificazione e salvezza spirituale, D. affianca, com'è risaputo, al s. della croce il s. dell'aquila, " testimonianza ", oltre che di valori storici, di valori metastorici. L'aquila è presentata nel Paradiso come sacrosanto segno (VI 32), pubblico segno (v. 100; soltanto segno ai vv. 82 e 104) e, con allusione alla figura formata dagli spiriti giusti nel cielo di Giove, quel segno, che di laude / de la divina grazia era contesto (XIX 37), segno / che fé i Romani al mondo reverendi (v. 101), segno del mondo e de' suoi duci (XX 8), lo benedetto segno (v. 86).
Procedendo verso i casi in cui il legame tra il s. e il suo significato si affida a una convenzione divenuta consuetudine, ma sempre nell'orbita delle funzioni simboliche, le sette P impresse nella fronte di D. dall'angelo custode del Purgatorio indicano tangibilmente i peccati capitali: Se tu riguardi a' segni / che questi porta (Pg XXI 22). In Pd XVIII 80 diventando l'un di questi segni, il vocabolo designa invece le singole lettere formanti la frase Diligite iustitiam qui iudicatis terram, composta dagli spiriti giusti nel cielo di Giove (cfr. Papia vocabulista: " Signa litterae sunt vocum ").
Nel De vulg. Eloq. il termine signum è la " parola ", rationale signum et sensuale (I III 2), sensuale... in quantum sonus est; rationale vero, in quantum aliquid significare videtur ad placitum (§ 3), dove si fa valere la lezione aristotelica, attraverso Boezio (ma v. anche Tomm. Sum. theol. I 107 1 ad 1, II II 85 1 ad 3; e si ricordi quanto è stato detto da s. Agostino); lezione che con tutta probabilità è all'origine di altri usi, come quello che riferisce s. all'" arma ", allo " stemma " di famiglia (una tasca / ch'avea certo colore e certo segno, If XVII 56); o all'" insegna " militare (sotto li scudi per salvarsi / volgesi schiera, e sé gira col segno, Pg XXXII 20; v. anche, con senso traslato, Detto 90); o soltanto ai " gesti ", agli " atti ": Ivi con segni e con parole ornate / Isifile ingannò (If XVIII 91: qui " atti " da innamorato); si collega a quest'accezione l'espressione ‛ far s. ': i dalfini... fanno segno / a' marinar con l'arco de la schiena (XXII 19); E 'l savio mio maestro fece segno / di voler lor parlar segretamente (VIII 86); e quei fé segno / ch'i' stessi queto ed inchinassi ad esso (IX 86); e così in Pd IV 38 e Fiore CLXXVII 9.
È detto s., in dipendenza di motivazioni mitiche e per similitudine con figure di oggetti o di animali, l'insieme di alcune stelle ordinate in " costellazione " (cfr. Isid. Etym. III LXXI 4); con specifico riferimento ai dodici s. dello zodiaco, in Cv II XIII 28, per cui cfr. Pd XXII 110 'l segno / che segue il Tauro (i Gemelli), e XXVII 87 'l sol procedea / sotto i mie' piedi un segno e più partito; ha senso più generico nel passo del Paradiso (XIII 13) in cui designa due costellazioni circolari concentriche, di raggio differente e di movimento opposto, termine di paragone per le due ghirlande di anime che D. vede ‛ circulare ' e ‛ danzare ' nel cielo del Sole.
3. Come " traccia visibile ", " impronta " che rimane su qualche cosa (talora con rapporto di tipo naturale fra causa ed effetto), in If XXV 108 la giuntura / non facea segno alcun che si paresse, e Pd II 49 li segni bui / di questo corpo (cioè le macchie lunari, che derivano dalla diversa intensità con cui la virtù angelica, mista col corpo della stella, risplende agli occhi umani); più d'una volta in relazione con l'immagine del sigillo e della cera, usata sia in senso proprio che figurato: lo minor giron suggella / del segno suo e Soddoma e Caorsa (lf XI 50); non ciascun segno / è buono, ancor che buona sia la cera (Pg XVIII 38); La cera di costoro e chi la duce / non sta d'un modo; e però sotto 'l segno / idëale poi più e men traluce (Pd XIII 68).
In maniera affine, " immagine " effigiata su qualche materia (precisamente sulla pietra della prima cornice del Purgatorio): O Roboàm, già non par che minacci / quivi 'l tuo segno (Pg XII 47); O Ilïón, come te basso e vile / mostrava il segno che lì si discerne (XII 63); Ombra non lì è né segno che si paia (XIII 7: ma il Chimenz, tenendo presente XII 64-66 Qual di pennel fu maestro o di stile / che ritraesse l'ombre e ' tratti ch'ivi / mirar farieno ogne ingegno sottile?, propone la corrispondenza fra segno e tratti, e suggerisce per s. il valore di " linee ", o " parti rilevate ", o " contorni "); e ancora " ricami ", " disegni " di natura religiosa: la tovaglia furata di su l'altare, con li segni ecclesiastici ancora (Cv IV XXVII 14).
Come " limite ", " termine ", o " misura ", in Pd XV 42 'l suo concetto / al segno d'i mortal si soprapuose; XXVI 117 non il gustar del legno / fu per sé la cagion di tanto essilio, / ma solamente il trapassar del segno; e così Pg XIV 33, Pd XV 45.
Come " bersaglio ", quasi sempre di freccia scagliata dall'arco, ma con possibile trasposizione metaforica dell'immagine, che conferisce a s. il valore di " fine ", o nel corso di similitudini: vilissimo e necessario è questo segno vedere, per dirizzare a quello l'arco de la nostra operazione (Cv IV XXII 3); con men foga l'asta il segno tocca (Pg XXXI 18); ciò che scocca drizza in segno lieto (Pd I 126); sì come saetta che nel segno / percuote pria che sia la corda queta, / così corremmo nel secondo regno (V 91); a questo segno / molto si mira e poco si discerne (VII 61: un punto della dottrina cristiana considerato come bersaglio della mente); quantunque quest'arco saetta / disposto cade a proveduto fine, / sì come cosa in suo segno diretta (VIII 105).
Al senso di " bersaglio " è prossimo il senso di " meta " (intesa in accezione reale oppure spirituale, quale punto di arrivo di speranze o desideri) e quindi ancora di " fine ": Tullio in quello del Fine de' Beni, male tragge al segno quelli che nol vede (Cv IV XXII 2); omo in cui pensier rampolla / sovra pensier, da sé dilunga il segno (Pg V 17); la vista di D. volsesi al segno di maggior desio, cioè a Beatrice (Pd III 126): altri esempi in Rime XCI 29, CIV 81, CVI 17, Cv IV VI 16 (dove il s. di cui Aristotele si fece additatore e conduttore è il sommo bene), Pd XXI 99, XXXI 27.
Qualche incertezza esegetica suscita If XXII 12, dove il segno... di stella potrebbe alludere a una costellazione; il contesto (né ... vidi muover... nave a segno di terra o di stella) sembra in verità assommare nel vocabolo i due valori di " stella " e " meta ", come nota il Porena: " Forse accenna a due specie di navigazione: la costiera guidata dai fari, quella d'alto mare guidata dalle stelle. Si avverta che in questo verso segno non significa ‛ segnale ', ma meta verso cui si va ". Così del resto intendono anche molti commentatori antichi. Dello stesso tipo è la figura di Pd XI 120 mantener la barca / di Pietro in alto mar per dritto segno, dove l'idea del porto predomina però su quella del riferimento stellare: " praeostendendo felicitatis portum, ad quam navigat navicula Petri " (Benvenuto); " per la via delle virtù che menano al porto di vita eterna " (Buti). Per segno di terra, v. anche TERRA.
Quanto a Rime XC 42 È sua beltà del tuo valor conforto, / in quanto giudicar si puote effetto / sovra degno suggetto, / in guisa ched è 'l sol segno di foco, s. va spiegato per il Contini come " effetto ", dipendendo il calore solare dal potere del fuoco; per il Mattalia come " causa ", perché non il fuoco genera il calore del sole, ma al contrario " alla potenza e luminosità del sole viene riferita quella del fuoco ". Di quest'ultimo parere è anche il commento di Barbi-Pernicone: " Essendo il sole e gli altri corpi celesti stati creati immediatamente da Dio, essi non possono subire influenze di nessun genere da parte degli elementi come la terra, l'acqua, l'aria e il fuoco che furono creati mediatamente (‛ da creata virtù sono informati '; Par. VII, v. 135), cioè, appunto, con la cooperazione dei cieli, e degli angeli motori. È certo, dunque, che è il fuoco che dipende dal sole, e non viceversa ".
Si discute anche su If IV 54 un possente, / con segno di vittoria coronato, dove il s. di vittoria che adorna Cristo è per alcuni interpreti (Vellutello, Daniello, Lombardi) la palma; per altri (Buti), la palma e la croce: " Questo fu Cristo... coronato come re, con palma che significa vittoria e col gonfalone della croce, che significava che avea triunfato in sulla croce del dimonio nostro avversaro "; per altri ha valore metaforico: " Non mi ricorda d'avere né udito né letto che segno di vittoria Cristo si portasse al limbo altro che lo splendore della sua divinità... " (Boccaccio); " In apparenza mostrava segno di vittoria; non che andasse con bandiera né con insegna " (Anonimo). Dei più recenti il Chimenz e il Failani, con richiami all'iconografia dei mosaici e degli affreschi due-trecenteschi, inclinano per la tesi del Buti; Casini-Barbi e Porena parlano di " aureola crociata o crocifera " cui può venire aggiunto (Porena) il " vessillo (signum) crociato in mano ". Il segno di vittoria sembra ripetere un'espressione dell'apocrifo vangelo di Nicodemo: " posuitque dominus crucem suam in medio inferni, quae est signum victoriae et usque in aeternum permanebit " (cfr. Barbi, in " Bull. " XII [1905] 256): pertanto si fa preferire un'interpretazione che distingue nella figura di Cristo la corona propria del re e il simbolo della sua vittoria, che non può non essere la croce.
Altro caso semanticamente controverso è quello di Pd XXV 89 Le nove e le scritture antiche / pongon lo segno, ed esso lo mi addita, / de l'anime che Dio s'ha fatto amiche (parole che seguono alla richiesta di s. Giacomo: emmi a grato che tu diche / quello che la speranza ti 'mpromette; per la tormentata questione testuale, v. Petrocchi, ad l.). Se s. equivale a " fine ", " termine " (che resta il significato più probabile), la terzina vorrà dire: " L'antico e il nuovo testamento manifestano il termine cui arrivano le anime in grazia di Dio, ed esso termine (la beatitudine, il Paradiso) mi addita l'oggetto della mia speranza ".
Il Porena, che legge porgono in luogo di pongon, dà a s. il significato di " figura " e intende: " il Vecchio e il Nuovo Testamento offrono l'immagine delle anime amate da Dio, e questa immagine mi addita quel che noi dobbiamo sperare ". Su questa via si pongono altri studiosi (D. Corrieri, S. Giacomo e la speranza: osservazioni su Par. XXV vv. 13-99, in " Giorn. stor. " CXLVIII [1971] 309, 315; L. Ricci Battaglia, Paradiso, XXV, vv. 86-96, ibid. CXLIX [1972] 333-338), che insistono sull'interpretazione figurativa del vocabolo, ma la Ricci Battaglia individua nel s. una res concreta, cioè la doppia vesta (v. 92), le bianche stole (v. 95) che D., secondo passi scritturali (Is. 63, 1; Apoc. 6, 11; 7, 9 e 13), attribuisce alle anime sante.