segno
Qualsiasi fatto, manifestazione, fenomeno da cui si possono trarre indizi, deduzioni, conoscenze.
Le più antiche formulazioni della dottrina del s. risalgono alla medicina ippocratica. Nel Corpus hippocraticum è delineato un metodo diagnostico grazie al quale, muovendo dai singoli eventi osservati nel decorso della malattia e cogliendone la portata significativa, si ritiene possibile trarre conclusioni generali e scientificamente valide che permettano l’intervento terapeutico. Poiché però non tutti gli eventi sono significativi, e non tutti quelli significativi forniscono conoscenze certe di qualcosa d’altro da sé, l’arte medica procede a un inventario degli indizi o sintomi distinguendo quelli sicuri da quelli non univocamente interpretabili o non necessariamente connessi a ciò che essi significano. Emerge così la distinzione tra s. e τεκμήριον (più tardi codificata da Galeno): il secondo si distingue dal primo per la necessità che lo lega a ciò di cui è s. e prova. In Aristotele il s. è strumento di una conoscenza che si attua in virtù del rapporto che lega due eventi tra loro. La conoscenza «per s.» dal punto di vista logico prende corpo in un procedimento entimematico, grazie al quale dal s. o indizio si passa all’affermazione di qualcos’altro. Il s. può essere connesso con la cosa significata in maniera necessaria, o solo frequente e probabile; nel primo caso il s. sarà necessario, inconfutabile, τεκμήριον (così l’aver latte è s. certo che la donna ha partorito); nel secondo caso, esso sarà confutabile e probabile (così la respirazione affrettata non sempre è s. del fatto che si ha la febbre). Ma secondo Aristotele la conoscenza per s. per lo più non è necessaria, appartiene al mondo dell’opinione, si fonda sugli accidenti (in opposizione alla conoscenza fondata sull’essenza) ed è utilizzata dai retori che mirano a persuadere gli ascoltatori (più tardi Quintiliano riprenderà la dottrina dei s. in funzione essenzialmente retorica). Anche gli stoici considerano il s. uno strumento conoscitivo: l’uomo si distingue dagli altri animali non per la capacità di articolare voci e di formare rappresentazioni (anche altri animali ne sono dotati), ma per la capacità «transitiva e compositiva» grazie alla quale è possibile concepire il nesso tra eventi diversi e quindi trarre dalla rappresentazione di un evento la rappresentazione di quell’evento di cui il primo è s., dando luogo a un enunciato composto del tipo «se il primo, allora il secondo». Sesto Empirico, infatti, afferma che per gli stoici il s. è «una proposizione che è l’antecedente in un ragionamento condizionale valido e che mostra il conseguente». La possibilità di valersi di s. dipende dalla natura delle cose; e poiché ci si serve di s. solo per avere conoscenza di cose non evidenti per natura (cioè non direttamente percepibili ma conoscibili per i loro effetti o conseguenze) e di cose temporaneamente non evidenti (non percepibili perché non presenti), si hanno due tipi di s.: s. memorativi, ossia capaci di richiamare cose temporaneamente non evidenti (in questo senso il fumo è s. del fuoco), e s. indicativi, o s. propriamente detti, capaci di manifestare una cosa non evidente per natura (in tal modo i movimenti del corpo sono rivelatori dei sentimenti dell’anima). Particolare rilievo ha nella cultura antica la riflessione sul linguaggio, inteso come sistema di s. capace di esprimere il pensiero. Dal complesso della discussione sulla natura della lingua umana considerata nel suo aspetto fonico (distinta dai semplici rumori, e anche dalle voci articolate di alcuni animali) e dalla connessione che lega «suono» e «significato», emerge l’affermazione che il linguaggio umano è costituito di «sequenze foniche» cui l’uomo ha imposto di significare qualcosa. Così per Aristotele le voci sono σύμβολα (Boezio tradurrà notae) delle passioni (concetti) dell’anima, e sono significative κατὰ συνϑήκην (secundum placitum, nella traduzione di Boezio). Gli stoici distinguono il significante (il complesso fonico) e la cosa significata (il contenuto della parola, il suo aspetto mentale, ciò che è enunciato o λεκτόν), costituenti entrambi la «parola», contro cui stanno gli oggetti corporei, reali, che sono i referenti della parola stessa. Alla fine dell’età antica la dottrina dei s. si è venuta articolando estendendosi dall’ambito delle operazioni umane a quello dei fondamenti ultimi delle cose su cui è fondata la vita morale dell’uomo.
Erede della tradizione classica, Agostino definisce il s. «una cosa che, oltre all’immagine che imprime nei sensi, fa conoscere qualcosa d’altro da sé», ribadendo così la funzione strumentale di esso nell’ambito della conoscenza e additando in esso il veicolo della comunicazione. Distinti i s. naturali e i s. convenzionali (signa data), Agostino include tra questi ultimi tutti i sistemi di comunicazione trovati dagli uomini, come i gesti, le insegne militari e il linguaggio; sottolinea però il primato del linguaggio, capace di comunicare qualsiasi cosa e soprattutto di fungere da s. degli altri s. e di sé stesso. Il linguaggio è costituito da un sonus, che è «voce articolata», e da un significatus o significatio, che è la conoscenza suscitata nell’animo dell’ascoltatore; esso è significativo solo per coloro che sono in grado di riconoscerne la natura di s., ciò che ne svela la dimensione sociale e insieme il valore puramente memorativo. Agostino sottolinea come il carattere strumentale del s. (cioè il suo rinviare ad altro) ne mostra il limite (esso vale meno di ciò che è significato) e ne è insieme l’unica ragion d’essere (il s. vale non in quanto res ‒ gesto, suono ‒ ma per ciò che comunica). Attraverso una precisa disamina della natura del s., Agostino perviene all’affermazione che il carattere di s. compete a tutto il creato, attraverso il quale il Creatore guida l’uomo alla conoscenza della realtà invisibile. L’insegnamento agostiniano sopravvive nel Medioevo soprattutto in due direzioni. La prima è quella della concezione della natura come s. e simbolo di realtà più alte, veicolo d’insegnamenti impartiti da Dio all’uomo. Per questa via la natura si presenta come un libro in cui possono leggere anche gli incolti, portatore del messaggio divino, complementare al libro per eccellenza, la Bibbia, da affrontare perciò con criteri ermeneutici analoghi a quelli elaborati per l’esegesi biblica. L’altra direzione è quella della teologia sacramentale: sulla scorta della definizione agostiniana di s., il sacramento è concepito come una realtà che significa un’altra realtà; con questo in più, che oltre alla conoscenza che ingenera nell’animo di chi assiste al rito, «opera» anche ciò che «significa»; così, l’acqua versata sul capo del battezzando «significa» la purificazione dell’anima che viene di fatto «operata». La riflessione sul linguaggio, invece, si muove dopo Agostino sulla linea tracciata da Aristotele. Da ricordare, in ambito gnoseologico, la dottrina secondo la quale il concetto è s. naturale della realtà conosciuta, elaborata da Guglielmo di Occam. Con l’ingresso della scienza araba in Occidente dal 12° sec. si costituisce una notevole biblioteca di testi astrologici e magici, di fisiognomia e di melotesia (o medicina astrologica). Di qui lo sviluppo della pratica dell’oroscopo: ciò che è «significato» dai cieli è «operato» o «disposto» da essi, di modo che il pronostico di ciò che sarà secondo le indicazioni astrali permette di disporre modi e tempi per l’azione efficace dell’uomo.
Nel periodo umanistico e rinascimentale trovano terreno fecondo i temi magico-astrologici nell’ambito della forte ripresa del platonismo e dell’ermetismo. Intanto continua la speculazione sul linguaggio, stimolata anche dal dibattito intorno alle lingue artificiali e ai sistemi di comunicazione non linguistica, come quelli usati per le segnalazioni marine e gli alfabeti per sordomuti: mentre questi ultimi possono essere composti di gesti che in parte almeno imitano le cose significate, i primi possono essere utilizzati solo a condizione che «sappia colui, a chi si palesa, quello che significhi qualunque s., o per osservanza del consueto, o per esser rimasto d’accordo» (G. Bartoli, Degli elementi del parlar toscano, 1584). Si sottolinea così quello che già gli antichi avevano riconosciuto come condizione indispensabile dell’uso di un sistema di s., cioè l’adozione di esso da parte di una comunità. I vari temi toccati finora trovano ancora una sistemazione e riconsiderazione nella Grammatica e nella Logica di Port-Royal (➔) (1662): «quando si considera un certo oggetto come rappresentante di un altro», si legge nella Logica, «l’idea che se ne ha è un’idea di s., e quel primo oggetto si dice s. [...]. Il s. racchiude due idee, quella della cosa che rappresenta, e quella della cosa rappresentata; e la sua natura consiste nel suscitare la seconda mediante la prima». Il s. dunque è una cosa, la cui immagine sensibile suscita nell’uomo l’immagine concettuale di un’altra cosa. I s. sono distinti in: (1) certi o τεκμήρια, e probabili o σημεῖα; (2) congiunti con le cose significate (i sintomi di una malattia) o separati da esse (i sacrifici dell’Antico Testamento che sono s. del Cristo immolato); (3) naturali (l’immagine in uno specchio in rapporto a ciò di cui è immagine) e inventati (le parole in rapporto ai pensieri e i caratteri in rapporto alle parole). Il tema del rapporto tra significazione e inferenza, già trattato dagli stoici, ritorna sia in Hobbes, sia, più tardi, in Wolff, il primo affermando che «un s. è l’antecedente evidente del conseguente o, al contrario, il conseguente dell’antecedente quando conseguenze simili sono state osservate prima; e più spesso sono state osservate, meno incerto è il s.» (Leviatano, 1651, I, 3); il secondo definendo il s. «un ente da cui si inferisce la presenza o l’esistenza passata e futura di un altro ente» (Ontologia, 1729, 952). La filosofia empiristica di Locke (cui si deve, nel suo Saggio sull’intelletto umano, 1690, l’introduzione del termine semiotica per indicare la teoria dei s.) non offre tanto nuove elaborazioni concettuali della natura e della funzione del s., ma mira piuttosto a indagare i rapporti tra cose e idee, considerando le idee come s. delle cose e le parole come s. delle idee. Di qui i problemi dell’arbitrarietà del s. (tradizionalmente il s. in quanto concetto era s. naturale della cosa: cfr., per es., Occam) e il tentativo di spiegare, servendosi della nozione di s., il carattere di generalità delle parole e delle idee in contrapposizione alla particolarità delle cose (in Berkeley anche l’idea non potrà che essere particolare e la sua generalità verrà intesa come rappresentatività, come il fatto di essere «s. di»). Leibniz criticherà l’impostazione nominalistica di Locke, sottolineando che, nonostante l’arbitrarietà dei caratteri (s.), c’è tuttavia qualcosa che arbitrario non è, una certa «proporzione tra caratteri e cose, e le relazioni tra diversi caratteri che esprimono le stesse cose». Viene qui in luce la non necessità per il s. di essere, in quanto s., ‘simile’ a ciò che rappresenta, non richiedendosi tanto la somiglianza tra elementi significanti e cose significate quanto piuttosto una corrispondenza schematica che preservi i rapporti fra i due insiemi di elementi.
La più completa e ancora fondamentale teoria dei s. è tuttavia quella di Peirce. Sulla base dei suoi presupposti metafisico-epistemologici, Peirce individua la relazione significativa, il processo di semeiosi, come una relazione triadica in cui intervengono tre elementi: il s., definito come «qualcosa che sta a qualcuno per qualcosa d’altro sotto qualche rispetto o per qualche sua capacità», l’oggetto, ciò per cui sta il s., e l’interpretante (inteso da Peirce in più modi e con sfumature più o meno complesse, ma essenzialmente come un altro s., equivalente o più sviluppato, che traduce il primo, o un’idea che il s. suscita). In questa prospettiva il s. può essere considerato da tre distinti punti di vista: come s. in sé, in rapporto all’oggetto, in rapporto all’interpretante. Come s. in sé esso può essere un qualisegno (o tone; «una qualità che è un s.», per es., il tono di voce con cui si pronuncia una parola, il colore dell’inchiostro con cui si scrive su un foglio, ecc.), un sinsegno (o token; il prefisso ‘sin’ sta per semel; si tratta di «una cosa o un evento fattualmente esistente che è un s.», per es., una parola su una pagina che può occorrere più volte) e un legisegno (o type; «una legge che è s.»; si tratta del modello astratto, le cui repliche o occorrenze individuali sono i sinsegni; il type viene conosciuto attraverso i tokens, che peraltro non sarebbero significanti se non ci fosse il modello che li rende tali). In rapporto all’oggetto il s. può essere: un indice (si tratta di un s. che presenta una connessione ‘fisica’ con ciò cui si riferisce: un dito puntato, una banderuola, il fumo s. del fuoco, ecc.), un’icona (si tratta di un s. che rinvia all’oggetto in base a un qualche tipo di somiglianza, per es., una fotografia o, più astrattamente, un diagramma, o, per Peirce, un’immagine mentale o una formula), un simbolo (si tratta di un s. arbitrario il cui rapporto all’oggetto è fissato mediante una convenzione, una norma, una legge; l’esempio più ovvio è il s. linguistico). In rapporto all’interpretante il s. può essere un rema (termine o nomeclasse), un dicisegno (corrispondente più o meno a un enunciato) e un argomento (che consta di una premessa, costituita da un dicisegno o gruppo di dicisegni, e di una conclusione). Combinando le nove categorie indicate, Peirce ha poi derivato dieci classi di s., articolando ulteriormente la classificazione. Va notato peraltro che uno stesso s., a seconda del punto di vista da cui si considera, può essere classificato in classi diverse. Particolarmente importante la tricotomia indici, icone, simboli, che, nonostante sia stata da più parti violentemente criticata, modificata e arricchita, ha tuttavia il merito di proporre una categorizzazione generalissima delle funzioni segniche in relazione all’oggetto, riassorbendo le diverse concezioni del s. che la tradizione filosofica antica e moderna era andata proponendo (per es., la divisione s. naturali-s. artificiali, la dimensione inferenziale del s., messa in luce dalla tradizione ippocratica e dagli stoici, il rapporto s.-oggetto, con le varie interpretazioni ontologiche ed epistemologiche e i problemi della corrispondenza e della somiglianza, il tema del nome-etichetta e le sue implicazioni, la funzione individuante e deittica dei nomi, ecc.), e fornendo le basi per una trattazione anche dei s. di tipo non linguistico (con riferimento, per es., alla problematica dell’estetica e in partic. della critica d’arte).
Una diversa classificazione dei s. è stata infine proposta dal filosofo americano Morris (Signs, language and behavior, 1946; trad. it. Segni, linguaggio e comportamento), che, sviluppando spunti peirciani, ha proposto una definizione comportamentistica del s. che tende a escludere il ricorso a entità mentali (immagini, idee, concetti). In questa accezione il s. viene inteso come stimolo preparatorio che sostituisce lo stimolo in senso proprio («... se A è uno stimolo preparatorio che, in assenza dell’oggetto stimolatore che dà inizio a una risposta-sequenza di una certa famiglia di comportamenti, causa in qualche organismo una disposizione a rispondere attraverso risposte-sequenze di questa famiglia di comportamenti, allora A è un s.»). Su questa base Morris distingue s. complessi (o ascrittori) e s. semplici: questi ultimi si suddividono in identificatori (ulteriormente articolati in indicatori, descrittori, nominatori; si tratta di s. che tendono a indirizzare la risposta in una definita regione spazio-temporale, cioè che localizzano), designatori (che designano le proprietà di una situazione), apprezzatori (che servono a valutare positivamente o negativamente), prescrittori (che comandano un certo comportamento), e infine, come classe residua (i s. precedentemente citati sono considerati «lessicatori»), formatori (suddivisi in determinatori, connettori e manieratori; esempio dei primi sono i termini che fissano l’ambito di denotazione, come «tutti, alcuni, ecc.», dei secondi i connettivi logici ‒ i cosiddetti termini sincategorematici degli antichi ‒, dei terzi i s. d’interpunzione, le intonazioni o modulazioni della voce, quelli che la linguistica moderna classifica come tratti soprasegmentali). Morris ha tentato altresì, sempre riprendendo Peirce, di fissare la fluttuante terminologia usata dai vari pensatori e studiosi per caratterizzare la situazione segnica, distinguendo il veicolo segnico, che è l’oggetto o il processo che serve da s., il designato, ciò cui il s. si riferisce, l’interpretante, l’effetto suscitato nell’interprete, che già in Peirce può essere inteso come «significato» del s., e l’interprete, come soggetto del processo di significazione (logicamente non indispensabile per Peirce, e assente quindi dalla sua classificazione). Va segnalata inoltre l’importante distinzione, proposta da Morris a partire dal suo Foundations of the theory of signs (1938; trad. it. Lineamenti di una teoria dei segni), della teoria dei s. in una sintassi, in una semantica e in una pragmatica, intesa come analisi e studio della situazione in cui il s. viene usato, indagine sul rapporto tra s. e interpreti.
Questa suddivisione ha avuto indubbia influenza sulla filosofia del linguaggio novecentesca come tentativo di conciliare in una sintesi più ampia le concezioni del significato neopositivistiche e pragmatistiche (come tale è stata recepita, tra gli altri, da Carnap). Tra gli anni Sessanta e Settanta del 20° sec. le problematiche filosofiche connesse alla nozione di s. hanno profondamente interagito con la linguistica strutturale e con la filosofia ermeneutica. Da ricordare, in questa prospettiva, i contributi di Ricoeur, volti soprattutto all’applicazione del concetto al linguaggio religioso e poetico, e di U. Eco, che ha esteso la considerazione semiotica all’arte e alla comunicazione sociale, tentandone inoltre una rigorosa sistematizzazione (Trattato di semiotica generale, 1975).