GUERRA MONDIALE, SECONDA
Mentre il conflitto si estendeva così al Pacifico ed all’Indiano, l’anno 1941 si chiudeva con una serie di importanti manifestazioni diplomatiche. Tra il 3 e il 5 dicembre il gen. W. Sikorski sostava a Mosca ove sottoscriveva con Stalin un patto di amicizia e di collaborazione militare che prevedeva, per il tempo di pace, amicizia, rispetto leale degli obblighi assunti dalle due potenze firmatarie e creazione di una organizzazione interstatale fondata sull’unione di tutti gli stati democratici. Nel corso dei colloqui Sikorski-Stalin vennero discussi prevalentemente argomenti militari concernenti soprattutto l’organizzazione dell’esercito polacco; tuttavia, al termine di un banchetto, la sera del 4 dicembre, Stalin cercò di abbordare la questione dei confini russo-polacchi dichiarandosi disposto ad accontentarsi di piccole rettifiche del tracciato di Riga del 1921. Il capo del governo polacco rifiutò tuttavia la discussione per ragioni costituzionali. Fu probabilmente perduta allora l’occasione più favorevole per una transazione consensuale del grave problema. L’8 dicembre il maresciallo Göring si incontrava con Pétain e F. Darlan a Saint-Florentin. In tale occasione il capo dello Stato francese accusò risolutamente i Tedeschi di essere venuti meno alle promesse di Montoire. Egli aveva concepito la collaborazione su di un piano di uguaglianza, ma la Germania stava commettendo gli stessi errori della Francia del 1919. La Germania avrebbe da sola potuto vincere la guerra, ma non la pace. Nessuna vera pace sarebbe stata possibile senza la Francia. La discussione proseguì tanto aspra che Göring dovette ricordare ai Francesi che i vinti erano loro e non i Tedeschi. Anche gli interventi di Darlan furono assai duri e pieni di rimproveri. Il convegno doveva seppellire gran parte delle ultime illusioni di Hitler sulla possibilità di una collaborazione volontaria di Vichy ed indurlo a puntare sulla carta Laval. Darlan era quindi ricevuto due giorni dopo a Torino dal conte Ciano ed in tale circostanza veniva deciso l’invio di un ambasciatore italiano a Parigi. Il 16 dicembre, il ministro degli Esteri fascista accoglieva a Venezia il capo del governo croato. Nel corso del colloquio veniva deciso il rinvio dell’insediamento a Zagabria del sovrano designato e la retrocessione della maggior parte dell’amministrazione della seconda zona dalle autorità militari italiane a quelle civili croate. Il giorno di Natale il sommo Pontefice rivolgeva da Roma un messaggio a tutti i popoli e tutti i governi, indicando 5 punti che avrebbero dovuto costituire la base della futura pace. Quattro giorni dopo, Mussolini indirizzava a Hitler una lettera nella quale proponeva un’azione comune a Vichy per ottenere, con le buone o con le cattive, l’uso dei porti della Tunisia ritenuti ormai indispensabili per il proseguimento della lotta nell’Africa settentrionale. Contemporaneamente veniva reso noto che il Primo ministro britannico si trovava a Washington ed il ministro degli Esteri a Mosca. I colloqui avuti da Churchill a Washington ed a Ottawa contemplavano il coordinamento tanto dell’azione militare quanto di quella diplomatica. Compito di Eden era quello di fare approvare da Molotov le azioni interessanti l’URSS. Tale opera di collegamento si doveva rivelare meno agevole del previsto data l’uguale urgenza delle richieste delle varie potenze per i tre principali teatri della guerra: Estremo Oriente, Africa ed Europa orientale, e la necessità di stabilire una gerarchia che Churchill volle ed ottenne fosse favorevole alla Gran Bretagna. Sul piano diplomatico il risultato più notevole si ebbe nell’accoglimento, dopo molti sforzi, di una dichiarazione collettiva delle potenze in guerra con l’Asse, per confermare l’accettazione dei principî della Carta Atlantica, combattere le potenze del Tripartito con tutte le risorse disponibili fino alla vittoria comune e non concludere armistizio o pace separata. Detta dichiarazione era sottoscritta a Washington il 1° gennaio 1942 dai rappresentanti di 26 stati e dava formalmente vita all’aggruppamento delle Nazioni Unite.
11. El-‚Alamein-Stalingrado. Sbarco anglo-americano nel NordAfrica (gennaio-novembre 1942). – All’inizio del nuovo anno, Ribbentrop aprì l’attività diplomatica delle potenze dell’Asse con un viaggio a Budapest (8 gennaio) con lo scopo di ottenere una più intensa partecipazione dell’Ungheria alla guerra contro l’URSS da prepararsi con una mobilitazione generale. Il governo magiaro respinse l’invito e, in occasione del successivo soggiorno del conte Ciano (15-18 gennaio), manifestò la propria insofferenza per le pressioni e l’invadenza di Berlino, che doveva rinnovarsi a breve scadenza con una visita del maresciallo Keitel (20 gennaio). Mentre le potenze del Tripartito sottoscrivevano a Berlino una nuova convenzione militare per definire la ripartizione dei compiti degli eserciti rispettivi (19 gennaio), tra il 15 ed il 23 gennaio si adunava a Rio de Janeiro la conferenza interamericana, che, al termine dei suoi lavori, approvava una risoluzione di solidarietà contro gli aggressori extracontinentali ed in favore della rottura delle relazioni diplomatiche con la Germania, il Giappone e l’Italia.
La sola Argentina formulava alcune riserve a proposito della rottura delle relazioni diplomatiche con l’Asse. A Roma ed a Berlino, ove il morale era alquanto basso per l’infelice andamento delle operazioni militari in Russia ed in Africa, la decisione di Rio non mancò di suscitare preoccupazioni e fu discussa in occasione della visita di Göring in Italia (2 febbraio), visita dedicata tuttavia prevalentemente all’esame delle questioni militari (attacco su Malta ed abbandono dei progetti di Mussolini per i porti tunisini a causa delle condizioni poste da Vichy, da entrambi ritenute inaccettabili). Il soggiorno nella capitale italiana del Gran Muftêe di Rashêd ’Alê, iniziato il 6 febbraio, portò alla ribalta politica dell’Asse il problema dell’indipendenza degli stati arabi, ma le discussioni in proposito riuscirono inconclusive. Nello stesso tempo Gandhi si incontrava a Delhi con Ch’ang Kai-shek (10 febbraio), ciò che contribuì al rafforzamento delle posizioni britanniche in India. L’11, Franco riceveva la visita di Salazar che portava alla conferma della solidarietà tra le due potenze iberiche ed all’intesa di respingere le eventuali invasioni straniere. Due giorni dopo il maresciallo I. Antonescu era convocato da Hitler, che insisteva specialmente sulla necessità di accrescere lo sforzo contro l’URSS in vista della progettata offensiva primaverile. Anche a Bucarest i segni di stanchezza erano visibili e soprattutto Mihail Antonescu cominciava a parlare apertamente al ministro d’Italia R. Bova Scoppa dell’opportunità di trovare una via pacifica di uscita dal conflitto.</subpar>
<subpar>I viaggi di Raczynski (15 febbraio) e di Sikorski (24 marzo) a Washington ebbero per effetto di rafforzare l’opposizione degli Stati Uniti alle richieste dell’URSS per il riconoscimento anglo-americano degli acquisti territoriali del 1939. La questione era stata sollevata da Molotov e da Stalin ad A. Eden fin dal dicembre 1941 in occasione della visita del ministro britannico a Mosca e da questi declinata. Di fronte tuttavia all’insistenza sovietica ed alla impossibilità di accogliere i vivaci appelli del Kremlino per l’apertura immediata di un secondo fronte ad Occidente (26 febbraio), il Foreign Office, temendo l’eventualità di una pace separata russo-tedesca, dimostrò di essere disposto a riesaminare il suo atteggiamento iniziale e, nonostante l’opposizione di Washington, fu sul punto di cedere sulla questione polacca. Alla vigilia della firma dell’alleanza anglo-russa effettuata a Londra da Molotov e da Eden il 26 maggio, era già stato predisposto un protocollo segreto concernente l’assetto territoriale postbellico interessante Mosca. All’ultimo momento, tuttavia, l’intervento personale di Roosevelt, allora contrario a qualsiasi impegno preventivo, valse a fare cadere il protocollo aggiuntivo e per il momento la questione restò formalmente impregiudicata. Il 25 marzo Boris si recava in visita da Hitler che rivolgeva anche a lui un appello per un accrescimento dei presidî in Iugoslavia ed in Grecia per liberare altre forze tedesche da utilizzarsi in compiti offensivi e per facilitazioni di transito, di basi e di rifornimenti. Un mese dopo (29-30 aprile) Mussolini e Ciano s’incontravano con il Führer e von Ribbentrop a Salisburgo. Qui il cancelliere, dopo avere rievocato le vicende della disastrosa campagna invernale in Russia ed esposto con molto ottimismo i suoi piani per l’offensiva primaverile, passò in rassegna le varie questioni politiche confermando diffidenza per la Francia, rassegnazione per la Spagna, ostilità per la Svizzera e la Svezia, diminuzione delle simpatie per la Romania e l’Ungheria più che mai in perpetuo contrasto, speranza in un maggiore riavvicinamento con la Turchia, svalutazione per lo sforzo bellico degli Stati Uniti, consenso alla neutralità del Giappone verso l’URSS (il 20 marzo era stato prorogato l’accordo nippo-sovietico per la pesca), approvazione del progetto d’una dichiarazione collettiva per l’indipendenza dell’India e rinvio di ogni presa di posizione nei confronti dei paesi arabi fino a quando non fosse stata raggiunta una linea a sud del Caucaso. Sempre nel quadro della preparazione politico-militare dell’attesa offensiva, il 4 giugno Hitler completava i suoi incontri con un colloquio con il maresciallo C.G. Mannerheim (4 giugno). Il giorno dopo gli Stati Uniti dichiaravano guerra alla Bulgaria, alla Romania ed all’Ungheria. Era questo uno dei risultati del soggiorno di Molotov a Washington durante il quale il tema degli aiuti militari, del secondo fronte e dell’assetto territoriale postbellico furono ripresi con particolare insistenza. Il 15 giugno giungeva a Livorno, per un soggiorno alquanto prolungato, Serrano Suñer che si incontrava successivamente con Ciano, il re d’Italia e Mussolini. Tali colloqui non rivestirono peraltro una particolare importanza e confermarono la precedente linea di condotta della politica spagnola. Il 25 luglio Churchill faceva ritorno a Washington per partecipare al consiglio di guerra del Pacifico e, durante la sua breve permanenza negli Stati Uniti, concentrava prevalentemente la sua attività sull’esame dei problemi militari; in tale occasione all’indomani della caduta di Tobruch, veniva decisa per l’autunno la spedizione nell’Africa settentrionale francese.
Il 3 luglio le potenze dell’Asse, che riguadagnando tutti i territorî della Libia, precedentemente perduti a seguito dell’offensiva britannica e spingendosi in territorio egiziano, erano giunte alle porte di Alessandria, facevano una dichiarazione congiunta in favore dell’indipendenza dell’Egitto. Era questa la risultante di non facili discussioni tra Roma e Berlino nel corso delle quali si convenne di nominare un comandante militare tedesco (E. Rommel) ed un commissario civile italiano (S. Mazzolini). Cinque giorni dopo, Beneè, reduce da Mosca, annunciava pubblicamente le assicurazioni ricevute da Molotov circa il non riconoscimento da parte dell’URSS dei mutamenti territoriali avvenuti in Cecoslovacchia nel 1938-39. Era questa probabilmente una prima contropartita (non mantenuta poi per quanto concerne la Rutenia) al rallentamento e quindi al definitivo insabbiamento delle conversazioni già in progresso fra i Polacchi e i Boemi in vista di un’unione politica che non riusciva troppo gradita alla Russia.
Il 12 agosto il Primo ministro britannico, accompagnato dal rappresentante personale del presidente degli Stati Uniti, W. Harriman, dopo essersi incontrato al Cairo con Fàrùq ed il maresciallo J. C. Smuts, giungeva nella capitale sovietica per conferire per la prima volta con Stalin. L’incontro fu alquanto burrascoso a causa della insistenza di Stalin per l’apertura del secondo fronte ad Occidente nel 1942, apertura che, secondo i Russi, sarebbe stata promessa a Molotov in occasione dei suoi viaggi a Londra ed a Washington. Churchill affermò di non essere in grado di accogliere la richiesta sovietica. Non sembra invece che il tema delle frontiere postbelliche sia stato discusso in tale occasione. Churchill fece ritorno a Londra il 24 agosto. Due giorni dopo, Ciano e Ribbentrop s’incontravano a Budapest ove erano convenuti per i funerali del figlio del reggente Horthy. I colloqui italo-tedeschi, per quanto prolungati, non portarono nessun elemento politicamente nuovo e misero in luce soltanto il tono minore del ministro degli Esteri del Reich. Il 4 settembre, il gen. Franco compiva un passo ulteriore di avvicinamento alle democrazie licenziando Serrario Suñer, sostituito agli Esteri dal gen. don F. G. Jordana. Due settimane dopo le truppe britanniche sbarcarono nell’isola di Madagascar, la cui occupazione completavano abbastanza rapidamente. Intanto giungeva a Roma (23 settembre) l’inviato personale di Roosevelt presso il Papa, Myron Taylor, il quale doveva discutere con Pio XII varie questioni relative alla protezione degli Ebrei, ai rifugiati politici ed alla dichiarazione di Roma città aperta. Il soggiorno di Taylor suscitò nervosismo ed apprensione negli ambienti dell’Asse, ma non portò a risultati concreti. Il 1° ottobre, la Germania si annetteva formalmente la Slovenia settentrionale ed il 15 l’URSS approvava una nota collettiva sulla punizione dei criminali di guerra e chiedeva il giudizio immediato di quelli già in mano degli Alleati.
L’8 novembre le forze angloamericaue sbarcavano nell’Africa settentrionale Francese. Lo sbarco avveniva dopo la battaglia di el-‚Alamein che apriva la via alle truppe britanniche per la conquista della Libia, e quando le sorti della battaglia di Stalingrado volgevano ormai contro la Germania. L’iniziativa militare si trasferiva così nel campo delle Nazioni Unite e portava con sé anche delle considerevoli ripercussioni diplomatiche. Lo stesso giorno gli ambasciatori degli Stati Uniti e di Gran Bretagna in Spagna ed in Portogallo consegnavano separatamente al gen. Frauco ed a Salazar due messaggi per assicurarli che l’impresa non preludeva a nessuna mossa contro i loro paesi. Roosevelt rivolse pure un appello a Pétain che lo declinò e ruppe le relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti. Il 9 novembre, il conte Ciano, convocato d’urgenza, s’incontrava in serata a Berchtesgaden con Hitler e con Ribbentrop convenendo nella decisione di procedere all’occupazione immediata della Tunisia, della Corsica e della zona libera francese. Quando, il giorno successivo, Laval venne messo dai dirigenti dell’Asse al corrente delle loro intenzioni nei riguardi della Tunisia, cercò di porre delle condizioni e finì per chiedere di essere messo dinanzi al fatto compiuto. Le altre misure militari concernenti il resto dei territorî francesi gli vennero tenute celate ed egli doveva apprenderle solo l’indomani quando esse erano già in corso di attuazione. L’11 novembre Hitler indirizzava un messaggio a Pétain ed uno alla nazione francese nei quali cercava di giustificare le ragioni del proprio operato e chiedeva ulteriore collaborazione. Il capo dello stato francese protestava tuttavia pubblicamente contro la violazione dell’armistizio e, più tardi, segretamente autorizzava l’ammiraglio Darlan, che per pura coincidenza si trovava in Algeria, ad assumere un atteggiamento favorevole agli Angloamericani. Privo di contatti immediati con Vichy, l’ammiraglio francese, dopo qualche esitazione, aveva chiesto di regolarsi sulla base di istruzioni segrete dategli da Pétain fin dal 4 agosto 1940 e degli scambî di idee avuti precedentemente in Africa da Weygand ed i suoi collaboratori con gli emissarî di Roosevelt (R. Murphy e M. Clark). Il fatto tuttavia che il Comando d’Algeri fosse stato tratto in inganno circa la data esatta dell’operazione di sbarco (lo stesso inconveniente doveva ripetersi con risultati ancora più gravi in occasione dell’armistizio con l’Italia), gli impedì di ricevere da Vichy tempestive indicazioni e lo costrinse ad assumere inizialmente un atteggiamento incerto fino a che il maresciallo non prese definitivamente e segretamente posizione. L’11 novembre, ricevutane autorizzazione superiore, Darlan ordinò la cessazione della resistenza simbolica delle sue truppe; il 12 invitò la flotta di Tolone a raggiungere i porti algerini; il 13 assumeva la responsabilità degli interessi francesi in Africa; il 14 nominava il gen. H. Giraud comandante militare. Per mascherare il gioco, Pétain, da Vichy, ufficialmente lo sconfessò e Laval scrisse a Hitler offrendogli addirittura maggiore collaborazione, ma il cancelliere, nell’intento di reagire alle crescenti adesioni a Darlan, il 27 novembre ordinava l’occupazione di Tolone ove la flotta francese si autoaffondava per sfuggire alla cattura e mantenere la promessa fatta agli Inglesi nel giugno 1940.
Mentre Göring si recava a Roma per discutere essenzialmente questioni militari (30 novembre-6 dicembre), nella capitale italiana si riprendevano le trattative per ottenere la dichiarazione di città aperta e giungeva ulteriore conferma delle intenzioni romene di cercare una soluzione politica del conflitto. Contemporaneamente, Sikorski si incontrava a Washington con il presidente Roosevelt (2 dicembre), con il quale discuteva a lungo i problemi attinenti l’assetto territoriale postbellico, rilevando tuttavia per la prima volta una certa debolezza nell’atteggiamento del presidente degli S. U. verso l’URSS. L’anno si chiudeva poi con la dichiarazione di guerra dell’Etiopia alle potenze del Tripartito (1° dicembre); l’annuncio di Eden ai Comuni della decisione britannica di perseguire una politica di indipendenza per l’Albania (17 dicembre); un incontro di Ciano a Gorlitz con Hitler, Laval e Ribbentrop (18-19 dicembre), ed un importante messaggio natalizio del Papa, che enunciava i cinque punti necessarî perché la stella della pace potesse spuntare e fermarsi sul consorzio umano.
12. Conferenza di Casablanca: «resa senza condizioni». Tentativi italiani, romeni, ungheresi per uscire dalla guerra (gennaio-giugno 1943). – Il quarto anno di guerra fu, fin dal suo inizio, denso di importanti avvenimenti diplomatici. Il 7 gennaio perveniva a Roma ed a Berlino una richiesta del Giappone tendente a definire con maggiore precisione le rispettive zone d’influenza economica delle tre potenze del Tripartito. L’iniziativa non giungeva in un momento troppo fortunato per l’Asse e venne pertanto lasciata cadere. Due giorni dopo, il governo di Wang Ching-Wei dichiarava guerra alle Nazioni Unite; quindi dal 14 al 24 gennaio si riuniva la conferenza di Casablanca con la partecipazione di Roosevelt e di Churchill. Nel corso del convegno i due statisti adottavano la formula della resa senza condizioni da imporre a tutti i loro avversarî; approvavano i progetti per l’invasione della Sicilia da effettuarsi nell’estate; decidevano che l’apertura del secondo fronte sulla Manica dovesse aver luogo nel 1944 e costringevano, dopo lunghi e difficili negoziati, De Gaulle a conciliarsi col gen. Giraud (Gran Bretagna e Stati Uniti si atterranno inflessibilmente fino alla fine alla formula della resa incondizionata; l’URSS seguirà invece una linea più elastica nei confronti della Finlandia e degli stati balcanici). Il presidente degli Stati Uniti avrebbe desiderato potersi incontrare fin da allora con Stalin, ma questi declinò l’offerta. Nella speranza di riuscire ulteriormente in tale intento e di attenuare il malumore del presidente del Consiglio dei commissarî del popolo per il mancato accoglimento delle sue richieste militari, Roosevelt decise di adottare un atteggiamento di estrema cautela di fronte alla crescente tensione tra l’URSS e il governo polacco per la questione dei confini ch’era all’origine di tutti i contrasti anche su altri punti secondarî (organizzazione del corpo polacco, assistenza nell’URSS ai cittadini polacchi, liberazione dei prigionieri, determinazione degli aventi diritto alla cittadinanza sovietica e polacca). Mentre Antonescu era ricevuto al gran quartiere generale di Hitler, giungevano a Roma precise indicazioni sul desiderio della Romania (19 gennaio) e dell’Ungheria (29 gennaio) di uscire dal conflitto. Ciano se ne fece portavoce presso Mussolini, il quale – forse dietro pressioni di Berlino, che doveva essere venuta a conoscenza del passo – reagì negativamente, liquidando di lì a poco il genero ed assumendo egli stesso il portafoglio degli Esteri (5 febbraio). Nel mese di gennaio avevano pure avuto luogo la rinuncia della Gran Bretagna e degli Stati Uniti d’America ai loro diritti di extraterritorialità in Cina (11 gennaio) e la conferenza di Adana fra Churchill ed il presidente I. Inönü (30 gennaio), durante la quale la Turchia respinse l’invito ad entrare immediatamente in guerra e si concordarono soltanto gli aiuti che Londra e Washington avrebbero inviato al governo di Ankara per completare la sua preparazione militare.
Sottoposta a nuove pressioni tedesche (nella sua nutrita corrispondenza con Mussolini di quelle settimane, Hitler tornò più volte sul pericolo di un atteggiamento remissivo di Franco verso Londra e Washington), la Spagna sottoscriveva il 1° febbraio un protocollo segreto ai termini del quale s’impegnava a resistere ad un’eventuale azione anglo-americana sui proprî territorî. Una settimana dopo la signora Ch’ang Kai-shek giungeva a Washington ove era ricevuta da Roosevelt e dal congresso americano. Fu in occasione di tale soggiorno prolungato che dovevano essere poste le basi delle decisioni della conferenza del Cairo (22 novembre). Intanto la tensione russo-polacca si andava aggravando. Il 25 febbraio Ribbentrop si recò a Roma per prendere contatto con le nuove gerarchie del regime e stimolarne lo spirito di resistenza sul quale a Berlino si cominciavano a nutrire serie apprensioni, e discutere la linea di condotta politica da tenere nei Balcani. Il governo polacco di Londra quello stesso giorno pubblicava una dichiarazione nella quale si affermava doversi considerare immutato lo statuto delle frontiere del 1939. Il 1° marzo da Mosca si replicava sostenendo che la Polonia non aveva titolo per formulare rivendicazioni nell’Ucraina e nella Bielorussia, provocando tre giorni dopo una nuova messa a punto del governo Sikorski. L’8 marzo si verificava un incidente russo-americano per la mancata diffusione nell’URSS delle notizie relative agli aiuti ricevuti dagli Stati Uniti in base alla legge Affitti e prestiti. Il governo di Mosca corse tuttavia subito ai ripari, ma l’episodio preoccupò vivamente Roosevelt e Churchill. Il 12, Eden era chiamato improvvisamente a Washington, ove si prodigava per ottenere che gli Stati Uniti assumessero un atteggiamento conciliante di fronte alle rivendicazioni territoriali sovietiche, soprattutto nei riguardi della Polonia. Sebbene Roosevelt non aderisse allora interamente alle richieste del ministro degli Esteri britannico, richieste dettate dal timore di una pace separata russo-tedesca, pure diede a vedere di non volere più insistere con l’iniziale rigidità sui principî della Carta Atlantica e cominciò a divenire evasivo e riservato di fronte ai Polacchi. Effettivamente Mussolini scriveva il 26 marzo ad Hitler per consigliargli esplicitamente un compromesso con Mosca, ma il suggerimento non era raccolto dal Führer, il quale riteneva che l’URSS, dopo qualche anno di tregua, avrebbe finito per assalire la Germania e fosse pertanto necessario fare scomparire definitivamente ogni minaccia anche solo potenziale ad oriente.
Il 4 aprile, il capo del governo ungherese, N. Kállay, che era già entrato segretamente in contatto ad Istanbul con emissarî di Londra e di Washington per proporre loro un’intesa ai termini della quale l’Ungheria non avrebbe opposto resistenza ad una avanzata anglo-americana sul territorio magiaro, lasciava Roma dopo una permanenza di tre giorni durante i quali i problemi politico-militari dei Balcani e del fronte orientale furono discussi; però in tono minore. In realtà il tema che stava veramente a cuore allo statista ungherese era invece quello di un’azione comune per persuadere Hitler a fare la pace con la Russia, e su di esso Kállay insistette molto; a ciò incoraggiato da colloqui avuti in Vaticano. Mussolini promise il suo interessamento presso Hitler, ma tacque il fatto che in realtà egli stesso aveva già preso una simile iniziativa ed essa aveva avuto esito negativo. Le preoccupazioni circa le future mosse delle Nazioni Unite dopo la prevista caduta della Tunisia, la pacificazione della regione iugoslava tanto più necessaria per l’eventualità di sbarchi degli anglo-americani e l’atteggiamento della Francia, della Spagna e della Turchia, indussero Hitler e Mussolini ad incontrarsi con i loro seguiti tra il 7 e il 10 aprile per concordare una politica comune specialmeme in Croazia ove i due comandi militari dell’Asse divergevano nelle loro concezioni. In seguito il cancelliere riceveva il maresciallo I. Antonescu (12 aprile), re Boris (14 aprile), l’ammir. N. Horty (16 aprile), V. Quisling (19 aprile), mons. J. Tiso (23 aprile), A. Paveliã (27 aprile), P. Laval e G. Bastianini (29 aprile), cui cercava d’infondere nuove energie e chiedeva, con mediocre successo, ulteriori contributi per lo sforzo bellico della Germania ormai ovunque sulla difensiva. A sua volta Ribbentrop aveva il 18 a Füchsl una lunga ed importante conversazione coll’ambasciatore H. Oshima al quale riferiva l’esito delle visite del Führer, assicurandolo che né la Germania né i suoi satelliti pensavano a soluzioni di compromesso. D’altra parte il ministro degli Esteri del Reich sollevò discretamente la questione dei rapporti nippo-russi, mettendo in guardia il govemo di Tükyü contro i pericoli derivanti da una politica passiva nei confronti dell’URSS, che un giorno avrebbe potuto ritorcersi contro il Giappone.
Il 16 aprile, una dichiarazione del ministro polacco della Difesa relativa all’eccidio delle fosse di Katyn faceva precipitare la crisi dei rapporti russo-polacchi nella rottura delle relazioni diplomatiche tra i due governi, decisa a Mosca, il giorno 26.
L’evento causò vive preoccupazioni nel campo anglo-americano e diede vita ad un intenso lavorio presso entrambi i contendenti per trovare una formula di compromesso. Il 28 aprile il governo Sikorski pubblicò una dichiarazione nella quale si affermava che la sua politica mirava ad una intesa con l’URSS; il 3 maggio, giorno della festa nazionale polacca, il presidente della repubblica pronunciava alla radio un discorso in cui si ribadiva la impossibilità costituzionale nella quale si trovava il governo Sikorski di deviare dalle direttive politiche fino a quel momento perseguite e si auspicava una soluzione dei problemi postbellici basata sui principî della Carta Atlantica. Due giorni dopo, alla Camera dei Comuni, Eden riferiva sugli sforzi compiuti dal governo britannico per riavvicinare le due parti ed impedire che la Germania profittasse di un contrasto che poteva tornare a favore soltanto del nemico. Il 7, tuttavia, A. Vièinskij ribadiva le accuse sovietiche, il che induceva Roosevelt ad inviare d’urgenza l’ex-ambasciatore americano J. Davies a Mosca con una lettera personale per Stalin nella quale si insisteva per un incontro tra i Big Three (7 maggio), e Churchill ad affrettare la sua partenza per Washington.
Il soggiorno del primo ministro britannico negli Stati Uniti durò dall’11 al 27 maggio. Nel corso dei lavori della seconda conferenza di Washington furono prese importanti decisioni relative all’intensificazione delle pressioni diplomatiche sulla Turchia, che, per intervenire, chiedeva maggiori garanzie da parte sovietica; al rinvio dell’apertura del secondo fronte in Occidente; all’accrescimento dello sforzo bellico nel Pacifico; ai maggiori appoggi da dare al governo di Ch’ang Kai-shek ed all’offensiva aerea sulla Germania. Churchill cercò in tale occasione anche di indurre Roosevelt a schierarsi in favore del riconoscimento della cosiddetta linea Curzon come frontiera tra la URSS e la Polonia, ma senza successo immediato. Entrambi convennero tuttavia sulla necessità di indurre Stalin ad incontrarsi con loro e di non fare nulla che avesse potuto pregiudicare tale evento. Davies venne ricevuto da Stalin il 17 maggio, ripartendo 10 giorni dopo con la risposta del presidente del Consiglio dei commissarî del popolo. In un primo tempo questi aveva dato l’impressione di accogliere favorevolmente l’idea di un incontro a due russo-americano, ed il 23 maggio aveva proceduto allo scioglimento del Komintern; poi divenne esitante quando seppe che anche Churchill insisteva per la sua partecipazione e finì per assumere un atteggiamento dilatorio. Intanto anche E. Beneè si era recato a Washington nella speranza di potere svolgere un’opera di mediazione (12 maggio); quindi, dopo una sosta di Churchill e di Eden ad Algeri (30 maggio), Giraud e de Gaulle pervenivano a concludere un accordo che riuniva sotto la loro direzione congiunta tutte le forze francesi libere (3 giugno).
Nel frattempo, nel campo avverso, si studiavano le possibilità di uno sganciamento dalla Germania per uscire dalla guerra.
A Roma, il 15 maggio, il re d’Italia redigeva per Mussolini tre appunti in questo senso; a Budapest, Kállay, faceva intensificare i suoi contatti con gli anglo-americani a Istanbul e parlava apertamente con il capo della legazione d’Italia; a Bucarest, il vice presidente Antonescu insisteva presso il ministro Bova Scoppa, affinché fossero affrettati i tempi di un’azione comune della quale Mussolini avrebbe dovuto assumere l’iniziativa. Forte di queste informazioni Bastianini redigeva il 15 giugno un appunto per il capo del governo fascista nel quale si riaffermava l’opportunità di una collaborazione tra l’Italia ed i paesi da nubiani «nella ricerca di una soluzione politica della guerra». Mussolini, che già aveva inviato il marchese Paolucci de’ Calboli ambasciatore a Madrid con istruzioni verbali di cercare una pace di compromesso con gli Angloamericani, non assunse un atteggiamento del tutto negativo ed acconsentì a ricevere il 1° luglio il vice presidente Antonescu a Rocca delle Caminate. Nel corso di tale colloquio, lo statista romeno parlò a lungo ed apertamente. Mussolini lo ascoltò con attenzione senza interromperlo e concluse dicendo che avrebbe tentato la cosa, ma solo due mesi dopo, quando cioè la situazione militare fosse migliorata e l’esercito italiano avesse respinto i previsti tentativí di sbarco degli Angloamericani in Sicilia o in Sardegna. In seguito, tuttavia, alle insistenti pressioni del gen. V. Ambrosio ed in vista dello sfavorevole andamento delle operazioni militari in sicilia, ove gli Alleati avevano incontrato una resistenza assai limitata (1° luglio), Mussolini promise ai proprî collaboratori di parlare apertamente ad Hitler con il quale convenne di incontrarsi. Nel corso del convegno di Feltre (19 luglio) – preceduto due giorni prima da un significativo appunto di Bastianini al card. Maglione – Mussolini non osò tuttavia affrontare l’argomento e l’incontro tra i due vide soltanto una discussione sulle misure militari da adottare per fronteggiare la situazione.
13. Caduta di Mussolini. Armistizio e cobelligeranza italiana. Conferenze del Cairo e di Öeheràn (luglio-dicembre 1943). – Rovesciato Mussolini, incapace di trovare una via d’uscita dal conflitto per l’Italia, cui il 16 luglio Roosevelt e Churchill avevano rivolto un congiunto appello per la resa, il nuovo governo Badoglio cercò inizialmente contatti diplomatici con gli Alleati a Berna, a Lisbona ed a Tangeri (3-5 agosto). Questi contatti, ed in particolare l’incontro d’Ajeta-Campbell a Lisbona, misero tuttavia in luce la decisione anglo-americana di trattare unicamente una resa sul piano militare. Di qui il rapido esaurimento della fase diplomatica e l’inizio di quella militare affidata al gen. G. Castellano (15 agosto), fase ch’era stata preceduta dall’incontro Guariglia-Ribbentrop a Tarvisio (6 agosto) nel corso del quale il ministro degli Esteri italiano aveva unicamente cercato di guadagnare tempo sforzandosi di attenuare e di ritardare la reazione tedesca. La notizia delle trattative del governo Badoglio giunse a Churchill ed a Roosevelt mentre si trovavano riuniti in conferenza a Quebec (17-24 agosto), e, poiché esse contemplavano l’imprevista offerta di partecipazione alla lotta contro la Germania, i due statisti aggiunsero al testo delle condizioni di resa, fissato in precedenza e non più modificato, un documento separato nel quale si affermava che dette condizioni sarebbero state successivamente riformate in relazione all’entità dell’apporto dato dall’Italia alla causa comune. Nessuna discussione fu ammessa dagli Alleati; Badoglio doveva pertanto finire per rassegnarsi a far sottoscrivere l’armistizio di Cassibile nei termini indicati fin dall’inizio dagli Angloamericani (3 settembre).
Alla conferenza di Quebec furono inoltre discusse numerose altre importanti questioni. Respinta la proposta di Churchill per l’apertura del secondo fronte nei Balcani per controbilanciare la oramai preoccupante influenza russa, furono approvati i piani per lo sbarco in Normandia da effettuarsi nel 1944. Pure infruttuose furono le pressioni del primo ministro britannico in favore del riconoscimento del comitato di de Gaulle, mentre l’accordo fu facilmente raggiunto circa la politica da seguire in Turchia e – con il concorso del ministro degli Esteri cinese, T. V. Soong – in Estremo Oriente. Subito dopo, mentre Churchill si tratteneva a Washington, ove ad un certo momento prospettò anche l’eventualità di un’alleanza permanente auglo-americaria, Eden faceva ritorno a Londra per mettere al corrente l’inviato di Stalin, I. M. Majskij, delle decisioni prese e trasmettergli il pressante invito per un convegno a tre (30 agosto). I colloqui tra il ministro degli Esteri britannico ed il vicecommissario del popolo sostituirono il progettato viaggio di Eden a Mosca, gettarono le basi della conferenza dei tre ministri degli Esteri che doveva adunarsi poco dopo nella capitale sovietica per preparare l’incontro dei Big Three e videro l’acquiescenza di Stalin all’idea di ricercare nella Prussia orientale compensi territoriali per i progettati sacrifici della Polonia. Intanto anche Kállay, che il 19 agosto aveva pronunciato un discorso d’intonazione pacifica, nominava ministro a Stoccolma A. Ullein-Reviczky con il mandato specifico di riprendere le conversazioni con gli Angloamericani, ed Antonescu, dopo l’incontro con Hitler del 25, a sua volta cercava di trattare in Turchia. Mentre l’Iràn dichiarava guerra alla Germania (9 settembre), Badoglio diramava un primo proclama per stigmatizzare l’aggressione tedesca alle truppe italiane (11 settembre), quindi, incoraggiato dai messaggi laudativi di Roosevelt e Churchill (12 settembre), dopo essersi incontrato a Malta con D. Eisenhower per firmare il cosiddetto armistizio lungo (29 settembre), dietro le insistenti pressioni anglo-americane, induceva il sovrano a dichiarare la guerra alla Germania (13 ottobre), e riusciva simultaneamente ad ottenere il riconoscimento, da parte dei Tre Grandi, dello statuto di cobelligerante. Ormai anche l’iniziativa diplomatica era interamente e definitivamente passata nelle mani delle Nazioni Unite.
Mentre Hitler conferiva con Mussolini (15 settembre), N. Nediã (18 settembre) e B. Filov (18 ottobre), incaricando Ribbentrop di indurre i Giapponesi a rompere con l’URSS (28 novembre) e di inviare un duro messaggio a Pétain per cercare di raddrizzare in qualche misura la situazione politica in Francia (11 dicembre), nel campo avversario la cronaca registra tutta una serie di accordi, conferenze, decisioni e colloqui politici di grande interesse. Il 12 ottobre, Churchill annunciava ai Comuni la conclusione di un accordo con il Portogallo per la concessione temporanea di basi navali all’Inghilterra nelle Azzorre; il 18, si adunava a Mosca la conferenza dei tre ministri degli Esteri (v. <vedi>mosca, in questa App.</vedi>) che concludeva i suoi lavori il 1° novembre con l’approvazione di 5 importanti dichiarazioni; il 5-7 novembre, Eden si incontrava al Cairo con il ministro degli Esteri turco N. Menemenjoglu; il 9, le 44 Nazioni Unite sottoscrivevano la convenzione per la creazione dell’UNRRA; il 22, Churchill, Ch’ang Kai-shek e Roosevelt si incontravano al Cairo; il z8, aveva inizio la Conferenza di Teheràn con l’intervento dei Big Three; il 4 dicembre, si svolgeva la seconda conferenza del Cairo fra Roosevelt, Churchill ed il presidente Inönü: l’11, Beneè arrivava a Mosca donde proseguiva per il Cairo, ove il 31 dicembre si incontrava con il primo ministro iugoslavo B. Puriã. Senza dubbio, anche nel campo delle Nazioni Unite, il quadro presentava notevoli ombre specialmente per il mancato intervento della Turchia nonostante le forti pressioni esercitate su di essa nei colloqui del Cairo, per la fallita mediazione anglo-americana nella controversia russo-polacca ed il graduale allontanamento dai principî della Carta Atlantica nell’affrontare la soluzione dei problemi concreti. Nel suo complesso, però, l’anno 1943 si chiudeva con un bilancio straordinariamente attivo che tutto portava a ritenere potesse consolidarsi in un avvenire immediato.
14. Sbarco degli Alleati in Normandia. Dumbarton Oaks (gennaio-agosto 1944). – L’inizio del quinto anno di guerra doveva portare ad una crisi risolutiva dei rapporti russo-polacchi. Il 4 gennaio le truppe sovietiche varcavano l’antica frontiera del 1921. Il giorno successivo il governo Mikolajczyk (Sikorski era perito il 4 luglio 1943 in un accidente aereo a Gibilterra) aveva rivolto un proclama di circostanza al popolo polacco invitandolo anche a favorire l’azione militare sovietica e dichiarando augurabile una collaborazione tra i due paesi. Il 10 gennaio, da Mosca, si replicava sostenendo essere la frontiera russo-polacca quella concordata tra Russi e Tedeschi nel 1939, tuttavia non si escludeva qualche ritocco in favore di Varsavia sulla base della linea Curzon. La Polonia avrebbe dovuto al contrario rivolgere le proprie aspirazioni ad occidente sui territorî che un tempo le erano appartenuti e di cui la Germania si era appropriata. Cinque giorni dopo, da parte polacca, si dichiarava l’impossibilità di riconoscere decisioni unilaterali o fatti compiuti e si annunciava la richiesta della mediazione anglo-americana, al che radio Mosca rispondeva il 17 affermando che l’atteggiamento del governo Mikolaiczyk equivaleva al rifiuto di accettare la linea Curzon e che le trattative proposte non avrebbero potuto avere luogo dal momento che le relazioni diplomatiche tra i due paesi erano state interrotte in vista dell’atteggiamento antisovietico assunto nella questione di Katyn. Questo contrasto doveva causare grave preoccupazione ed imbarazzo a Londra ed a Washington. Churchill propose a Mikolajczyk (22 gennaio) un compromesso di 5 punti nel quale si prevedeva l’accettazione della linea Curzon rettificata nella parte meridionale (Galizia), l’attribuzione alla Polonia della Prussia Orientale, di Danzica e dell’Alta Slesia fino all’Oder, il diritto dei Polacchi abitanti nei territorî attribuiti alla Russia di emigrare liberamente in Patria, il trasferimento di tutti i Tedeschi dalla Prussia Orientale e dall’Alta Slesia e la garanzia russo-anglo-americana. Dette proposte furono tuttavia respinte dal governo polacco, sebbene anche Roosevelt assumesse verso lo stesso governo polacco un atteggiamento di estrema freddezza e rifiutasse di ricevere tanto l’ambasciatore a Washington, Y. Ciechanowski, quanto il primo ministro Mikolaiczyk. Preoccupato per la crescente irritazione di Mosca e desiderando esercitare una pressione decisiva sui Polacchi, Churchill decideva il 22 febbraio di rendere pubblica alla Camera dei Comuni la propria posizione con un discorso nel quale era riaffermata la necessità del progettato compromesso territoriale. Mikolajczyk si appellò allora a Roosevelt con una lunga lettera del 25 marzo in cui esponeva ancora una volta la tesi del suo governo e chiedeva nuovamente di essere ricevuto a Washington, ma il presidente degli Stati Uniti rispondeva il 3 aprile con un breve biglietto nel quale, senza entrare in argomento, affermava di non essere in grado di riceverlo per ragioni di salute e si riservava di indicargli in un momento successivo l’epoca in cui il primo ministro polacco avrebbe potuto recarsi a Washington.
Contemporaneamente, la Finlandia e l’Ungheria si adoperavano intensamente quanto infruttuosamente per uscire dal conflitto.
Il 12 febbraio, l’ex-ministro degli esteri Y. K. Paasikivi giungeva a Stoccolma. Il giorno successivo si incontrava per la prima volta con il ministro sovietico, signora A. Kollontay, dalla quale, in occasione di un secondo colloquio, riceveva il testo delle condizioni di armistizio trasmessele da Mosca. Esse prevedevano il ritorno al confine dal 1940, l’internamento delle truppe tedesche ed il pagamento dei danni di guerra. La risposta del governo di Helsinki venne data l’8 marzo, ma il governo sovietico la considerò insoddisfacente (1° marzo) e stabilì la data del 18 quale ultimo termine per l’accettazione integrale delle proprie proposte iniziali. Il 17 la Finlandia confermò la sua impossibilità di accogliere integralmente le progettate condizioni, il che induceva l’URSS a fare una dichiarazione pubblica in proposito (21 marzo). Ciò nonostante Paasikivi si recava a Mosca per ottenere personalmente ulteriori chiarimenti sulle varie clausole e faceva subito ritorno ad Helsinki (1° aprile). Riesaminata la situazione, la Finlandia presentò nuove controproposte che l’URSS non trovò soddisfacenti. Di qui la rottura definitiva del negoziato (22 aprile). Dopo di che la Germania riusciva a riprendere temporaneamente quota ad Helsinki, ove, dopo lunghe trattative, Ribbentrop stipulava un nuovo accordo nel quale, dietro l’impegno di non concludere pace separata, assicurava alla Finlandia l’immediata assistenza militare tedesca. Quanto all’Ungheria, le trattative di Stoccolma formalmente iniziate il 1° dicembre 1943 da Ullein-Reviczky avevano fatto notevoli progressi dopo la consegna al rappresentante del Joint Chiefs of General Staff di una nota del 22 febbraio nella quale erano illustrate le limitate richieste di Budapest. Il 1° ed il 3 marzo Kállay inviava ulteriori istruzioni a Stoccolma, ma, essendo i Tedeschi venuti a conoscenza della sua azione, il 18 invitavano Horthy al quartier generale di Hitler ove aveva luogo una discussione drammatica fra i due capi di stato. Il 19 le truppe germaniche varcavano la frontiera ed occupavano l’intero paese, il 21 Kállay si dimetteva, il 22 D. Sztójay costituiva il nuovo governo ormai interamente prigioniero di Berlino.
Nel frattempo, anche il governo italiano si sforzava di riprendere la propria azione diplomatica tenacemente diretta a conseguire lo statuto di alleato.
Già il 23 settembre 1943 re Vittorio Emanuele aveva rivolta in due lettere personali a Roosevelt ed a Giorgio VI tale precisa richiesta accompagnata da altre minori, ottenendo, separatamente, da entrambi i capi di stato sul punto principale, risposte interlocutorie, e vaghe promesse condizionate al ritorno ad un regime effettivamente democratico. Il 20 novembre Badoglio si era anche egli rivolto a Roosevelt per richiamare la sua attenzione sull’incompatibilità tra le dure condizioni dell’armistizio e lo sforzo bellico italiano. Il 5 dicembre avevano luogo a Brindisi i primi contatti tra R. Massigli e R. Prunas per una politica di chiarimento e di collaborazione italo-francese, mentre il 27, Badoglio chiedeva di essere ammesso ad aderire ai principî della Carta Atlantica. L’8 e l’11 gennaio 1944, a Napoli, il segretario generale del Ministero degli affari esteri, in un incontro con Vyèinskij, gettava le basi per la ripresa di relazioni diplomatiche e di rapporti amichevoli con l’URSS. Il 27, il capo del governo italiano scriveva nuovamente al presidente degli Stati Uniti domandandogli di ammettere l’ltalia nel novero delle potenze alleate. Roosevelt, dietro pressioni di Churchill, rispondeva il 21 febbraio, affermando che gli eventi avevano dimostrata l’impossibilità di condurre una guerra su scala nazionale quale richiedeva lo statuto di alleato finché il governo italiano non fosse stato composto interamente da elementi antifascisti e liberali. Poco dopo (4 marzo) il rappresentante sovietico nella Commissione alleata di controllo, Bogomolov, comunicava al maresciallo Badoglio la decisione di Mosca di essere disposta a dare seguito al colloquio Prunas-Vyèinskij dell’8 gennaio per uno scambio di rappresentanti politici tra i due paesi. Tutto fa ritenere che una comunicazione analoga fosse stata fatta anche a Londra ed a Washington che la ricevettero più rapidamente di Salerno il cui collegamento con il mondo esterno era lento e difficile. Sta di fatto che, non solo la reazione anglo-americana fu apertamente ostile, ma, non a caso, Roosevelt rivelava in una conferenza stampa (3 marzo) le richieste sovietiche relative ad un terzo della flotta italiana ed affermava ch’esse risalivano all’epoca dell’armistizio. Una proposta del genere era stata effettivamente fatta da Molotov a Cordell Hull non al momento dell’armistizio, ma alla conferenza di Mosca (seduta del 22 ottobre 1943) e riguardava una corazzata, un incrociatore, 8 cacciatorpediniere, 4 sottomarini e 40 mila tonnellate di naviglio mercantile. Essa, dopo di essere stata inizialmente accolta con favore dal presidente degli Stati Uniti, dietro suggerimento del segretario di stato che ne aveva segnalato tutti i pencoli e le conseguenze, era stata poi accantonata con evidente disappunto di Molotov (seduta del 28 ottobre). La vivace reazione del governo italiano di fronte a quella rivelazione p0rtò ad un immediato chiarimento anglosassone della questione della flotta (discorso di Churchill ai Comuni del 9 marzo, conferenza stampa di Roosevelt del 10), ma non pose fine alle reazioni negative per la mossa sovietica ed al dissenso anglo-americano circa la politica da seguire nei confronti dell’Italia. L’annuncio ufficiale della ripresa dei rapporti italo-russi ebbe luogo il 13 marzo e fu seguito da energici passi di Londra e di Washington a Mosca ed a Salerno e dalla nomina di due alti diplomatici (Noel Charles e A. Kirk) a rappresentare la Gran Bretagna e gli Stati Uniti nel comitato consultivo interalleato per l’Italia. Il 3 aprile, alla vigilia della formazione del primo gabinetto di coalizione (21 aprile), Badoglio rinnovava a Roosevelt la precedente richiesta di riconoscimento della qualifica di alleato, ma la risposta del presidente degli Stati Uniti, in seguito ad una precisa e definitiva presa di posizione del governo britannico (20 aprile), fu ancora una volta sostanzialmente negativa (30 aprile). Qualche settimana dopo, il Dipartimento di stato comunicava ai proprî rappresentanti nella Commissione alleata di controllo per l’Italia, essere necessario porre termine alle sempre rinnovantisi richieste del governo Badoglio per essere riconosciuto quale alleato, stante la recisa opposizione di Londra. L’attività del governo di Salerno puntò allora su di una revisione delle condizioni di armistizio. Le discussioni in questo senso progredirono abbastanza favorevolmente, ma, mentre stavano per concludersi, furono interrotte in seguito al disappunto di Churchill per la caduta di Badoglio dopo la liberazione di Roma.
La cronaca di quei mesi registra inoltre una certa tensione nei rapporti tra la Gran Bretama e la Turchia per la politica dilatoria del governo di Ankara. Il 2 marzo i rifornimenti di armi erano sospesi da parte inglese, il 2 aprile gli Stati Uniti adottavano uguale misura per la legge affitti e prestiti, il 14 aprile Menemengioglu dichiarava che la Turchia avrebbe aiutato gli Alleati nella misura delle proprie possibilità, ma, un mese dopo, Eden denunciava alla Camera dei comuni il passaggio di navi da guerra tedesche attraverso gli Stretti, il che portava il giorno successivo, da parte del capo del governo Saragioglu, ad assicurazioni di rigido controllo. Il 31 marzo veniva annunciata pubblicamente la conclusione di un accordo nippo-sovietico per il trasferimento all’URSS delle concessioni minerarie giapponesi nella parte settentrionale di Sachalin, trasferimento che, in realtà, risaliva in forma segreta al 13 aprile 1941. Il 7 aprile, E. Stettinius si recava a Londra ove aveva prolungate discussioni con Churchill, Eden e l’ambasciatore sovietico, specialmente sui problemi polacco e francese ed il progetto di convocazione di una conferenza per la creazione di un istituto per il mantenimento della pace. Il 2 maggio, la Gran Bretagna guadagnava nuovo terreno a Madrid stipulando un accordo con Franco per limitare l’esportazione di volframio in Germania l’espulsione degli agenti nazisti e fascisti in Spagna ed il ritiro della divisione azzurra dal fronte orientale. Sei giorni dopo, la Cecoslovacchia concludeva con l’URSS una convenzione destinata a regolare l’amministrazione militare del paese durante l’avanzata dell’armata rossa, ed il 16 altrettanto facevano il Belgio, l’Olanda e la Norvegia con i governi degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e dell’URSS. Il 22, Stalin riceveva per la prima volta i componenti del consiglio nazionale polacco, rivale del governo in esilio di Londra; il 29, Hull annunciava pubblicamente la decisione degli Stati Uniti di iniziare discussioni con i governi di Londra, Mosca e Chung King per l’organizzazione di un istituto internazionale di sicurezza per il dopoguerra. Il 5 giugno giungeva a Washington Mikolaiczyk per incontrarsi con Roosevelt. Nel corso di tali colloqui, avvenuti il 7, il 12 ed il 14, il presidente degli Stati Uniti, dopo avere ascoltato l’esposizione del punto di vista polacco, si limitò a suggerire a Mikolajczyk di recarsi personalmente a Mosca e di prepararsi a fare concessioni ad un vicino cinque volte più potente.
Mentre, nel campo dell’Asse, Hitler e Mussolini si incontravano due volte (il 23 aprile a Schloss Klessheim ed il 20 luglio nella Prussia Orientale) unicamente per discutere problemi di carattere militare, in quello delle Nazioni Unite, dopo lo sbarco in Normandia, è un succedersi vertiginoso di convegni, dichiarazioni ed accordi di cui ricorderemo soltanto i principali. Il 1° luglio aveva luogo a Napoli un incontro Prunas-De Gaulle, nel corso del quale il generale assicurava che la Francia, a prescindere da limitate rettifiche coloniali nel Fezzan, intendeva garantire l’integrità territoriale dell’Italia. L’11, a seguito di laboriose ed aspre trattative, Roosevelt annunciava la decisione di riconoscere de facto il governo provvisorio di De Gaulle. Il 23, da Mosca si dava notizia della costituzione di un comitato di liberazione nazionale polacco per assumere l’amministrazione civile dei territorî liberati. Tre giorni dopo, detto comitato concludeva con l’URSS un accordo per regolare i suoi rapporti con l’armata rossa. Questo evento induceva Mikoùajczyk a partire il 27 da Londra per Mosca ove giungeva il 1° agosto ed aveva ripetuti colloqui con Stalin, Molotov ed i rappresentanti del comitato di Lublino. Nei colloqui vennero prevalentemente discusse, senza frutto, questioni militari in rapporto all’insurrezione di Varsavia; i ripetuti accenni al problema territoriale confermarono posizioni antitetiche. Il 2 agosto, la Turchia, sottoposta ad energiche pressioni da parte delle tre potenze principali, ma restìa ad intervenire in guerra per diffidenza verso l’URSS, si induceva a rompere le relazioni diplomatiche ed economiche con la Germania. Il 14, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti ed il governo provvisorio di De Gaulle ultimavano le laboriose trattative concernenti l’amministrazione civile dei territorî della Francia liberata, imitati, due giorni dopo, dall’accordo Tito-Subasiã per la Iugoslavia. Il 18, in una conferenza stampa, Roosevelt annunciava che i governi di Mosca, di Londra e di Washington avevano raggiunto un’intesa di principio sulla delimitazione delle rispettive zone di occupazione nella Germania. Effettivamente, discussioni in proposito erano state iniziate dal febbraio, ma non avevano potuto essere portate a termine per il contrasto di vedute tra Churchill e Roosevelt. Il primo per ragioni strategiche desiderava di potere controllare la parte nord-occidentale del Reich, il secondo respingeva l’idea di occupare la zona meridionale perché ciò implicava il peso della ricostruzione postbellica della Francia, dell’Italia e dei Balcani; compito che Roosevelt allora riteneva dovesse spettare alla Gran Bretagna, sia perché questa vi era maggiormente interessata, sia perché considerava non naturale affidarlo agli S.U. data la grande distanza di tali paesi dall’America. Roosevelt dovette tuttavia cedere e l’intesa definitiva, nonostante le dichiarazioni pubbliche di Hull, venne concordata solo in occasione del secondo convegno di Quebec del mese di settembre. Il 19 ed il 20 agosto, con il trasferimento coatto a Belfort di Pétain e di Laval, aveva termine il regime di Vichy. Entrambi, prima di cedere alle intimazioni tedesche, inviavano segretamente e separatamente dei messaggi di concordia al popolo francese. Il maresciallo, poi, aveva fin dall’11 munito l’ammiraglio Auphan di pieni poteri per negoziare con il comando anglo-americano e col gen. De Gaulle «una soluzione atta ad impedire la guerra civile ed a riconciliare tutti i francesi di buona fede». Il 21 agosto si riuniva a Dumbarton Oaks una conferenza tripartita anglo-russo-americana per la preparazione del progetto di statuto delle NU. Le laboriose discussioni avevano temmine il 29 settembre con l’approvazione di un testo comune nel quale l’accordo era raggiunto sulla maggior parte delle questioni che sarebbero poi state sottoposte alla conferenza generale di S. Francisco. Sui punti rimasti controversi, tra i quali il più importante era quello del diritto di veto, l’intesa definitiva doveva essere poi raggiunta a Jalta nel febbraio del 1945.
15. Crollo del fronte orientale. Alleanza franco-russa (agosto-dicembre 1944). – Alla fine di agosto, in seguito al crollo del fronte orientale, aveva inizio la nuova serie degli armistizî con le potenze dell’Europa orientale. Il 23 agosto, re Michele di Romania annunciava la cessazione immediata delle ostilità sulla base delle proposte d’armistizio ricevute in primavera dall’URSS. Il 25, il nuovo governo dichiarava guerra alla Germania. L’armistizio era poi firmato a Mosca solo il 13 settembre e stabiliva che la frontiera tra la Russia e la Romania sarebbe stata quella fissata il 28 giugno 1940, che le riparazioni da pagare all’URSS entro il termine di 6 anni sarebbero ammontate a 300 milioni di dollari e che la Transilvania sarebbe ritornata alla Romania, la cui partecipazione alla guerra contro la Germania era prevista in non meno di 12 divisioni. Il 25 agosto, anche la Finlandia chiedeva alla Russia se questa era disposta a ricevere una delegazione per negoziare la pace o l’armistizio; il 2 settembre, il capo del governo, A. V. Hackzell, annunciava pubblicamente la decisione di rompere le relazioni diplomatiche con la Germania e di richiedere il ritiro immediato delle truppe tedesche, condizione preliminare posta da Mosca per l’inizio di trattative con l’URSS; il 4, era proclamata la cessazione del fuoco su tutto il fronte; il 10, l’armistizio era firmato. Ai termini di esso la Finlandia, oltre al ripristino della pace del 1940, si impegnava a pagare in 6 anni riparazioni per 300 milioni di dollari, a cedere Petsamo, ad affittare la base di Porkkala-Ud e ad internare le forze tedesche, ottenendo in cambio la rinuncia di Mosca all’affitto della penisola di Hangö. Nello stesso tempo anche la Bulgaria usciva dal conflitto. Fin dal 26 agosto il governo bulgaro aveva annunciata la decisione di ritirarsi dalla guerra e di disarmare le truppe tedesche. Tre giorni dopo, Mosca dichiarava di non riconoscere la neutralità della Bulgaria, I. Bagrianov quindi si dimetteva ed il 5 l’URSS dichiarava guerra alla Bulgaria. Lo stesso giorno il governo di Sofia dichiarava a sua volta guerra alla Germania e chiedeva l’armistizio alla Russia. Le truppe sovietiche iniziavano quindi l’occupazione del paese senza incontrare resistenza. Le operazioni militari avevano così termine fin dal 9 settembre. L’armistizio era poi firmato a Mosca il 28 ottobre e prevedeva il ritiro delle truppe bulgare dai territorî iugoslavi e greci, il pagamento di riparazioni il cui ammontare sarebbe stato stabilito ulteriormente, e la collaborazione alla lotta contro la Germania. Meno fortunata fu invece l’azione ungherese. Il 15 ottobre, la radio di Budapest aveva annunciato che l’ammir. Horty intendeva chiedere all’URSS le condizioni di armistizio ma egli venne subito imprigionato dai Tedeschi ed il giorno suceessivo si comunicava che la richiesta doveva considerarsi nulla. Horty era sostituito da Szalasy, semplice portavoce dei nazisti.
L’11 settembre aveva inizio a Quebec la seconda conferenza anglo-americana. Nel corso di essa, respinta ancora una volta la proposta di Churchill in favore di uno sbarco nei Balcani, vennero definite le zone americana e britannica di occupazione della Germania, fu discussa l’ancora insoluta questione della procedura del voto in seno al consiglio delle Nazioni Unite ed approvato il piano Morgenthau sull’assetto della Gemiania nel dopoguerra. Tale piano, che si proponeva di trasformare l’economia del paese da altamente industriale in agricolo-pastorale, era stato subito considerato assurdo da Churchill. Questi, tuttavia, finì con l’aderirvi contro un prestito di 6 miliardi di dollari per il periodo successivo alla cessazione delle ostilità contro la Germania, ritenendo che il piano sarebbe caduto da sé, mentre il prestito, avversato da Hull, sarebbe rimasto. Churchill si recava poi ad Hyde Park ove proseguiva i suoi colloqui con Roosevelt. Furono allora decisi, in un messaggio del 26 settembre, alcuni provvedimenti in favore dell’Italia.
Era questo un primo modesto risultato dell’intenso lavorio svolto dal governo Bonomi dopo la liberazione di Roma. Il nuovo capo del governo italiano aveva inviato una serie di appelli a Roosevelt, Churchill e Stalin prospettando le gravi difficoltà derivanti tanto dall’applicazione delle dure ed ormai ingiustificate clausole armistiziali, quanto dal calcolato ostruzionismo frapposto alle richieste italiane di maggiore partecipazione alla guerra di liberazione. Di questi argomenti si era discusso ampiamente in occasione del viaggio di Churchill a Roma (11-28 agosto) ed il Dipartimento di stato aveva predisposto dei progetti molto liberali. A Hyde Park, l’opposizione britannica aveva peraltro ridotte tali concessioni. Comunque, la dichiarazione Roosevelt-Churchill prevedeva una maggiore assistenza economica e finanziaria, il potenziamento dello sforzo bellico italiano, la trasformazione della commissione alleata di controllo in commissione alleata riducendone i poteri, l’attribuzione del rango di ambasciatori ai rappresentanti inglese e americano a Roma, la ripresa parziale dei traffici commerciali tra l’Italia e le Nazioni Unite, l’invito al governo Bonomi ad inviare suoi rappresentanti a Londra ed a Washington e l’accreditamento di una parte delle spese sostenute dall’Italia per le truppe di occupazione. Quindi gli Stati Uniti decidevano il 30 settembre di stanziare 100 milioni di dollari in favore dell’Italia e prendevano l’iniziativa presso gli stati dell’America latina per il ristabilimento delle relazioni diplomatiche con il governo di Roma. A seguito di essa, un comunicato del 26 ottobre, d’intesa con Mosca, annunciava la ripresa delle relazioni diplomatiche tra gli Stati Uniti e l’Italia. Mentre l’URSS, subito imitata da numerosi paesi americani, annunciava analoga misura, il Foreign Office comunicava a Washington di non ritenere che l’opinione pubblica britannica fosse sufficientemente evoluta per ristabilire pienamente i rapporti con l’Italia e, fino alla ratifica del trattato di pace, negò alla rappresentanza di Roma a Londra il carattere diplomatico.
Il 9 ottobre, dato l’ulteriore pericoloso aggravamemo dei rapporti russo-polacchi, Churchill ed Eden giungevano a Mosca per conferire con Stalin e Molotov. Mikolajczyk era convocato d’urgenza per il giorno 13 nella speranza d’un compromesso. Le discussioni furono ad un tempo aspre ed infruttuose.
Churchill cercò di esercitare una fortissima pressione sul capo del governo polacco perché accettasse la linea Curzon, rimproverandolo vivacemente di non averlo fatto prima, poiché il problema era adesso complicato dall’esistenza del comitato di Lublino, cui, in un’eventuale fusione dei due governi, l’URSS intendeva fossero attribuiti i tre quarti dei posti principali. Mikoùajczyk oppose una resistenza disperata, che si attenuò tuttavia quando Molotov affermò che anche Roosevelt a Teheràn aveva accettato la linea Curzon. Il capo del governo polacco, dietro suggerimento di Eden, finì allora per dichiararsi disposto ad accettare la linea Curzon quale frontiera di fatto, riservandosi il diritto di appellarsi alla Conferenza della pace per la decisione definitiva. Da parte sovietica, contro le promesse dei noti compensi nella Prussia Orientale (Königsberg esclusa) e di una frontiera all’Oder con Stettino, si insistette per il riconoscimento formale della linea Curzon escludendo ogni rettifica per restituire Leopoli alla Polonia. Dopo drammatici dibattiti Mikoùajczyk ripartiva per Londra senza aver raggiunto nessuna intesa e, dopo un nuovo appello personale a Roosevelt (26 ottobre), cui questi diede una risposta evasiva sulla questione principale e negativa per un’eventuale garanzia americana alla nuova frontiera russo-polacca (17 novembre), si dimise (24 novembre).
A sua volta l’Italia procedeva ad uno scambio di note con la Francia con il quale rinunciava ad ogni diritto in Tunisia, dando così prova concreta di buona volontà e di fiducia nelle precedenti assicurazioni verbali dei rappresentanti del Quai d’Orsay, secondo le quali il governo di Parigi non intendeva formulare altre rivendicazioni territoriali oltre al Fezzan. Gli ultimi due mesi del 1944 videro una accresciuta attività della diplomazia sovietica. Il 1° novembre Tito e Subasiã sottoscrivevano un accordo sul futuro governo della Iugoslavia che costituiva un importante successo per Mosca; una settimana dopo, il ministro degli Esteri norvegese, Trygve Lie, si recava nella capitale sovietica per incontrarsi con Molotov; il 20 novembre, era il turno del capo del governo iugoslavo, I. Subasiã, il quale ripartiva da Mosca il 24; il 2 dicembre, era De Gaulle, accompagnato da Bidault, ad incontrarsi con Stalin e con Molotov. Da questi colloqui, in cui si volle vedere una certa amarezza e risentimento del capo del governo francese per le difficoltà incontrate da parte anglo-americana (Churchill ed Eden erano stati il 10 novembre a Parigi per discutere i problemi attinenti la condotta della guerra e la preparazione della pace), prendeva improvvisamente corpo la decisione di sottoscrivere l’alleanza franco-russa (10 dicembre). Infine, il 31 dicembre, mentre Churchill ed Eden ricercavano faticosamente ad Atene una soluzione per la controversia interna greca, d’intesa con Mosca, il comitato di liberazione di Lublino assumeva il titolo di «governo provvisorio polacco». Si chiudeva così, in una atmosfera di difficoltà sul piano diplomatico, un anno che sul terreno militare era stato ricco di successi per le N. U.
16. Conferenze di Jalta e di S. Francisco. Capitolazione della Germania. Conferenza di Potsdam. Resa del Giappone (gennaio-settembre 1945). – Il 1° gennaio gli S. U., seguiti il 5 dalla Gran Bretagna, dichiaravano di continuare a riconoscere il governo polacco di Londra, mentre lo stesso 5 l’URSS riconosceva quello di Lublino. Il 18, il governo provvisorio polacco si trasferiva da Lublino a Varsavia. Il 31, Churchill e Roosevelt si incontravano a Malta. Il 14 febbraio aveva inizio in Crimea il secondo convegno tra i tre Grandi (v. <vedi>Jalta, in questa App.</vedi>). Esso doveva registrare un notevole successo delle tesi sovietiche, cui il presidente degli Stati Uniti, ormai sull’orlo della tomba, ritenne buona politica non opporsi, nella speranza di riuscire a creare un’atmosfera di distensione propizia ad una collaborazione costruttiva postbellica. Sulla via del ritorno, Roosevelt si incontrava con re Fùràq, Ibn Saùd ed il Negus (20 febbraio), mentre De Gaulle respingeva l’invito per un convegno ad Algeri. Il 28 febbraio aveva luogo a Roma lo scambio di note De Gasperi-Couve de Murville contenente la rinuncia italiana ai diritti in Tunisia. Intanto, in vista della convocazione della conferenza di San Francisco fissata per il 25 aprile ed i cui inviti potevano essere rivolti soltanto alle potenze belligeranti, vi fu ma serie di dichiarazioni di guerra alla Germania ed al Giappone: tra esse, quella della Turchia (23 febbraio).
Mentre tanto il governo polacco di Londra (12 marzo) quanto quello di Varsavia (22 marzo) protestavano per il mancato invito a San Francisco, il 17 Beneè giungeva a Mosca ove esaminava la richiesta sovietica di cessione della Rutenia. L’URSS appoggiò insistentemente a Londra ed a Washington la richiesta del governo provvisorio di Varsavia per San Francisco (31 marzo, 18 aprile) ma senza successo; per ritorsione veniva affrettata la firma di un trattato di mutua assistenza russo-polacco (21 aprile). In quelle settimane la tensione tra Mosca e gli Anglo-americani aveva raggiunto un grado abbastanza notevole. Stalin aveva accolto con diffidenza la notizia dei contatti che avevano luogo in Svizzera tra il comando tedesco dell’Italia settentrionale e quello interalleato di Caserta per la resa delle forze germaniche, e chiese di farvi partecipare due suoi ufficiali. La Confederazione elvetica rifiutò peraltro il visto ai delegati russi e ciò accrebbe i sospetti dell’URSS che avrebbe voluto che il negoziato fosse lasciato cadere. Gli Anglo-americani non solo proseguirono nelle trattative di Berna, ma davano inoltre (colloqui Bonomi-Stone e Bonomi-Mac Millan del 26 marzo, dichiarazioni del Dipartimento di stato a Tarchiani del 6 aprile) assicurazioni formali al governo italiano che avrebbero presidiato con le proprie forze l’intera Venezia Giulia, escludendone Tito. D’altra parte essi lasciarono senz’altro cadere le offerte di resa separata loro rivolte da Himmler a Lubecca il 22, tramite il conte F. Bernadotte. Il 5 aprile, mentre Subasiã e Tito giungevano a Mosca, Molotov informava l’ambasciatore giapponese della decisione del suo governo di denunciare il trattato di non aggressione del 1941. Ormai gli eventi stavano precipitando a ritmo vertiginoso. Mentre la conferenza di San Francisco si radunava il 25 aprile per redigere la carta delle Nazioni Unite (v., in questa App.), il 29 veniva sottoscritta a Caserta la resa delle forze tedesche in Italia entrata poi in vigore il 2 maggio; il 3, l’ammiraglio K. Doenitz, succeduto ad Hitler, chiedeva le condizioni di resa, accettate e ratificate a Berlino il 9. Il 17 giugno, tra Molotov, gli ambasciatori di Gran Bretagna e degli Stati Uniti e i capi partito polacchi, era raggiunto a Mosca un accordo sulla formazione di un governo nazionale polacco; il 20 i generali Morgan e Jovanoviã sottoscrivevano una convenzione per la delimitazione delle zone di occupazione militare nella Venezia Giulia; il 29 veniva stipulato a Mosca un trattato contemplante la cessione della Rutenia da parte della Cecoslovacchia alla Russia.
Mentre l’attenzione generale era ormai rivolta alla lotta in Estremo Oriente, il governo Parri che, con l’accordo Morgan-M. Jovanoviã, aveva visto dileguarsi una prima precisa assicurazione degli Alleati, invocava ancora una volta il promesso intervento di Londra e di Washington per far cessare l’azione di attrazione francese in Val d’Aosta e nelle Alpi Marittime, azione contraria alle assicurazioni date da De Gaulle a Napoli il 1° luglio 1944 e da M. Couve de Murville a Roma il 28 febbraio 1945 (lettera De Gasperi-Stone del 9 febbraio, telegramma di De Gasperi ad A. Tarchiani del 16 marzo, telegrammi di Tarchiani e di Carandini del 9 e 25 aprile). Le pressioni di Washington ottennero qualche risultato positivo per quanto concerneva l’occupazione militare che fu assunta dalle forze anglo-americane (12 giugno) e fecero diminuire l’azione di propaganda francese in Val d’Aosta (colloquio Bidault-Saragat del 30 maggio). Il 1° luglio, il capo del governo cinese Soong giungeva a Mosca donde ripartiva il 17 per fare ritorno il 7 agosto e sottoscrivere il 14 il trattato di alleanza e di amicizia che riconosceva all’URSS quella parte delle concessioni in Estremo Oriente concernenti la Cina che Roosevelt e Churchill avevano sottoscritto in un protocollo segreto a Jalta (v. cina; Jalta; mongolia, in questa App.). Il 14 luglio l’Italia dichiarava guerra al Giappone, il 17 aveva inizio la conferenza di Potsdam, durata fino al 2 agosto, che doveva essere l’ultimo incontro tra i tre Grandi (Stalin, Truman e Churchill, sostituito il 29 luglio da Attlee) e l’ultimo atto di collaborazione tra gli Alleati (v. potsdam, in questa App.).
Nel maggio, dopo la resa tedesca, il primo ministro giapponese Kantaro Suzuki, incaricava, autorizzato dall’imperatore, l’ex-premier K. Hirota di sondare l’ambasciatore russo a Tükyü, Y. A. Malik, circa la possibilità che Mosca si facesse mediatrice fra Giappone e Stati Uniti; e ai primi di luglio, essendo il Malik malato, passava analogo incarico all’ambasciatore giapponese a Mosca, N. Sato. Il 13 luglio Mosca rispondeva che, essendosi recati Stalin e Molotov alla conferenza di Potsdam, non si poteva prevedere una risposta prima del loro ritorno. Ma una risposta indiretta ci fu: e fu l’appello, concordato tra gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Cina e pubblicato il 26 luglio, per la resa incondizionata del Giappone.
Respinto dall’imperatore Hirohito questo appello, l’8 agosto anche l’URSS dichiarava guerra all’Impero del Sol Levante. Il 10, la radio di Tükyü annunciava la decisione di accettare le richieste del 26 luglio purché esse non contemplassero richieste pregiudizievoli alle prerogative dell’imperatore. Il giorno successivo gli Alleati replicavano precisando che, dal momento della resa, l’autorità dell’imperatore sarebbe stata sottoposta al comando supremo delle potenze alleate; il 14 agosto il Giappone accettava la resa incondizionata ed il 2 settembre 1945 gl’inviati del Tenno sottoscrivevano nella baia di Tükyü, lo strumento di resa. Aveva termine così, dopo 6 anni di ostilità, la seconda Guerra mondiale.
Ma. To.
17. I primi trattati di pace. – La conclusione militare della guerra, sanzionata dagli armistizî, non poneva in modo improvviso le potenze vincitrici di fronte al problema immane di raggiungere una sistemazione di pace. Già nel corso del conflitto si erano profilate esigenze e affacciate pregiudiziali che segnavano già i primi, sia pure incerti, elementi base della costruzione avvenire. In particolare, a Teheràn, a Mosca, a Jalta e a Potsdam si erano già raggiunti dei punti fermi sui criterî generali della pace e su talune sistemazioni territoriali: i confini orientali della Polonia, le riparazioni, una prima sistemazione della Germania, la destinazione dei territorî estremo-orientali (Kurili, Sachalin), destino della flotta italiana, ecc. Altri problemi, non maturi e sui quali più forte si rivelò il contrasto (colonie italiane, Stretti, ecc.) vennero rinviati. E un organo speciale, il Consiglio dei ministri degli Esteri, poi integrato dai loro sostituti, fu previsto a Potsdam per l’elaborazione dei trattati di pace con Italia, Bulgaria, Romania, Ungheria e Finlandia.
Per la pace italiana, sebbene le intenzioni dei vincitori non fossero note pure già da Jalta e più ancora da Potsdam in poi si paventò che le condizioni sarebbero state dure. A prevenire una iniziativa non adeguatamente informata dei vincitori, furono dirette le note dell’agosto 1945 scambiate fra Parri e Truman e i due ministri degli Esteri. Nella sua nota a Byrnes del 22 agosto, nell’imminenza della riunione di Londra, De Gasperi proponeva: a) cessione alla Iugoslavia del territorio ad oriente della cosiddetta «linea Wilson», con regime di autonomia per Fiume e Zara, e smilitarizzazione di Pola; b) Alto Adige: regime di autonomia per gli altoatesini; c) confine con la Francia: disposizione a negoziati amichevoli; d) Dodecaneso: cessione alla Grecia; e) colonie prefasciste: richiesta in amministrazione fiduciaria, previe garanzie strategiche in Cirenaica a favore degl’Inglesi. Questo tentativo di Palazzo Chigi di giungere a una pace negoziata s’infranse subito alla prima seduta del Consiglio dei ministri degli Esteri, dove sin dall’inizio fu chiaro il proposito di elaborare i trattati nel ristretto ambito dei ministri degli Esteri, per poi imporne la firma ai vinti.
Se a Potsdam i Grandi si erano lasciati con la sensazione precisa che l’alleanza di guerra fosse ormai finita, nulla di strano che a Londra (11 settembre-2 ottobre 1945) i lavori si aprissero in una atmosfera di scetticismo e di diffidenza. Mentre a Byrnes e alla delegazione americana «dava particolari preoccupazioni l’ormai chiara evidenza dell’espansionismo sovietico» da parte russa la ricerca della «sicurezza» mai venne disgiunta dalla convinzione che, con la morte di Roosevelt, si fosse chiuso il periodo della collaborazione fiduciosa e che gli Stati Uniti avessero «una preconcetta ostilità contro l’Unione Sovietica». In queste condizioni, i colloqui di Londra non giunsero ad alcuna conclusione, nemmeno provvisoria.
Il 18 settembre un rappresentante dell’Italia e uno della Iugoslavia esposero il punto di vista dei rispettivi paesi sulla questione della frontiera italo-iugoslava: Kardelj, delegato iugoslavo, rivendicò la linea dell’Isonzo, mentre De Gasperi ribadì il punto di vista già espresso nell’agosto. Di fronte all’inconciliabilità delle due tesi, il Consiglio fu unanime nel decidere che la soluzione venisse fondata sul principio etnico e a questo proposito fu nominata una commissione quadripartita d’inchiesta per la Venezia Giulia che doveva agire «in modo da lasciare il minor numero possibile di slavi sotto l’Italia e di italiani sotto la Iugoslavia». Per le colonie mentre da parte americana si propose l’amministrazione fiduciaria collettiva, Molotov – nel ricollegarsi alla richiesta della Tripolitania fatta a Potsdam – propose che ognuna delle quattro potenze amministrasse una colonia, reiterando il suo interesse per la Tripolitania; da parte inglese si aderì all’idea del trusteeship collettivo, previo sbocco al mare e rettifiche di frontiera a favore dell’Etiopia, mentre da parte francese si fu piuttosto riservati. Il problema venne rinviato e si rimase d’accordo sul principio generale dell’amministrazione fiduciaria. Circa le riparazioni da parte dell’Italia, non si raggiunse alcun accordo sulla proposta sovietica di fissare la cifra a 600 milioni di dollari, di cui 100 destinati all’URSS.
La grossa questione che fece però arenare le trattative fu quella della procedura, per l’insistenza di Molotov di far partecipare alla stesura dei trattati di pace solo quelli, fra i vincitori, che avevano firmato gli armistizî. In questo modo si veniva ad escludere la Cina da tutti i trattati europei e la Francia da quelli con la Finlandia, la Bulgaria, l’Ungheria e la Romania. Questo ostacolo non venne superato e, di fatto, venne sanzionato a Londra, ancora una volta, il principio della unanimità fra i vincitori, da raggiungersi evidentemente attraverso il compromesso.
Nella successiva sessione di Mosca (16-27 dicembre 1945) questi incagli di procedura si poterono evitare per l’adesione russa al punto di vista occidentale e, notò il Byrnes, «la mattina del Natale 1945 il mondo seppe che cinque mesi di negoziati erano stati sufficienti per ottenere la promessa di una prossima convocazione della conferenza della pace». Ma qui gli Anglosassoni cedevano sul principio, tenuto fermo a Londra, dell’indipendenza di ogni singola questione e così si aggravò il pericolo racchiuso nel sistema dei compromessi. Per l’Estremo Oriente, fu convenuto di costituire una commissione consultiva e un Consiglio alleato per il Giappone; si decise l’indipendenza della Corea, fu ritenuto necessario l’allargamento del governo cinese e la fine della guerra civile; anche per la Bulgaria e la Romania si concordò un allargamento dei due governi.
<sublem>Il 18 gennaio 1946 si iniziò a Londra il lavoro dei sostituti dei ministri degli Esteri per la redazione dei trattati di pace, ma si arrivò alla riunione di Parigi del Consiglio (25 aprile-16 maggio 1946) senza che venisse raggiunto alcun risultato.
In questa seconda riunione di Parigi, ristabilita la frontiera ante 1938 fra Ungheria e Romania, respinte le pretese austriache per l’Alto Adige, raggiunto rapidamente l’accordo sulle limitazioni della marina militare italiana e sul principio delle rettifiche al confine franco-italiano, i ministri furono completamente divisi sulla questione delle colonie: gli Inglesi erano per l’indipendenza della Libia, l’annessione della Somalia al Somaliland con compensi all’Etiopia in Eritrea; gli Americani rimasero fermi sul principio di una amministrazione fiduciaria collettiva da parte delle NU; i Russi per uno speciale regime di trusteeship, per la Libia, con compartecipazione italiana e sovietica; la Francia – preoccupata che un passo avanti verso l’indipendenza della Libia toccasse prima o poi i suoi stessi dominî nordafricani – si dichiarò favorevole ad un’amministrazione da affidare all’Italia su tutte e quattro le colonie. Anche la questione del confine italo-iugoslavo non portò ad alcuna conclusione perché i Quattro, dopo l’inchiesta della commissione per la Venezia Giulia, si trovarono di fronte a quattro linee di confine differenti, fra le quali quella francese rappresentava un compromesso. Il 3 maggio vennero di nuovo ascoltati Kardelj e De Gasperi che rinnovarono i punti di vista già espressi a Londra. Dopo una sospensione di un mese, i Quattro tornarono a riunirsi al Palazzo del Lussemburgo dal 16 giugno al 13 luglio 1946. Deciso il trasferimento del Dodecaneso alla Grecia, suggerito di rinviare di un anno dalla firma del trattato la decisione per le colonie, con proposta di rinuncia preventiva alla sovranità da parte dell’Italia, il 3 luglio fu raggiunto un accordo sulla cosiddetta «linea francese» come confine fra l’Italia e la Iugoslavia, con la creazione del Territorio libero di Trieste, soggetto alla garanzia del consiglio di sicurezza delle NU. Sulle riparazioni fu convenuto che all’URSS l’Italia avrebbe dovuto dare 100 milioni di dollari in 7 anni. Il 27 giugno vennero definite le rettifiche di frontiera a favore della Francia. Un nuovo appello austriaco per l’Alto Adige venne respinto il 24 giugno.
I mercanteggiamenti e la politica di compromesso avevano ottenuto qualche risultato, soprattutto a danno dell’Italia, e quando il 29 luglio si aprì a Parigi la Conferenza della pace o dei Ventuno, che doveva durare sino al 15 ottobre 1946, i Quattro erano già d’accordo sul grave principio di difendere collegialmente le proprie deliberazioni. Di fronte ad esso, la levata di scudi delle potenze minori che il giorno stesso dell’inizio dei lavori (29 luglio) insorsero per bocca dell’australiano H. V. Evatt contro la «dittatura delle grandi potenze», non portò a modificazioni sostanziali, soprattutto per l’insistenza dei sovietici – decisi a ridurre al minimo l’importanza della partecipazione dei piccoli stati – contro la tesi degli occidentali, propensi ad accettare i punti di vista espressi dalle potenze minori. Di fatto, la conferenza poté influire unicamente su questioni di margine, in quanto i problemi più importanti erano stati già di massima risolti dal Consiglio dei ministri degli esteri.
Così, le linee fondamentali del trattato di pace con l’Italia e di quelli con gli stati satelliti della Germania non subirono, di massima, modificazioni sostanziali rispetto alle decisioni di Londra o di Parigi. Anche alla Conferenza della pace non venne concesso ai paesi ex-nemici di prender parte alle trattative in modo attivo e continuato e ad essi fu solo consentito di presentare le proprie osservazioni e di illustrarle oralmente. Il 10 agosto 1946 infatti De Gasperi, dinanzi all’assemblea plenaria della Conferenza «parlò, racconta Byrnes, con tatto, ma con dignità e coraggio» svolgendo alcune considerazioni generali sul trattato. Poi, dinanzi alle varie commissioni, presero la parola i varî membri della delegazione italiana a Parigi: G. Saragat, per la frontiera occidentale; I. Bonomi, su quella orientale e sulle colonie; A. Tarchiani, sulle riparazioni e sulle clausole economiche e finanziarie; il gen. C. Trezzani, capo di S. M. dell’esercito, sulle clausole militari; il comandante E. Giuriati, a nome dell’ammiraglio De Courten, sulla marina; il gen. Ajmone Cat, sull’aeronautica. In sostanza vennero sviluppate le seguenti tesi fondamentali: nessuna rispondenza fra il trattato e i principî della Carta Atlantica; assoluto misconoscimento della cobelligeranza effettiva dell’Italia; circa i sacrifici imposti per la frontiera orientale e per quella occidentale, prevalenza di criterî politici e strategici contro le esigenze delle popolazioni interessate, tanto che era stata respinta la proposta di plebiscito; nessuna valutazione del lavoro compiuto da generazioni di italiani nelle colonie; la smilitarizzazione delle frontiere e le limitazioni di carattere militare erano tali da mettere in crisi la stessa indipendenza politica dell’Italia; eccessivi, infine, gli oneri economici e finanziarî (riparazioni, confisca dei beni degli italiani all’estero, ecc).
L’azione italiana – come del resto quella degli altri stati vinti – nelle condizioni di procedura adottate, e mancando la possibilità di un negoziato effettivo, non poteva ottenere risultati apprezzabili e, di fatto, la conferenza dei ventuno non fece che sanzionare quelli raggiunti in seno al Consiglio dei ministri degli esteri, salvo a rinviare per taluni particolari alla sessione del consiglio che si tenne a New York dal 4 novembre al 12 dicembre 1946. Qui i delegati tornarono a ripetere le loro argomentazioni su tutti i punti del trattato ormai definito, ma senza alcun risultato. Un tentativo dell’ambasciatore iugoslavo Simiã – in sede di discussione dello statuto di Trieste in polemica con Tarchiani – per ottenere il controllo della città, non ebbe seguito, grazie alla decisa opposizione di Byrnes.
La stesura definitiva dei testi dei varî trattati fu affidata ai sostituti e il 20 gennaio 1947 venne notificato formalmente al governo italiano e agli altri governi l’invito a inviare il 10 febbraio a Parigi i proprî plenipotenziarî per la firma. Il governo italiano, sentito il parere dei capi dei gruppi parlamentari e quello della commissione dei trattati dell’assemblea costituente, decise «nell’interesse supremo dell’Italia» di firmare il trattato. Il plenipotenziario italiano, A. Meli Lupi di Soragna il 10 febbraio appose la sua firma al trattato, nel Salone dell’orologio del Quai d’Orsay, e prima della firma depositò una dichiarazione (già preliminarmente accettata dai vincitori) in cui si precisava che «la firma stessa rimaneva subordinata alla ratifica che spetta alla sovrana decisione dell’assemblea costituente, alla quale è attribuita dalla legislazione italiana l’approvazione dei trattati di pace». Circa gli altri trattati: per la Romania firmò il ministro degli Esteri G. Tàtàrescu; per la Bulgaria K. Georgiev, ministro degli Esteri; per l’Ungheria, il ministro degli Esteri Gyöngyösy e per la Finlandia il ministro degli Esteri C. Enckell. Tutti gli stati ex-nemici, ad eccezione della Finlandia, all’atto della firma presentarono note o memorandum di protesta.
Per l’Italia, il conte Sforza in una nota diretta a tutte le potenze vincitrici firmatarie del trattato italiano rivendicò il diritto alla vita di un popolo di 45 milioni di abitanti. Da parte romena si espresse gratitudine per il ritorno della Transilvania ma si giudicarono «eccessive ed ingiuste» le riparazioni imposte. La Bulgaria protestò pure per le riparazioni e per il rifiuto di uno sbocco al mare sull’Egeo; l’Ungheria protestò contro l’espulsione degli Ungheresi dalla Slovacchia, per il rifiuto di piccole rettifiche di frontiera in Transilvania e per le riparazioni. Fra i vincitori, la Iugoslavia rinnovò le sue pretese su Gorizia, Monfalcone e l’Istria nord-occidentale, mentre la Grecia rivendicò l’Epiro settentrionale, l’isola di Saseno e modificazioni alla frontiera greco-bulgara. Nessun regolamento ebbe la pace con l’Austria e quella con la Germania di cui continuò a occuparsi il Consiglio dei ministri degli esteri.
A. Tam.
Bibl.: Storia politico-diplomatica. - Al termine della seconda Guerra mondiale si è ripetuto un fenomeno già avvenuto dopo il 1918, quello cioè di una specie di inondazione di fonti documentarie e memorialistiche relative al periodo storico appena conchiuso. La vastità di questo flusso è stata tale che oggi è già possibile ricostruire, nelle loro grandi linee, tutti i principali eventi di quest’ultimo venticinquennio. Le ragioni di queste anticipate pubblicazioni vanno individuate non solo nei noti moventi dell’altro dopoguerra (ricerca delle responsabilità dei regimi e degli individui nelle origini del conflitto, desiderio di precisare le proprie posizioni personali), ma altresì nella messa in stato di accusa, quali criminali di guerra, davanti ai tribunali internazionali di Norimberga e di Tökyo degli statisti e dei militari dei paesi aggressori. E poiché queste due corti furono sollecite a radunarsi, si trova che in un primo tempo il movente giudiziario fu prevalente. Di qui il predominio iniziale delle fonti documentarie presentate in occasione di tali processi. Successivamente, interrotta la primitiva collaborazione fra i membri delle Nazioni Unite, la battaglia dei documenti si è avvicinata maggiormente alle forme ed agli scopi dell’altro dopoguerra. Con tutto ciò, si notano alcune considerevoli differenze. Per effetto dell’occupazione totale dei territorî delle potenze vinte, le raccolte divulgate dopo le capitolazioni dei governi del Tripartito, quando non provengono da iniziative private, sono state finora tutte compilate dalle Nazioni Unite, le quali hanno posto le mani sugli archivî dei loro avversarî, archivî che, talvolta, sono stati anche smembrati. La compilazione delle collezioni documentarie ad uso processuale è stata affidata ai giuristi piuttosto che agli storici, determinando notevoli inconvenienti per la loro utilizzazione per fini scientifici. Dette collezioni sono risultate inoltre eterogenee e frammentarie per la mescolanza delle fonti diplomatiche di tutti gli stati del Tripartito e degli atti interni con quelli internazionali. Infine, le distruzioni arrecate agli archivî sono state assai più ampie che per il passato.
Il primo nucleo di documenti diplomatici pubblicato dopo l’inizio della seconda Guerra mondiale è costituito da varî «libri di colore», che, destinati a soddisfare determinate esigenze politiche contingenti, rappresentano una fonte certamente incompleta e talvolta tendenziosa. Lo storico non può fare ricorso ad essi che con estrema cautela e soltanto in difetto di meglio. D’altra parte riesce impossibile prescindere da tali raccolte, alcune delle quali costituiscono tuttora l’unica fonte diplomatica ed altre, come nel caso del Libro bianco polacco, sono destinate a rimanere tali definitivamente. Tra i principali libri di colore si ricordano: il Libro azzurro britannico, pubblicato il 24 settembre 1939, il quale consta di 144 documenti; i Libri arancione olandesi, pubblicati il 4 novembre 1939 ed il 13 aprile 1940; il Libro bianco tedesco (n. 2), pubblicato il 13 dicembre 1939 (482 documenti); i Libri bianchi finlandesi, pubblicati il 10 dicembre 1939 (14 documenti) ed il 10 luglio 1941 (74 documenti); il Libro giallo francese, pubblicato il 21 dicembre 1939 (370 documenti); il Libro bianco polacco, pubblicato in Francia il 4 marzo 1940 (184 documenti); il Libro bianco norvegse, pubblicato il 14 aprile 1940; ed il Libro bianco greco, pubblicato nel 1940. Inoltre la Gran Bretagna ha pubblicati due brevi Libri bianchi, l’uno sui negoziati diplomatici dal 22 agosto al 1° settembre 1939, l’altro contenente il rapporto finale della missione Henderson; la Germania altri 6 Libri bianchi concernenti, rispettivamente, la crisi tedesco-polacca, i documenti polacchi sui precedenti della guerra, la politica anglo-francese per l’allargamento del conflitto e la violazione della neutralità della Iugoslavia e della Grecia; gli Stati Uniti d’America due raccolte di documenti relativi alla politica di conciliazione e di ammonimento svolta rispettivamente in Europa ed in Estremo Oriente, durante il decennio prebellico, mentre, pure alla categoria dei libri di colore, appartengono i Libri bianchi svedese e norvegese pubblicati nel 1946, attinenti le trattative intercorse fra Stoccolma e Berlino per il transito delle truppe tedesche attraverso il territorio svedese, ed il brevissimo Libro bianco della Santa Sede, pubblicato nel 1945, concernente l’azione svolta dal Vaticano.
Fra le grandi collezioni documentarie relative al periodo successivo alla prima Guerra mondiale, si ricordano la raccolta del materiale attinente la Conferenza della pace curata dal Dipartimento di stato americano (Papers relating to the Foreign Relations of the United States, 1919. The Paris Peace Conference, Washington 1942-48). Essa consta di 13 volumi e contiene fonti estremamente preziose, quali tutti i verbali delle sedute del Consiglio dei quattro e dei tre Grandi, del Consiglio dei capi delle delegazioni associate ed alleate, del Consiglio internazionale dei primi ministri, del Consiglio dei ministri degli affari esteri, della delegazione americana alla Conferenza della pace e dell’Inquiry. Una parte di tale materiale, e precisamente i verbali del Consiglio supremo dei capi delle delegazioni delle principali potenze alleate ed associate dal 1° luglio al 15 ottobre 1919, forma il contenuto del primo volume della prima serie della raccolta dei documenti diplomatici britannici dal 1919 al 1939 (Documents on British Foreign Policy, 1919-39, a cura di E.L. Woodward e R. d’O. Butler, prima serie, I, 1919, Londra 1947). Di tale importante raccolta sono pure stati pubblicati i primi due volumi della seconda serie che parte dal 1929 e copre gli anni 1929-31. Ad essi si è recentemente (1948) aggiunto il secondo volume della prima serie che abbraccia il periodo 16 ottobre 1919-21 gennaio 1920. A sua volta il governo ungherse ha finora dato alle stampe i primi due volumi della propria collezione di documenti relativi al ventennio prebellico (Papers and Documents relating to the Foreign Relations of Hungary published by the Hungarian Ministry for Foreign Affairs, Budapest 1940-1946). Complessivamente essi coprono il periodo che va dal 1919 al 1921 ed offrono la possibilità di ricostruire ignorati capitoli della storia dell’Europa danubiana. Con grande regolarità è proceduta la pubblicazione delle carte del Dipartimento di stato americano (Papers Relating to the Foreign Relations of the United States, Washington 1934-1948), i cui varî volumi usciti prima, durante e dopo il conflitto coprono finora gli anni 1919-32. Tale raccolta ha un carattere selettivo ma, nonostante qualche notevole lacuna, è pur sempre particolarmente utile. Il materiale presentato al processo di Norimberga ha dato vita finora a tre grandi collezioni: una britannica (The Trial of 14 German Major War Criminals: Proceedings of the International Military Tribunal sitting at Nuremberg, Germany, Londra 1946-48), comprendente finora 18 volumi contenenti i resoconti dei dibattiti dinanzi alla corte; la seconda, americana, in 8 volumi (Nazi Conspiracy and Aggression, Washington 1946) contenente una larga selezione del materiale dell’accusa; e la terza dello stesso tribunale, di cui sono finora usciti 25 volumi (Trial of the Major War Criminals before the International Military Tribunal, Norimberga 1947-48), nella quale dovrebbero essere inseriti i verbali delle sedute nonché tutti i documenti, presentati alla Corte nella lingua originale dei singoli documenti. Sono queste, indubbiamente, tra le fonti più preziose per la storia della politica nazista, sebbene non esauriscano l’argomento che va altresì studiato sugli altri documenti pubblicati framentariamente a Washington, in: The Department of State: Bulletin (voll. XIV e XV); Nazi-Soviet Relations 1931-41, Documents from the Archives of the German Foreign Office, a cura di R. Sontag e J.S. Beddie, Washington 1948; da Londra (Fuehrer Conferences on Naval Affairs, 1939, 1940, 1941, 1942, 1943, 1944, 1945, Londra, giugno-ottobre 1947) e da Mosca (La Politique Allemande, 1936-43. Documents secrets du Ministère des Affaires Étrangers d’Allemagne: I, Turquie, II, Hongrie, III, Espagne, Parigi 1946-47). L’URSS ha inoltre pubblicato, nell’aprile 1948, due nuovi volumi di documenti tedeschi: Documenti e materiali concernenti la seconda Guerra mondiale (I, novembre 1937-38; II, 1938-39); mentre è prevista negli Stati Uniti la stampa di una raccolta organica del materiale dell’Auswärtiges Amt di oltre 20 tomi. Anche il processo di Tükyü ha determinato la pubblicazione di una grande mole di documenti. Finora essi si trovano raccolti localmente in un’edizione provvisoria (Records of Proceedings of the International Military Tribunal for the Far East, Tokyo 1946-48) che, per l’ampiezza e la qualità del suo contenuto non teme il confronto con quelli di Norimberga. Notevole contributo alla ricostruzione della storia dell’Estremo Oriente è dato dall’inchiesta parlamentare sull’attacco di Pearl Harbor, di cui sono stati pubblicati il rapporto finale e tutti gli interrogatorî (Hearings before the Joint Committee on the investigation on the Pearl Harbor Attack, Washington 1946-47; Report on the investigation on the Pearl Harbor Attack, ivi 1946), accompagnati anche da un interssante materiale giapponese. Larghissima è anche la documentazione ufficiale relativa alle conferenze di S. Francisco (Documents of the United Nations Conference on International Organization, S. Francisco 1945, New York 1945), di Teheràn, Jalta e Potsdam (v. il comunicato del Dipartimento di stato del 25 marzo 1947) e di Parigi (La Hongrie et la Conférence de Paris, 5 voll., Budapest 1947-48; La Roumanie devant la Conférence de la Paix, Parigi 1946; Conférence de Paris, Émendements proposés par les Délégations, 2 voll., Parigi 1946; La Bulgarie et les questions de la paix, Sofia 1946; U.S. Department of State: Making the Peace Treaties, 1941-47, Washington 1947, ecc.). Vedi pei particolari dell’ampia bibliografia soprattutto italiana: M. Toscano, Fonti documentarie e memorialistiche per la storia diplomatica della seconda Guerra mondiale, in Rivista Storica Italiana, 1948, fasc. i; fra le raccolte documentarie sul trattato di pace con l’Italia: Documenti della pace italiana, a cura di B. Cialdea e di M. Vismara, Roma 1947; Il trattato di pace con l’Italia, introduzioni e note di A. Giannini e G. Tomajuoli, Roma 1947; G. Vedovato, Il trattato di pace con l’Italia, Roma 1947; Il ministero degli Affari Esteri, a cura di G. Brusasca, Roma 1948.
Fra le molteplici raccolte di documenti non ufficiali, una menzione speciale meritano: il carteggio Hitler e Mussolini (Hitler e Mussolini, Lettere e documenti, Milano 1946); i colloqui del conte Ciano (G. Ciano, L’Europa verso la catastrofe, Milano 1948); i documenti sulla politica sovietica durante la guerra (Soviet Foreign Policy during the Patriotic War, Documents and Materials, Londra 1946), ed i documenti sulla politica americana (Documents on American Foreign Relations 1939-45, Boston 1940-48).
Ricchissima è anche la bibliografia delle memorie degli statisti interessanti la storia politico-diplomatica della seconda Guerra mondiale. Tra le opere più notevoli sono da ricordare gli scritti di G. Ciano (Diario, Milano 1946; Diario 1937-1938, Bologna 1948), di K. v. Schuschnigg (Ein Requiem in Rot-Weiss-Rot, Zurigo 1946, trad. ital., Milano 1947) di E. Beneè (Pameti, Praga 1947), di G. Bonnet (Défense de la Paix. De Washington ou Quai d’Orsay, la fin d’une Europe, Ginevra 1946-48), di N. P. Comnène (Preludi del grande dramma, Roma 1947), di G. Bonnet (Défense de la Paix. De Washington au Quai d’Orsay, la fin d’une Europe, Ginevra 1946-48), di N. P. Comnène (Preludi del grande dramma, Roma 1947), di J. Paul-Boncour (Entre deux guerres. Souvenirs sur la IIIéme République, Parigi 1945-46), di P. Reynaud (La France a sauvé l’Europe, Parigi 1947), di A. Lebrun (Témoignage, Parigi 1945), di L. Blum (A l’échelle humaine, Montreal 1945), di P.-E. Flandin (Politique française 1919-40, Parigi 1947), di P. Laval (Laval parle, Parigi 1947; trad. ital., Milano 1948), di E. N. Van Kleffens (Yuggernand over Holland, New York 1941), di P. Badoglio (L’Italia nella seconda Guerra mondiale, Milano 1946), di G. Gafencu (Ultimi giorni dell’Europa, Milano 1947; id., Preliminari della guerra all’Est, Milano, 1946), di H. L. Stimson (On Active Service in Peace and War, New York 1948), di P. Baudouin (Neuf mois au Governement, Ginevra 1948), di H. Göring (Aus Görings Schreibtisch, Berlino 1947), di Sumner Welles (Time for Decision, new York 1945; trad. it., Torino 1945; id., Where are We Heading? New York 1946; trad. it., Milano 1947), di J. nF. Byrnes (Speaking frankly, New York 1947; trad. ital., Milano 1948), di F. Konoye (The Memoirs of Prince Fumimaro Konoye, Tükço 1946), di R. Serrano Suñer (Entre Hendaye y Gibraltar, Madrid 1947), di C. Hull (The Memoirs of Cordell Hull, New York 1948), di W. Churchill (provvisoriamente apparsi sul Daily Telegraph, poi in trad. ital., I e II, Milano 1948), di B. Croce (Quando l’Italia era divisa in due, Bari 1948), di I. Bonomi (Diario di un anno, Milano 1947), di J. Goebbels (The Goebbels Diaries, Londra 1948; trad. it., Milano 1948) e degli ambasciatori: J. E. Davies (Mission to Moscow, New York 1941, trad. ital., Milano 1946), C. G. Dawes (Journal, as Ambassador to Great Britain, New York 1939), U. von Hassell (Vom andern Deutschland, Zurigo 1947; trad. it., Firenze 1948), A. François-Poncet (Souvenirs d’une Ambassade à Berlin, Parigi, 1946, trad. it., Milano 1947), L. Nöel (L’aggression allemande contre la Pologne, Parigi 1946), F. Charles-Roux (Huit ans au Vatican, Parigi 1947), N. Henderson (Failure of a Mission, Londra 1940; Water under Bridges, Londra 1945), R. Vansittart (Black Record, Londra 1941; Lessons of my Life, Londra 1944, trad. it., Torino 1946), J. Ciechanowski (Defeat in Victory, New York 1947), di L. Rougier (Mission secrète à Londres, Ginevra 1946). J. H. C. Hayes (Wartime Mission in Spain, New York 1945), J. Grew (Ten Years in Japan, New York 1944), S. Hoare (Ambassador on Special Mission, Londra 1946), W. Stucki (La fin du régime de Vichy, Neuchâtel 1947), J. Lukasiewicz (Remarks and Recollections, in Dziennik Polski, Londra 1946-1947), J. G. Winant (Letter from Grosvenor Square, Boston 1947), A. Bliss Lane (I saw Poland Betrayed, New York 1948); E. Kordt (Wahn und Wirklichkeit, Stoccarda 1947), J.F. Montgomery (Hungary, the Unwilling Satellite, New York 1947), D. Alfieri (Fra due dittatori, Milano 1948). A. Ullein-Reviczky (Guerre allemande, Paix russe, Neuchâtel 1947), E. Grazzi (Il principio della fine, Roma 1945), W. E. Dodd (Ambassador Dodd’s Diary, New York 1941). Assai più limitata è invece la letteratura scientifica che abbisogna di maggiore tempo per potere elaborare tutto questo immenso materiale. Alcune opere meritano tuttavia fin d’ora una particolare segnalazione: L. B. Namier, Diplomatic Prelude (1938-1939), Londra 1948; J. W. Wheeler-Bennett, Munich. Prologue to Tragedy, Londra 1948; M. Toscano, Le Origini del Patto d’Acciaio, Firenze 1948; W. L. Langer, Our Vichy Gamble, New York 1946; C. A. Beard, Roosevelt and the Coming of the War 1941, New York 1948; id., American Foreign Policy in the Making, New York 1947, trad. it., Milano 1948.
Ma. To.
Le operazioni militari.
La campagna di Polonia. – Fin dal 3 aprile 1939, su indicazione di Hitler, il capo dello stato maggiore tedesco gen. Keitel delineava il «Piano Bianco», che doveva piegare la Polonia, possibilmente senza guerra, come col «Piano verde» s’era riusciti a piegare la Cecoslovacchia. vennero lanciati ordini segreti a tutti i comandi, perché l’armata tedesca fosse in grado di attaccare all’est in ogni momento, a partire dal I° settembre 1939. Se, all’apertura delle ostilità, la difesa polacca fosse risultata meglio organizzata del previsto, il comandante in capo avrebbe ordinato l’attacco soltanto dopo che si fossero radunate forze addizionali sufficienti.
Hitler, in parte almeno, mostrava di aver coscienza che era molto difficile estendere a oriente i confini dello «spazio vitale» senza provocare la guerra. Il 2 maggio 1939 infatti, analizzando la situazione con Göring, Keitel, Brauchitsch, Milch, Raeder e altri capi delle forze armate, rilevava come non ci si potesse aspettare «in Polonia una ripetizione dell’affare cèco. Questa volta sarà la guerra. Nostro compito sarà quello d’isolare la Polonia. Il modo come verrà fatto questo isolamento sarà decisivo». Il 23 maggio, cioè il giorno successivo a quello in cui fu ratificato in gran pompa a Berlino il patto d’acciaio, Hitler riunì lo stato maggiore alla Cancelleria, approvò le misure prese, ma ammonì che bisognava considerare freddamente la possibilità di una guerra contro la Francia e l’Inghilterra: «È necessario, diceva, attaccare la Polonia alla prima occasione favorevole, ma è impossibile che si ripeta l’affare cecoslovacco. Vi sarà la guerra». Deciso a evitare la lotta su due fronti, fattore tra i più importanti della sconfitta tedesca nella prima Guerra mondiale, Hitler rimase per qualche tempo incerto se iniziare le ostilità prima contro l’Occidente e poi contro l’Oriente, o viceversa.
Dall’aprile 1939 sempre più intensamente si respirava in Europa l’atmosfera di guerra. In Inghilterra, il 27 aprile la Camera dei comuni approvava, per la prima volta, dopo sole 24 ore dalla presentazione del progetto, la legge di coscrizione militare in tempo di pace con 376 voti contro 125 (i soli laburisti votarono contro, più che altro in omaggio al principio che vedeva nella coscrizione un’offesa alla dignità umana). Il bilancio per l’esercizio 1939-40, presentato ai Comuni il 25 aprile, rappresentava un vero record per la storia finanziaria inglese: circa il 50% dell’intero bilancio era destinato alla difesa nazionale, a parte le spese ulteriori imposte dalla coscrizione, decisa dopo lo stanziamento del bilancio. In Francia le spese per l’esercizio 1939-40 erano devolute col decreto legge del 15 luglio 1939 per circa il 60% alla difesa nazionale, così ripartite: 9% alla marina, 22% all’armata, il 69% all’aviazione (si trattava di colmare, anche con acquisti all’estero, un vuoto pauroso per le sorti del conflitto, in cui, secondo ogni previsione, l’arma aerea avrebbe giuocato un ruolo decisivo).
Il patto tedesco-sovietico del 23 agosto mutava alcuni termini essenziali della situazione europea, cosicché l’urto con la Polonia diveniva allo improvviso l’obiettivo inevitabile della strategia germanica. Il patto del 23 agosto, pensava Hitler, a ragione, «scoppierà come una bomba, e l’effetto sulla Polonia sarà terribile. Dell’Occidente non bisogna aver paura, perché, militarmente, ci protegge la linea Siegfried». Funk il 22 agosto assicurava che tutte le misure economiche e finanziarie, necessarie per la condotta della guerra in Polonia, erano state prese: il blocco non poteva spaventare, perché l’Est avrebbe fornito grano, bestiame, carbone, piombo, zinco. Non c’era da temere che una cosa sola, spiegava Hitler il 23 agosto ad alcuni generali a Berchtesgaden: «che qualche sozzo maiale avanzi una proposta di mediazione. In questo caso sta all’esercito di agire con la massima rapidità e brutalità; dopo che si sarà conseguita la vittoria nessuno si ricorderà delle violenze. Genghiz Khan fece uccidere milioni di uomini e, tuttavia, la storia non vede in lui che un grande conduttore d’impero».
Il 31 agosto entrava in azione la «direttiva n.1» del «Piano Bianco», cioè del piano di guerra contro la Polonia. L’Occidente non aveva che tre possibilità di lotta contro la Germania: il blocco, l’attacco alla Siegfried, l’aggiramento di questa linea violando la neutralità olandese, belga e svizzera. La prima misura avrebbe potuto riuscire efficace solo nel corso di qualche anno, data la relativa autosufficienza economica tedesca e date le fonti di rifornimento a oriente; la seconda alternativa non aveva possibilità di riuscita, data l’efficienza del Westwall e lo scarso mordente delle truppe anglo-francesi, per di più poveramente dotate di moderni mezzi d’assedio. L’ultima alternativa aveva una portata più che altro teorica, poiché quei tre stati, come anche gli stati scandinavi, avrebbero difeso la loro neutralità con tutti i mezzi a disposizione. Il Belgio e la Svizzera, specialmente, erano agguerriti; e in ogni caso l’opinione di Francia e d’ Inghilterra avrebbe inibito ai governi l’attuazione di ogni proposito di bellicosità preventiva.
Pertanto il comando germanico poté con tranquillità proporsi di distruggere l’armata polacca, con una battaglia d’accerchiamento secondo lo schema di Annibale a Canne: l’avvolgimento per mezzo delle due ali.
La Wehrmacht, sotto il comando supremo di W. Brauchitsch, contava cinque armate ripartite in due gruppi: quello delle armate del nord e l’altro delle armate del sud. Il primo gruppo era comandato da von Bock, e comprendeva l’armata di von Kluge, forte di 20 divisioni distribuite a cavaliere del corridoio di Danzica, e l’armata di von Küchler, di 10 divisioni, in Prussia orientale. Il secondo gruppo di armate era al comando di von Rundstedt, e comprendeva le armate di Blaskowitz, Reichenau, von List, distribuite a semicerchio da Francoforte sull’Oder alla Slovacchia. Al gruppo d’armate nord era stata assegnata un’armata aerea, al comando del gen. A. Kesselring, al gruppo di armate sud un’equivalente forza aerea, al comando del gen. Loeher. La Germania aveva allineato contro la Polonia circa i tre quarti dell’intera sua armata, mobilitata a tutto il 31 agosto: 1.200.000 uomini ripartiti in 70 divisioni, delle quali solo 46 in linea, le altre in riserva d’armata e in riserva generale. Di queste 70 divisioni, 10 erano blindate, 4 motorizzate, 3 di montagna. Contro un simile imponente complesso la Polonia avrebbe potuto allineare dalle 40 alle 60 divisioni, se fosse stato possibile compiere la mobilitazione avanti il 1° settembre; ma il governo polacco, dovendo evitare anche ogni apparenza di preparare la guerra (per non turbare l’opinione pubblica anglo-francese, cioè delle potenze garanti della sicurezza polacca), fu sorpreso dalle ostilità con sole 2 divisioni di fanteria e 8 brigate di cavalleria, portate, pochi giorni dopo l’inizio della campagna, rispettivamente, a 30 e a 14. Per le accennate ragioni politiche, l’armata polacca non solo non aveva potuto compiere la mobilitazione e la concentrazione delle forze, ma, cosa più grave, il materiale costruito con i 2 miliardi di franchi prestati dalla Francia, era insufficiente: mancavano l’artiglieria pesante, la DCA, le munizioni, i blindati e l’aviazione. Era un’armata di stile 1918 impegnata all’improvviso contro un’armata all’avanguardia del progresso bellico mondiale.
Per di più, l’armata polacca doveva difendere un paese di circa 400.000 kmq. di superficie, senza frontiere naturali, ad eccezione, a sud, del breve settore slovacco protetto dalla barriera dei Carpazî. Questa immensa pianura, rotta solo da qualche modesto rilievo collinoso, s’apriva verso la Germania con un arco di frontiera lungo circa 2.500 km., rotto dal vasto saliente del Corridoio, inserito nel robusto corpo statale germanico e – salvo pochissime eccezioni – con un sistema di fortificazioni antiquate, praticamente ancora nelle condizioni in cui la repubblica di Piùsudski le aveva ereditate dalla Germania, dall’Austria asburgica, dalla Russia zarista.
Per di più, le strutture e gl’impianti fissi al servizio della difesa mobile lasciavano molto a desiderare. Le ferrovie assommavano in tutto a poco più di 21.000 km., cioè quasi quanto le italiane, ma con un territorio di un terzo più esteso: le strade ordinarie ammontavano a circa il doppio, ma quasi nessuna adatta al grande traffico. Era eccellente la rete ferrata ereditata dalla Germania, e buona quella ex-austriaca; ma si trattava di sezioni periferiche, e particolarmente di quelle sezioni più esposte a cadere in possesso del nemico, al primo urto. La maggior parte della rete polacca era quella ereditata dagli zar, e si presentava notoriamente insufficiente a paragone della germanica, distribuita ad arco dalla Prussia orientale alla Slesia, costruita secondo le direttive strategiche dettate dal grande Moltke, e collaudata più volte favorevolmente durante la prima Guerra mondiale contro i Russi. Inoltre, la rete polacca era costruita a raggera,e aveva il suo centro a Varsavia; ma questo sistema ferroviario monofocale non favoriva i grandi spostamenti nei due sensi da est a ovest. Infine, i centri meccanici apprezzabili del paese aggredito erano in prossimità del bacino dell’Alta Slesia, cioè nell’immediato raggio d’azione del nemico.
Si spiega quindi come un paese tecnicamente così arretrato non disponesse allo scoppio delle ostilità che di una sola divisione motorizzata e di nessuna blindata contro le 10 tedesche. Lo squilibrio delle forze era accentuato dalla preponderanza aerea dell’attaccante: i Polacchi disponevano in tutto di 900 apparecchi, di cui solo 300 caccia con caratteristiche moderne, di 200 cannoni pesanti e di 200 leggeri contraerei dei più diversi calibri e senza apparecchi di trasmissione e di collegamento. Contro questo potenziale a bassissimo rendimento Göring allineava un’aviazione capace, a quel tempo, di misurarsi con vantaggio contro tutte le squadre aeree del mondo; pertanto il maresciallo dell’aria tedesco impiegò solo due delle quattro flotte a sua disposizione: le altre furono lasciate a fronteggiare l’occidente. La Luftwaffe coi suoi 2.500 apparecchi moderni di prima linea distrusse rapidamente l’aviazione polacca in cielo e al suolo, disorganizzò la rete ferrata, tagliò tutte le strade alle spalle delle armate nemiche, distrusse le postazioni d’artiglieria e le poche opere betonate che potevano costituire un punto d’appoggio agli eserciti in ritirata. Pertanto la Luftwaffe in questa prima campagna, che doveva essere il prototipo delle susseguenti, venne sottoposta a un doppio impiego, strategico e tattico; col primo, lo stato maggiore tedesco voleva creare il vuoto militare a tergo dell’armata nemica schierata ad arco fra la Prussia orientale e la Slovacchia, col secondo, realizzato dai bombardieri in picchiata (Stukas), mirava ad abbattere il morale delle truppe combattenti, a fiaccarle con l’intervento diretto nella battaglia, a distruggere i convogli dei rifornimenti.
In queste condizioni di squilibrio, fu possibile allo stato maggiore tedesco distruggere l’armata polacca in meno di tre settimane. I gruppi d’armata tedeschi del nord e del sud poterono pertanto muovere all’attacco tracciando ben presto sul terreno la tenaglia alle spalle di quasi tutto l’esercito polacco. Alla fine della prima fase, cioè il 9 settembre, i Tedeschi erano già dinanzi a Varsavia, difesa da un’armata costituita da 2 divisioni di fanteria, 2 brigate di cavalleria, senza un solo blindato. La seconda fase (9-17 settembre) mirava ad accerchiare le forze polacche che, in riserva o sfuggite alla grande battaglia delle frontiere e della Vistola, si ammassavano verso il Bug medio e inferiore e lungo l’asse da Varsavia a Brest-Litovsk. Anche qui si profilava la manovra del doppio avviluppamento, attuata dall’estrema sinistra di von Küchler e dalla destra di von List; i due generali s’incontrarono, il 18 settembre, a 60 km. a sud di Brest-Litovsk: l’enorme tenaglia tedesca s’era chiusa sull’armata polacca. I Tedeschi nello spazio di alcuni giorni avevano realizzato ciò che i Russi calcolavano dovesse compiersi in alcune settimane. Nacque peraltro la delicata questione circa le operazioni militari da condursi nella zona a oriente della linea Narew, Vistola e San, attribuita dal protocollo di Mosca del 23 agosto alla sfera d’influenza dell’URSS. I Tedeschi infatti si vedevano costretti ad inseguire nella Polonia orientale i grossi residui dell’armata polacca, per impedire che in qualche modo si ricostituissero; ma quest’operazione di gigantesco rastrellamento non sorrideva molto allo stato maggiore germanico perché, con l’ausilio della vastità del territorio e della meteorologia, l’esercito battuto poteva opporre ancora lunga resistenza, e in questo caso Hitler temeva che sorgesse qualcosa di simile a una guerra su due fronti. Si spiega pertanto come, fin dal 3 settembre, il Ribbentropp avesse pregato l’ambasciatore tedesco a Mosca di vedere se l’Unione Sovietica non ritenesse opportuno che forze russe agissero, al momento utile, contro le forze polacche nella sfera degli interessi russi, occupando per proprio conto tale territorio. Il 10 settembre circa 3 milioni d’uomini erano mobilitati dall’URSS, e il 17, alle ore 2 di notte, Stalin, alla presenza di Molotov e di Voroèilov dichiarava all’ambasciatore tedesco Schulenburg, che l’esercito rosso avrebbe attraversato la frontiera sovietica in quella stessa mattina, alle ore 6 su tutta la linea, da Polock a Kamenec-PodolÙsk.
S’inizia così la terza e ultima fase della campagna. Le divisioni polacche, che erano sfuggite alla stretta tedesca, furono obbligate all’improvviso alla guerra su due fronti. L’esercito rosso non incontrò alcuna resistenza; e così, senza combattimento, furono occupate Vilna e Brest-Litovsk il 19, Kowel e Bialystock il 20, e il 21 Leopoli. Prima dell’intervento russo, i Polacchi avevano deciso di resistere nell’estremo ridotto, in via di costituzione, non nelle paludi di Pinsk, dove sarebbero rimasti schiacciati e senza uscita fra le truppe tedesche e la Russia, ma lungo gli alti corsi dei fiumi Styr e Dnestr, per passare in definitiva in Romania. L’intervento sovietico annullava gli ultimi piani del Comando polacco.
Le grandi operazioni locali in Occidente. – Durante la campagna di Polonia, il comando tedesco non aveva lasciato all’ovest che degli eflettivi ridotti, appoggiati alle fortificazioni del Westwall. La ristrettezza dello spazio fra le due linee Maginot e Siegfried ostacolava operazioni offensive in grande da parte dei Franco-Inglesi; ma non c’era molto da rammaricarsi di questo, perché gli Alleati occidentali, nonostante avessero potuto compiere inopinatamente la mobilitazione e la concentrazione delle forze senza subire bombardamenti aerei apprezzabili, non avevano alcuna intenzione di cimentarsi contro la Siegfried, anche quando il grosso dell’armata tedesca era occupato in Polonia. Il generalissimo francese, consapevole delle proprie limitate risorse in uomini e mezzi (specie nei primi), e ben ragguagliato sull’efficienza del sistema difensivo avversario, adeguatamente presidiato, si astenne da ogni operazione di rilievo. «Forte dell’esperienza dell’ultima guerra, il comando francese – dirà Daladier – aveva saputo evitare offensive inconsiderate e micidiali». Nel dicembre 1914 la Francia aveva perduto circa 450.000 uomini; nel dicembre 1939 ne aveva perduti 1434. Il vantaggio sarebbe stato indubbiamente grande se l’esercito francese avesse potuto contare nei combattimenti futuri sull’impiego massiccio di adeguate unità blindate, di fanteria motorizzata, sull’intervento nella battaglia di una moderna aviazione tattica, su trasporti di truppe per via d’aria, sull’azione di paracadutisti. Inoltre, il comando francese non poteva intraprendere operazioni in grande contro la Siegfried, anche perché gli sarebbe mancato quasi del tutto il concorso britannico; non prevedendo una campagna così celere in Polonia, il comando inglese aveva impiegato tutto il mese di settembre per inviare oltre Manica 6 divisioni. La concentrazione degli uomini e dei mezzi relativi finiva circa dieci giorni dopo che s’era compiuta la campagna di Polonia, gli Alleati quindi non erano in grado d’operare, con una qualche speranza di successo contro la Siegfried, presidiata da tutta la Wehrmacht.
Per questi motivi, i Franco-Inglesi durante la campagna di Polonia non poterono compiere, dal 10 settembre in poi, che progressi locali, consentiti anche dal fatto che i Tedeschi, per evitare dispersioni d’energie e d’uomini, ripiegarono subito sulle opere esterne della Siegfried, in attesa di concludere la campagna di Polonia. Conclusa questa campagna, il comando germanico, concentrate dalle 60 alle 70 divisioni in occidente, rioccupò quasi senza resistenza il territorio perduto, fra il 16 e il 30 ottobre; i Francesi, secondo un loro piano preordinato fin dai primi dello stesso mese, si ritirarono dietro la frontiera senza accettare il combattimento.
Seguirono mesi di stasi: fino al 10 maggio 1940, i due contendenti si limitarono ad attività di pattuglie e a colpi di mano sugli opposti bordi della terra di nessuno, che separava la Maginot dalla Siegfried. Finanche l’aviazione si astenne da operazioni importanti.
La campagna di Finlandia. – L’espansione sovietica, che era riuscita a dilagare pacificamente nei tre stati baltici, in Polonia (secondo gli accordi germano-russi della quarta spartizione), e che riuscirà ancora, fra il 26 giugno e il 2 luglio 1940, in Bessarabia e nella Bucovina del nord, incontrava in Finlandia una impreveduta resistenza. I Finlandesi pienamente consapevoli del proprio valore e della difficoltà del terreno e del clima, avevano ritenuto di dover resistere alle richieste sovietiche, nonostante che i Tedeschi, per timore della Russia, fossero alieni dall’incoraggiare Helsinki alla guerra. Il 30 agosto le formazioni sovietiche passavano la frontiera. Il territorio finlandese si prestava mirabilmente alla difesa: per i tre quarti della sua estensione, e precisamente da poco a settentrione del lago Ladoga fino alla penisola dei Pescatori era impraticabile, a causa del clima (40-50 sotto zero, e più, l’inverno), della mancanza totale di luce per sei mesi dell’anno e per pochissimo sole negli altri sei mesi, della presenza di circa 35.000 laghi. Questo labirinto lacuale s’ingolfa più fitto nella regione centromeridionale del paese orlandosi di terre non del tutto proibitive dal punto di vista geofisico e climatico, ma rese impraticabili da estese foreste. Un esercito bene stabilito in simile deserto gelato avrebbe potuto opporre la resistenza più valida contro forze anche preponderanti. Nel mezzogiorno il territorio si faceva più aperto e ospitale: vi si accoglieva quasi tutta la Finlandia economica, demografica e politica a specchio del golfo omonimo. Era naturalmente la parte più vulnerabile; ma per questo il maresciallo Mannerheim, alcuni anni prima, aveva fatto costruire tra il lago Ladoga e il golfo di Finlandia la linea che finì col portare il suo nome. Il sistema fortificato si articolava su tre linee, costruite in modo da sfruttare a difesa le acque e le foreste dell’istmo. La linea serviva a proteggere Koivisto, posizione che per la sua importanza fu detta la «piccola Gibilterra del nord» e Viipuri, già da Pietro il Grande considerata come «la chiave della Finlandia» e, per questo, annessa con una parte della Carelia nel 1721 alla Russia.
La Finlandia poteva mobilitare quasi 350.000 uomini, molti dei quali, erano particolarmente addestrati a combattere la guerriglia nell’oscurità, sotto la neve e fra i boschi. Lo sviluppo del fronte, da Petsamo alla costa prospiciente Kronstadt, si aggirava sui 2.000 km. I Russi, sottovalutando l’avversario, compirono un duplice errore: di cominciare la guerra d’inverno e di mobilitare inizialmente non più di 300.000 uomini, cioè gli effettivi della sola circoscrizione militare di Leningrado. Il clima, nel campo dei Finlandesi, lavorò duramente contro i Russi, cui fu interdetto l’impiego dei mezzi blindati e paralizzata l’attività dell’aviazione tattica. Il comando sovietico lanciò all’attacco quattro armate: nella regione artica, nella zona di Salla, nella regione di Suomussalmi, sull’itsmo di Carelia. Le forze russe miravano a occupare la penisola dei Pescatori e Petsamo, unico porto finlandese sul mare libero, per tagliare ogni comunicazione e ogni possibilità di rifornimenti con l’alta Norvegia, ben più, col mondo transoceanico, e in particolare con gli Stati Uniti, ove si nutrivano vivissime simpatie per Helsinki. Le operazioni di Salla e di Suomussalmi avevano scopo univoco: raggiungere Kemijärvi e Kiantajärvi, cioè guadagnare l’arco settentrionale del golfo di Botnia, ottenendo di tagliare in due la Finlandia e di recidere ogni contatto con la Svezia, vale a dire col paese che per evidenti ragioni mostrava più dinamica solidarietà con la Finlandia, cui poteva inviare uomini (volontarî) e armi, specie attraverso l’anello ferroviario dell’alto Botnia. Particolarmente difficile si presentava l’attacco dell’itsmo di Carelia, rinforzato com’era dalla linea Mannerheim. Per agevolare l’armata careliana d’assalto, che era fra le armate russe quella di gran lunga più potente, il gen. Mereèkov, capo supremo della campagna contro la Finlandia, pensò di attaccare anche nella regione di Telvajärvi-Sortavala (a nord del lago Ladoga), per prendere a rovescio la Mannerheim, mentre il sistema fortificato veniva minacciato nella zona litoranea del golfo di Finlandia con l’intervento della flotta russa. L’intensa azione a reticolo, di terra e di mare, si avvantaggiava di una schiacciante superiorità aerea.
Da principio le armate rosse fecero dei progressi anche rapidi, ma pochi giorni dopo, a causa delle difficoltà del terreno, del clima, dell’avversa stagione, furono bloccate da una resistenza più viva e da numerosi contrattacchi. Nei primi venti giorni di dicembre si rivelarono le alte qualità di tecnica e di combattimento dei difensori, i quali imposero al nemico una tattica di logoramento con l’impiego di gruppi di tiratori-sciatori, che formavano reparti agili e celeri, dotati di armamento leggero e di notevole autonomia. Al ventesimo giorno i Russi, vittime di continue imboscate, dovettero assistere impotenti alla neutralizzazione di ogni loro movimento.
Il gen. Mereèkov stabilì, il 20 dicembre, d’organizzare l’attacco decisivo contro la Mannerheim su di un fronte di 30 km., con l’impiego di 12 divisioni a ondate successive; l’esito fu così scarsamente redditizio che alla fine del terzo giorno non era riuscito a pervenire, fra Muola e Kaukola, nemmeno a contatto dei primi gruppi della Mannerheim. Dopo questo infruttuoso tentativo, le operazioni in grande cessarono sino alla fine di gennaio, quando, contro 300.000 Finlandesi l’armata rossa allineò su tutti i fronti un complesso di 600.000 uomini con l’intervento di numerose artiglierie autotrainate e, sembra, di carri di 40 t. (una sorpresa, per quel tempo, nella lotta per il progresso del materiale). Il 1° febbraio l’attacco fu ripreso nella parte occidentale dell’istmo con un duplice bombardamento terrestre e aereo, singolarmente violento. Nonostante il volume del fuoco, la consistenza degli effettivi impiegati, la novità di taluni mezzi, come l’impiego di mitragliatrici e artiglierie leggere montate su slitte corazzate, trainate da carri armati, la difesa resistette saldamente. S’ebbero nuovi attacchi massicci, cosicché dal 1° al 15 febbraio la battaglia infuriò raggiungendo il culmine l’11: Summa cadeva l’8, qualche giorno dopo Muola; ormai al comando finlandese non rimaneva che stabilirsi sulla seconda linea, che fu raggiunta il 14. Dopo la riorganizzazione delle forze rosse, s’ebbero nuovi attacchi: dovunque la Mannerheim resisteva, meno che al centro, da dove le colonne sovietiche-convergevano verso Koivisto, avamposto di decisiva importanza per Viipuri. Siccome Koivisto col suo retroterra e il suo litorale formava un sistema fortificato unico con le isole limitrofe, il comando russo impegnò nell’attacco tutta la flotta del Baltico, giovandosi anche dei 305 delle due vecchie corazzate Oktjabrskaja Revolucia (ex-Gangut) e Marat (ex-Petropavlovsk). Ma la risoluzione non venne dal mare, sebbene dal centro della Mannerheim, oltre Summa dove i Sovietici praticarono una breccia, attraverso cui il 17 irruppero in forze per attaccare i difensori alle spalle col valido ausilio di truppe paracadutiste lanciate nelle retrovie nemiche. Il 18 il maresciallo Mannerheim dovette abbandonare la seconda linea per poggiare direttamente su Viipuri; Koivisto, assediata ormai da tutti i lati, cadeva il 21. La battaglia era perduta.
La situazione precipitava: i Finlandesi ottennero ancora qualche successo nei settori periferici, ma non più in quello capitale di Koivisto-Viipuri, dove Mereèkov impegnava ora 300.000 uomini; Mannerheim ripiegava sulla terza linea del suo sistema che comprendeva Viipuri, sgombrata dalla popolazione civile il 22; raggiunta dai sovietici il 2 marzo. Il 9 la situazione della città, ridotta a un cumulo di rovine, cominciò a diventare disperata, nonostante che tutta la Mannerheim, dal fiume Vuoksi al Ladoga, fosse sostanzialmente intatta. La Svezia interpose i suoi buoni uffici, inducendo Helsinki a trarre le amare, ma inevitabili conseguenze di una guerra gloriosamente perduta. Ebbe decisiva importanza la considerazione che in fondo i Russi avevano fallito nell’obiettivo vero della guerra: la distruzione dell’esercito finlandese, che manteneva ancora compatta la sua massa d’uomini e di mezzi e la sua capacità di combattimento; se la guerra però fosse durata qualche altra settimana, l’esercito sarebbe andato in frantumi, mettendo la nazione alla mercé dello straniero. Per queste ragioni, il 12 marzo il governo finlandese accettava di firmare a Mosca il trattato di pace. La guerra era durata cento giorni: i Finlandesi vi avevano perduto circa 30.000 uomini e i Sovietici 290.000.
La conclusione di questa pace ebbe un importante riflesso di portata generale: allontanò ogni possibilità di vedere affiancati ai Finlandesi gli Anglo-Francesi, i cui governi, sospinti dalle pubbliche opinioni a schierarsi contro uno stato che mostrava di contrastare l’altrui con un proprio imperialismo, fin dal gennaio 1940 avevano intrapreso dei preparativi per un corpo di spedizione in Finlandia. Il rifiuto della Norvegia e della Svezia, come dichiarò Chamberlain ai Comuni il 2 maggio 1940, rese impossibile l’attuazione del piano degli Alleati. Fu evitato così un errore decisivo quello di spingere definitivamente la Russia a fianco della Germania, compromettendo, con ciò stesso, l’esito della guerra. Ma ormai il conflitto russo-finlandese era concluso, e già alla fine dello stesso marzo 1940, Churchill dichiarava che «non entrava nella politica inglese nessun proposito di guerra con la Russia». La campagna di Finlandia, inoltre, se per numero d’uomini e di mezzi impegnati, rimase un episodio marginale della guerra mondiale, tuttavia, indirettamente, per le illazioni che se ne trassero da parte dei belligeranti, ebbe un influsso di notevole portata sull’intero conflitto. I Francesi, infatti, ne dedussero conclusioni positive per la Maginot e per la sua efficacia. Siccome però questa linea, snodandosi dalla Svizzera a Montmédy, non giungeva alla Manica, si trovò consigliabile rafforzare nell’inverno le opere campali, come si fece, dalla Mosa al mare. Nel campo tedesco la campagna finlandese fu fuorviante rispetto ai rapporti di forze con la Russia; nacque la convinzione, non solo in Germania ma in tutta Europa, che l’esercito russo non sarebbe stato in grado di misurarsi con una grande potenza militare. Ciò concorre potentemente a spiegare l’attacco del 22 giugno 1941, origine prima e diretta della catastrofe tedesca.
La guerra sul mare. – L’attività marittima ebbe ben scarsa importanza nel conflitto germano-polacco e ciò specialmente a causa dell’insanabile squilibrio delle forze in presenza. Va peraltro ricordato che dei 4 caccia e dei 5 sommergibili, in cui consisteva tutta la flotta polacca, tre caccia riuscirono a riparare in Inghilterra entro il settembre, e tre sottomarini si rifugiarono due in Svezia e uno in Gran Bretagna. Il Baltico divenne praticamente un condominio germano-russo; a causa poi del patto del 23 agosto, la Germania usufruì dell’uso completo del Baltico, necessario a Berlino, specie per la sicurezza della via del ferro svedese e per l’addestramento dei suoi Unterseeboote. La flotta sovietica, disponendo di varie basi navali e aeree, cedute all’URSS dai Paesi baltici, riusciva ad assicurarsi virtualmente il controllo del Baltico centrale, oltreché di quello settentrionale.
Tra il 17 settembre 1939 (fine della seconda fase e insieme delle operazioni risolutive della guerra di Polonia) e il 9 aprile 1940 (inizio della campagna di Norvegia), le imprese interessanti non vengono compiute né in terra, né in aria, ma nel Mare del Nord e in Atlantico, dove gli AngloFrancesi vantavano una netta superiorità sugli avversarî. L’Inghilterra, infatti, come nella prima Guerra mondiale, dominava virtualmente lo specchio d’acqua del Mare del Nord, controllandone gli sbocchi, verso il settentrione, fra la Scozia e la Norvegia, con la grande base di Scapa Flow, e a sud ovest con le opere difensive (prescindendo dall’impiego di forze aeronavali) predisposte, insieme alla Francia, lungo il passo di Calais. La Gran Bretagna quindi poteva paralizzare il traffico della Germania e bloccarne le coste, in posizione interna, senza subire gravi ritorsioni nemiche, intraprese con adeguate forze di superficie, contro le proprie comunicazioni. L’Inghilterra non aveva molto da temere nemmeno l’offesa aerea contro la flotta e i suoi gangli vitali, perché Scapa Flow distava poco meno di 1000 km. dalle basi tedesche, e non erano molti gli aerei, a quel tempo, dotati dell’autonomia sufficiente per simile missione di guerra. Inoltre, le condizioni di relatività navale tra il 1914 e il 1939 s’erano fatte ancor più decisamente sfavorevoli per la Germania. Poiché il passo di Calais, fino al crollo francese, era insuperabile, alle forze navali inglesi di superficie non rimaneva altro compito che quello di distruggere, fra le coste nord-scozzesi, le Orcadi, le Shetland e le coste sud-occidentali di Norvegia, da Bergen a Stavanger, le navi avversarie che avessero tentato di attraversare, fra Scapa Flow e Stavanger, i 500 km. di mare, dominati a nord dalle Shetland. L’unico vantaggio che rimaneva ai Tedeschi, come nel’14, ma con minor rischio per i nemici, era l’attacco di sorpresa a forze unite, nel luogo e al momento prescelti. Apparirà a prima vista strano, ma questo vantaggio, veramente sensibile nella prima guerra, s’era di molto ridotto per la Germania nella seconda, a causa dell’offesa aerea che aveva indotto l’Inghilterra a spostare gran parte del traffico sulle coste occidentali dell’isola togliendo alla marina tedesca la possibilità di portare attacchi fruttuosi contro convogli o altre formazioni navali.
Nel 1939, il naviglio di superficie pesante anglo-francese era enormemente superiore a quello tedesco: 15 corazzate inglesi, 7 francesi, contro 5 tedesche, delle quali ultime nessuna (nemmeno il Gneisenau e lo Scharnhorst) poteva misurarsi con una qualunque delle quindici navi di linea britanniche. Nel naviglio leggero le distanze si facevano meno paurose: la marina tedesca aveva dato notevole importanza a questo genere di naviglio, che rappresentava il 21% del suo tonnellaggio totale, contro il 16% di quello di Gran Bretagna, mentre la Francia, più direttamente preoccupata della propria sicurezza, in fatto di naviglio sottile aveva raggiunto la quota del 23%. L’altro punto di vantaggio della flotta germanica era dato dall’età delle navi, specie di quelle pesanti: le cinque navi da battaglia tedesche, infatti, erano entrate in servizio fra il 1926 e il 1936, mentre, delle 15 corrispondenti inglesi, 2 sole erano entrate in squadra nel 1925: la Nelson e la Rodney. Tutte le altre, per quanto in gran parte rammodernate, risalivano al periodo della prima Guerra mondiale. Quanto alle nuove costruzioni, le distanze tornavano ad essere incolmabili, in quanto che contro 3 navi di linea tedesche stavano 6 inglesi e 4 francesi.
Poiché sui rapporti fra le flotte di superficie non c’era da farsi illusioni, ci si attendeva che da parte tedesca lo sforzo bellico principale fosse portato sui sommergibili. Abbiamo già indicato (v. <vedi>atlantico, App. I, p. 300</vedi>) quale fosse la consistenza della flotta sottomarina tedesca allo scoppio del conflitto e le ragioni per le quali, in tutto il primo anno di guerra, solo 10 unità subacquee, al massimo, poterono operare contemporaneamente nell’Atlantico. È una realtà che potrà sorprendere, ma solo verso la fine della guerra i Tedeschi misero in servizio sottomarini di 1000 t.: notevole poi il tipo XXI di 1600 t. in superficie, con velocità in immersione fino a 16 nodi, autonomia 22.000 miglia; di tale tipo ne furono ordinati ben 200 dopo le brillanti prove sostenute dal prototipo U. 3008. Tuttavia nessuno di essi entrò in servizio prima della fine delle ostilità. In conclusione, i Tedeschi cominciarono a esser pronti per la lotta sottomarina solo sul finire della guerra, come ben sapevano, e con viva preoccupazione, gli Angloamericani.
Le operazioni navali dal settembre 1939 a metà giugno 1940. – Fin dall’inizio della guerra, la RAF cercava di eliminare la marina tedesca di superficie e quella subacquea attaccando da bassa quota con bombe a scoppio ritardato il naviglio di superficie (specie, naturalmente, le corazzate «tascabili») e le basi dei sottomarini. Alle ore 11 del 3 settembre, l’Inghilterra proclamò ufficialmente il blocco della Germania, la quale rispose con il controblocco, pubblicando anch’essa le sue liste di contrabbando. Hitler, pur prevedendo più una dimostrazione bellica da parte degli Anglo-Francesi che volontà di vera e propria guerra, temeva tuttavia che il suo naviglio mercantile sarebbe stato facile preda del nemico; per evitare perdite dolorose, durante la tensione della seconda metà d’agosto, gran parte delle navi erano state richiamate in patria o invitate a raggiungere porti neutrali di potenze previdibilmente amiche; per questo il naviglio catturato dagli Inglesi ammontò solo a poco meno di 60.000 t. Fin dal 4 settembre i Tedeschi cercarono di rendere effettivo il controblocco con più mezzi, tra i quali, nonostante tutto, si segnalarono i sottomarini. La zona preferita dagli Unterseeboote oceanici si trovava circa 200 miglia a occidente delle isole britanniche, cioè nel luogo dove le navi provenienti alla spicciolata dai varî porti inglesi si riunivano per procedere in convoglio o, viceversa, i convogli provenienti da oltre oceano si scioglievano, facendo rotta ogni nave per la propria destinazione. Nella voce atlantico, in questa Appendice, sono descritte le operazioni condotte dai sommergibili tedeschi nel corso di questa prima fase delle operazioni. La Kriegsmarine cercò d’integrare l’azione dei sottomarini con la guerra di corsa; ma l’impiego delle navi di superficie si concluse con l’affondamento della Graf von Spee nel corso della battaglia del Rio della Plata (v. Plata, rio della, in questa Appendice). In complesso, nella prima fase della guerra sul mare l’Inghilterra aveva raggiunto il suo scopo fin dall’inizio; aveva chiuso cioè le vie al traffico nemico, mantenendole aperte al proprio. Quanto alla Germania, il suo sforzo bellico fu più vario nelle risorse d’attacco e nella coordinazione delle molteplici forme di guerra marittima e nell’adeguamento ai proprî compiti dei mezzi d’offesa. Nelle sue specifiche condizioni non poteva certo portare lo sforzo costruttivo sulle navi di superficie, poiché la Germania hitleriana si trovava in condizioni senza dubbio peggiori della Germania guglielmina. Come questa non aveva potuto, accanto al più potente esercito del mondo, disporre della più efficiente marina, a fortiori la Germania hitleriana non poteva, insieme al più potente esercito e alla più potente flotta asrea, possedere anche la più forte marina di superficie. Senonché nei venti anni fra le due guerre, Berlino non riuscì a staccarsi del tutto dal fascino della flotta di linea; e così, salito al potere, Hitler fece costruire le due corazzate Gneisenau e Scharnhorst (entrate in squadra nel 1936) e, in seguito (cosa ancor più grave), le due supercorazzate Bismarck e Tirpitz, col risultato di avere una flotta di superficie priva di adeguata scorta d’incrociatori e caccia, priva cioè d’occhi e d’organi di relazione, e una flotta sottomarina decisamente insufficiente a piegare il nemico col distruggerne il traffico e paralizzarne la strategia. Se, nonostante tutto, il successo della Germania sul mare apparve imponente nei primi anni (durante il 1940 furono affondate 5.217.000 t. di naviglio, delle quali 2 milioni ad opera dei sommergibili), ciò si spiega tenendo presente che la marina inglese fu costretta per quasi 24 mesi a premunirsi contro il pericolo di un’invasione, impegnando buona parte dei suoi incrociatori e caccia, sottratti così alla normale scorta del traffico. Inoltre, a causa della minaccia d’intervento e poi dell’intervento medesimo dell’Italia, s’impose per Londra la necessità di rafforzare la flotta del Mediterraneo, il cui compito si fece più difficile con l’improvvisa carenza della flotta francese. Per questi motivi, si fu costretti ad assegnare solo due unità di scorta a convogli di 40 mercantili.
La campagna di Norvegia. – Già durante la campagna di Polonia, nonché subito dopo, o mentre si combatteva la prima fase della battaglia atlantica, Hitler s’era orientato per un attacco risolutivo contro il nemico occidentale; principalmente per le condizioni atmosferiche e in parte anche per la situazione d’armamento si decise di rinviare l’attacco alla prossima stagione favorevole. Ma proprio il fatto di dover contemplare una guerra a fondo con gli Anglo-Francesi impose la soluzione di un problema di alta strategia. Dei due nemici capitali, la Francia poteva essere ufficialmente combattuta con un attacco dal confine svizzero al mare, in particolare attraverso l’Olanda e il Belgio, realizzando un accerchiamento completo della nazione continentale. Una situazione analoga poteva essere creata per l’Inghilterra; ma, a tal fine, gli eventuali futuri successi sulle coste dell’Occidente dovevano essere preceduti da una sorta di preludio, costituito dall’occupazione della Danimarca e della Norvegia. Se la guerra poteva dirsi, a ragione, risoluta solo quando sarebbe stato distrutto l’impero britannico, bisognava fin dall’inizio, assicurarsi il possesso del litorale continentale, che fronteggiava le isole, al fine di organizzarlo in una vasta base d’attacco. Questo litorale era quello di Danimarca, Norvegia, Olanda, Belgio, Francia; pertanto l’attacco futuro contro l’ovest diveniva, nel quadro della strategia antibritannica, il seguito logico dell’occupazione dano-norvegese.
La mancata conquista dei due paesi scandinavi era stata riguardata dall’ammiraglio Wegener, fin dal 1929, come una delle cause della sconfitta del 1918. Si trattava per la Germania di modificare a danno dell’Inghilterra le condizioni geostrategiche del Mare del Nord. In tutti e due i conflitti, Londra aveva soffocato la nemica col blocco ravvicinato nel golfo tedesco, organizzando in cerchio il suo «Coastal Command» fra Rosith, Scapa Flow, le Shetland e la linea delle acque territoriali norvegesi Bergen-Stavanger. Se la Kriegsmarine voleva garantirsi per sempre l’apertura della via del ferro e del nichel, importazioni fondamentali alla guerra, e interdire agli Alleati i preziosi minerali, e se voleva inoltre conquistare per la flotta di superficie quella libertà di navigazione che era del tutto mancata nel primo conflitto, doveva aprire un nuovo teatro di guerra conquistando la Norvegia. Questo paese si estende a nord di Bergen per circa 1000 km. nel libero Atlantico, formando come una sorta di corridoio attraverso cui le navi tedesche, protette dalle installazioni d’artiglieria aerea, avrebbero potuto raggiungere nelle migliori condizioni il mare libero. L’impresa s’imponeva anche perché in una lotta contro l’Inghilterra c’era poco da contare sulla flotta di superficie, tanto inferiore a quella del 1914 e già provata abbastanza duramente; la debolezza navale poteva essere compensata puntando sull’aviazione, nella quale Hitler si sentiva superiore agli Alleati. Per questo la Germania aveva interesse a estendere largamente verso il nord il fronte di attacco aereo; infatti col possesso di tutta la costa orientale del Mare del Nord si dominano le sue entrate e si minacciano, a meno di 400 km., le rade delle Shetland e di Scapa Flow.
Il documento segreto su «La preparazione politica dell’affare norvegese» del 17 giugno 1940 precisa che A. Rosenberg e Vidkun Quisling ebbero per primi l’idea della campagna scandinava, appoggiata subito dall’ammiraglio Raeder e quindi da Doenitz. Hitler dapprima non si mostrò favorevole, perché temeva «ogni allargamento, anche minimo, del conflitto»; ma quando vide che gli Alleati non si disponevano a riconoscere il fatto compiuto in Polonia, accettò l’idea della campagna e il 14 dicembre ordinò all’OKW (Oberkommando Wehrmacht) di approntarne il piano (detto «esercizio Weser»), la cui attuazione fu affidata al gen. Falkenhorst.
I preparativi tedeschi s’erano fatti sempre più intensi fin da quando, durante la campagna di Finlandia, cominciò ad apparire chiaro che gli Anglo-Francesi, nell’intento di aiutare Helsinki, miravano anche a insediarsi in Scandinavia per privare del ferro la Germania, per rinsaldarne a nord l’accerchiamento navale (Northern Barrage) e per ricostituire a settentrione, almeno sul piano aereo, il secondo fronte, scomparso dopo il crollo polacco. I Tedeschi, avendo saputo che 16.000 soldati francesi stavano in Scozia, anche dopo la fine della campagna finlandese, accelerarono i tempi. In questa atmosfera di tensione, l’8 aprile s’ebbe da parte degli Anglo-Francesi la posa di mine davanti a Narvik per impedire alla Kriegsmarine l’uso delle acque territoriali norvegesi. In Germania, dove tutto era pronto, si rispose, nelle prime ore del 9 aprile, con lo sbarco contemporaneo da Oslo a Narvik. Il governo inglese e la Home Fleet, sorpresi, non poterono intercettare la forza navale nemica diretta a nord.
Mentre Copenaghen non oppose alcuna resistenza all’ultimatum e all’occupazione tedesca, Oslo rifiutò la nota del ministro del Reich con la quale si chiedeva libertà d’azione per «proteggere» il territorio norvegese contro ogni minaccia britannica. Questa resistenza sorprese i Tedeschi; ma ciò non impedì che in 24 ore il governo norvegese avesse perduta quasi tutta la sua piccola flotta aerea e navale, tutti i suoi porti, i campi d’atterraggio, le stazioni radio, le più grandi città, le linee telegrafiche e telefoniche. Ma, siccome il re non piegava, proseguendo come poteva la resistenza verso l’estremo nord, i governi alleati, contro il parere di varî tecnici militari, specie francesi, che vedevano la difficile impresa votata al fallimento per difetto di preparazione e di mezzi, decidevano, nonostante tutto, di portare immediato aiuto alla Norvegia, per ragioni morali e politiche. Così il 10, nonché il 13 aprile, la marina britannica impegnò il combattimento danneggiando parecchie unità di guerra nemiche. Truppe britanniche e francesi sbarcarono a Narvik, Namsos, Andalnes.
Il piano operativo tedesco era chiaro: attaccare il litorale norvegese contemporaneamente al fine di disperdere le magre forze di difesa e averne facilmente ragione prima dell’intervento massiccio anglo-francese; intervento particolarmente temuto, questa volta, perché l’impresa non si giovava, come quella di Polonia o di Danimarca, della continuità di terraferma, ma si svolgeva in un territorio vasto come l’Italia, dall’ambiente fisico arduo, e posto oltre mare. Gli Alleati, che erano ancora lontani dalla piena disponibilità dei mezzi, limitarono la controffensiva a due importanti tentativi di sbarco a Trondheim e a Narvik. Trondheim costituiva un punto strategico della più alta importanza, perché era il quadrivio delle comunicazioni nord-sud (Oslo-Narvik) ed est-ovest (Trondheim-Ostersund, cioè Norvegia–Svezia). Se i Franco-Britannici fossero riusciti a impadronirsene avrebbero controllato il cuore del paese e insieme avrebbero potuto stabilire in quel profondo fiordo una base navale di primo ordine, utilissima per completare l’accerchiamento a nord dell’Inghilterra. L’importanza di Narvik era quasi esclusivamente economica, trattandosi della stazione marittima, capolinea della strada del ferro di Kiruma: se gli Alleati vi si fossero stanziati stabilmente avrebbero potuto influenzare l’andamento della guerra in modo decisivo. I combattimenti si conclusero il 24-27 aprile con la rottura del fronte franco-inglese a Tretten, a nord di Lillehammer, provocando il 27 la decisione del Consiglio Supremo di evacuare la Norvegia. Gli ultimi distaccamenti lasciarono Narvik il 10 giugno, allorché le sorti della battaglia di Francia volgevano alla catastrofe.
Riuscirà interessante spiegarci come mai, col dominio incontrastato del mare, gli Alleati siano andati incontro all’insuccesso, quando bastava incrociare sullo Skager Rak, come richiedevano con vigore Gamelin, Georges, Vuillemin, per votare a catastrofe l’azione di Hitler. In realtà la schiacciante superiorità aerea tedesca (2500 apparecchi contro qualche centinaio), potenziata dal possesso degli aerodromi di Bergen, Kristiansand, Oslo, sopra tutti di quello di Stavanger (Sola), il più importante della Norvegia, neutralizzò la superiorità navale inglese. Il dominio dello Skager Rak apparteneva difatto alla Germania che, nelle nuove condizioni create dallo sviluppo dell’aviazione, dominava l’aria e, con questa, il mare. Nessun cannone contraereo può garantire in senso assoluto la nave contro l’offesa aerea; perciò la migliore difesa contraerea delle navi sarà sempre offerta dalla caccia, la quale, per conseguire lo scopo, dovrà tuttavia trovarsi con continuità sul cielo delle navi. Nella prima Guerra mondiale l’Ammiragliato britannico giudicò rischiosa l’organizzazione di un blocco ravvicinato della Germania; questo rischio, a causa dell’accresciuto potere aereo, s’elevò paurosamente nel nuovo conflitto. Porre pertanto il blocco stretto allo Skager, sensibilmente più lontano dalle basi inglesi del golfo tedesco, equivaleva a cacciarsi nell’avventura. Causa la lontananza, non si poteva disporre sullo Skager di caccia provenienti da terraferma; le portaerei erano poco numerose e molto vulnerabili, in conseguenza del prevalente potere aereo germanico. Questo era il senso del discorso di Churchill, concludendo ai Comuni la discussione sulla condotta di guerra in Norvegia, l’8 maggio 1940. Si finì perciò da parte inglese con l’adottare il solo metodo a disposizione: quello del blocco a mezzo di sommergibili, il cui lavoro fu reso più effettivo col toglier loro le usuali restrizioni. I sottomarini potevano ostacolare, ma non tagliare le comunicazioni fra la Norvegia meridionale e la Germania, cosicché, malgrado la loro opera e l’ausilio di una flottiglia francese, malgrado il bombardamento degli aerodromi di Aalborg, in Danimarca, punto di partenza, e di Oslo, punto di sbarco delle truppe motorizzate tedesche, fu sempre possibile al comando germanico inviare rinforzi in una misura molto più grande di quella consentita agli Anglo-Francesi, ostacolati anche da porti di sbarco inadeguati. Verso la conclusione della campagna i Tedeschi allineavano, contro 25.000 uomini, 100.000 dei proprî, «opportunamente dosati con truppe motorizzate e alpini, a seconda dei territorî dove si doveva agire».
La campagna di Norvegia aveva inoltre riconfermato i risultati di quella di Polonia sull’efficacia degli aerei nelle operazioni terrestri (battaglia decisiva di Lillehammer) e aveva per di più messo in evidenza, per la prima volta i vantaggi risolutivi derivanti da una stretta collaborazione fra le tre forze armate, collaborazione che sarà foriera dei ben più grandiosi successi del futuro, in occidente, in oriente e in estremo oriente, sia da parte dei Tedeschi e dei Giapponesi che degli Alleati, quando, a partire dal 1942, la superiorità aerea comincerà a passare dalla parte di questi ultimi. Fatta eccezione per il recupero della flotta mercantile norvegese la quarta del mondo) che, sfuggendo alla cattura, potè mettersi in salvo in Inghilterra, gravi furono per gli Alleati le conseguenze della perdita della Norvegia. Berlino acquistava nuove basi per i suoi aerei e i suoi sottomarini, e si assicurava definitivamente i rifornimenti di ferro, privando Londra di questo prezioso minerale, degli approvvigionamenti di viveri della Danimarca e di legname della Scandinavia. Mentre l’invasione tedesca procedeva con successo, gli Inglesi occupavano le isole Färöer e l’Islanda per prepararsi a neutralizzare le conseguenze della perdita della Norvegia. Il blocco della Germania fu naturalmente mantenuto, ma su di una linea almeno tre volte più lunga, andandosi incontro con ciò a maggiori difficoltà.
La campagna dell’ovest. – Prima della preparazione della campagna scandinava e quindi anche durante questa campagna, l’Alto Comando tedesco teneva rivolta la sua attenzione alla difesa del bacino della Ruhr. Una circolare segretissima del 20 novembre 1938 del gen. Keitel, costituisce la radice remota dei complessi studî per il «Caso giallo», cioè per il piano d’invasione dell’Olanda, del Belgio e della Francia. «La protezione della zona della Ruhr non è irrilevante riguardo all’intera condotta della guerra. Più territorio olandese occuperemo, più efficace diverrà la difesa del bacino renano». Scoppiata la guerra, questa preoccupazione non abbandonerà più il comando supremo tedesco: i progressi dell’aviazione sono imponenti; la Ruhr non potrebbe esser difesa contro gli attacchi dall’aria se l’Inghilterra riuscisse a installare solo una parte dei suoi servizî d’individuazione aerea, nonché di combattimento e bombardamento aereo, in un lembo del territorio olandese. Pertanto, fin dal 9 ottobre 1939 fu compilata la «direttiva n. 6» del primo «Caso giallo» firmata da Hitler. Vi si prescriveva che per l’inizio dell’offensiva ad occidente, secondo i piani, l’esercito e l’aviazione devono esser pronti in qualunque momento e con forze crescenti a fronteggiare un’invasione congiunta franco-inglese del Belgio e, nello stesso tempo, contrattaccare occupando l’Olanda e premendo per quanto possibile verso le coste occidentali». Di conseguenza, «ci si deve preparare per un’azione offensiva sul fianco nord del fronte occidentale, attraversando il territorio lussemburghese, belga e olandese. Questo attacco deve essere sferrato il più poderosamente possibile».
Il piano d’attacco in occidente, predisposto dall’OKW (Oberkommando Wehrmacht), alla vigilia quasi immediata del secondo conflitto mondiale, era molto simile nell’idea essenziale a quello di Schlieffen, ma migliorato con l’eliminazione di tutte le note debolezze ad esso apportate da Moltke iunior nel 1914. Questo piano definito «piano Schlieffen migliorato», anche «piano von Epp», tornava a rafforzare l’ala destra anche più di quanto l’avesse voluta il conte Schlieffen con la sua memoria del 1905: una massa potente, fra Venloo e Liegi, doveva con un colpo solo invadere l’Olanda meridionale, occupare Anversa, Ostenda, Dunkerque e Calais, in modo da avviluppare con più largo raggio la sinistra alleata, per potere quindi aggirare Parigi dall’ovest, fra Rouen e la capitale. Senonché, questa seconda edizione del piano Schlieffen, sottoposta all’esame di Hitler, venne da questi rifiutata e inviata agli archivî. E a ragione, perché il piano non costituiva nessuna sorpresa, giusta le rivelazioni del servizio segreto dell’amm. Kanaris. Questi, infatti, aveva potuto accertare che Gamelin e il gen. Georges, comandante in capo del teatro delle operazioni del nord-est, avevano radicalmente modificato le disposizioni difensive del famoso «piano XVII», per cui, evitando gli errori dell’agosto 1914, la sinistra francese, invece d’attestarsi alla Sambre di Maubeuge, si spingeva fino a Dunkerque. Inoltre, considerazione determinante, il piano dell’OKW non teneva conto di un notevole fatto nuovo: il rafforzamento dell’esercito belga, il quale, dalle 6 divisioni male istruite del 1914, era salito alle 18 grandi unità di re Leopoldo, bene armate e bene addestrate e distribuite dietro la triplice linea delle fortificazioni a confine con la Germania e dietro il canale Alberto. Ora, questa distribuzione di forze e d’impianti belgi si giovava dell’aiuto dei Francesi, che sarebbero accorsi a difendere, fra la Dyle e la catena delle fortezze confinarie, il piccolo alleato e a impedire ai Tedeschi d’insediare basi aeree e navali, tra Anversa e Boulogne, contro l’Inghilterra. Pertanto non sarebbe stato agevole battere con rapidità forze numerose e potenti che si giovavano in luogo di temute opere difensive. Con geniale audacia, Hitler al piano archiviato dell’OKW, ne sostituì un altro che potrebbe essere definito come il piano Schlieffen rovesciato, incardinato cioè non sul concetto operativo di una forte destra, ma su quello di una poderosa sinistra. Più in particolare, il Führer pensava d’impegnare il nemico con una grandiosa finta fra Namur - Lovanio - Anversa - Breda; gli Alleati con le forze più efficienti si sarebbero impegnati, come nel 1914 a sostenere a nord l’urto della forte destra dello «Schlieffen», mentre egli, attraversando le foreste delle Ardenne e aggirando completamente la Maginot, si sarebbe abbattuto col grosso delle armate sul punto debole dello schieramento nemico. Questo punto debolesi situava tra Namur e Sedan, dove si articolava la cerniera fra la parte fissa e quella mobile del dispositivo franco-britannico.
Contro il piano di Hitler c’era una sola obbiezione da muovere: l’ostacolo del massiccio delle Ardenne, il cui terreno, per le anfrattuosità, le spesse foreste, i molteplici corsi d’acqua, mal si prestava all’impiego dei blindati, cioè di quelle armi dalla cui rapidità e potenza d’urto il capo tedesco s’attendeva soprattutto di conseguire, come già all’est, la vittoria. Lo stato maggiore germanico riconobbe la superiorità del piano di Hitler e lo fece proprio, profondendo tesori d’immaginazione e d’ingegnosità per addestrare le truppe a vincere gli ostacoli delle foreste e dei corsi d’acqua e per contenere nei tempi prescritti le innumerevoli colonne motorizzate e volanti. Erano necessarie complesse catene di previsioni serrate, perché i movimenti di tante unità di carri e d’aerei sincronizzassero per realizzare un’esecuzione impeccabile; ma tutto fu messo in opera, perché l’OKW comprese che, se si fosse giunti a percuotere il nemico nel settore ritenuto interdetto, l’effetto morale su di esso sarebbe stato irresistibile e le conseguenze sulla saldezza del dispositivo nemico incalcolabili. Ma perché un tale piano audace fosse coronato dal successo era necessario il più rigoroso segreto; l’alto comando germanico seppe custodirlo. In un primo momento, la grande campagna dell’ovest avrebbe dovuto essere scatenata il 12 novembre 1939, ma il servizio meteorologico la fece aggiornare sine die perché il cattivo tempo avrebbe potuto mortificare pericolosamente il rendimento della combinazione Panzer- Stukas. Il comando anglo-francese durante la lunga stasi perfezionò la difesa dal confine con la Svizzera a Montmédy, confidando soprattutto sulla combinazione delle sue forze d’urto e statiche con le opere della Maginot. Questa confidenza, stricto sensu, non rimase tradita, perché anzi, l’abbiamo visto, l’OKW, consapevole di trovarsi dinanzi a ostacoli difficilmente superabili, aveva fatto proprio il piano di Hitler, che sfruttava in modo originale lo spazio d’oltre Maginot, fra le Ardenne e il Mare del Nord. Ma più ancora l’attenzione dello stato maggiore francese si concentrò, nell’oltre-Maginot; e il 24 ottobre 1939 nacque, da voci d’invasione tedesca nel Belgio, l’ipotesi Schelda, in base alla quale le armate franco-inglesi si sarebbero subito portate sul confine franco-belga, sino a Condé sulla Schelda, per attestarsi lungo il fiume, fra Condé e Gand, dove si sarebbe operato il congiungimento con l’armata belga, ritirantesi dal canale Alberto. Ma l’11 novembre corsero nuove voci: lo stato maggiore tedesco avrebbe invaso non più il Belgio, ma l’Olanda per combattere dalla Zelanda l’Inghilterra, coprendo la propria sinistra con la neutralità belga. Nacque allora l’ipotesi «Dyle», secondo cui, in caso d’invasione della sola Olanda, gli Anglo-Francesi, con il consenso di Bruxelles, avrebbero attraversato il territorio di questo stato per correre al soccorso delle truppe dell’Aia. Siccome difficilmente l’aggressione sarebbe rimasta limitata all’Olanda, lo stato maggiore belga decise, per una più efficace protezione del paese, di stabilire una linea anticarro continua, da Namur ad Anversa, appoggiata fondamentalmente al fiume Dyle. Operando a valle della linea Sedan-Namur-Dyle-Anversa, gli eserciti franco-inglesi si sarebbero allora potuti portare con maggior sicurezza nella Zelanda meridionale per presidiarvi le isole di Walcheren, di Beveland e la strozzatura di Woendsrecht. Ma il 12 marzo 1940, innanzi al profilarsi sempre più netto della minaccia tedesca e alle conseguenti pressioni dell’Olanda, nacque l’ipotesi «Breda», per la quale, a partire dal 20 marzo 1940, la 7ª armata francese, di riserva dietro la Schelda, nella ipotesi «Dyle», doveva portarsi nel corridoio Venloo-Mare del Nord, fra la Mosa e il canale Alberto, al fine di coprire con Breda il versante occidentale del nord-Brabante e tutta la Zelanda, continentale e insulare.
Pur di evitare un attacco logorante e prolungato contro la cortina difensiva di Verdun, Toul, Èpinal, Belfort, eretta dopo la pace di Francoforte del 1871 da François de la Rivière, nel 1914 la Germania aveva violato la neutralità del Belgio con la pesante conseguenza dell’intervento di Londra accanto a Parigi e a Pietroburgo. Nel 1940 il Comando germanico si trovò dinanzi a una situazione analoga, quantunque meno pressante. Nel 1914, infatti, si trattava, giusta il piano Schlieffen, di avere al più presto ragione della Francia per trovarsi pronti, assieme all’Austria, a fronteggiare la minaccia della Russia, dopo che questa avesse compiuto le sue lente misure di mobilitazione. Lo Schlieffen mirava a riparare sul piano operativo agli inconvenienti politico-militari della guerra su due fronti. Nel 1940 la Germania non doveva combattere su due fronti, ma nonostante questo grande vantaggio, la situazione delle forze tedesche non appariva molto favorevole a Hitler, perché, secondo le sue parole, «il nemico a occidente s’intanava dietro le fortificazioni, e non vi era possibilità di agganciarlo», in mancanza di adeguati mezzi materiali. Per quanto, infatti, i Tedeschi dall’autunno 1939 alla primavera successiva avessero compiuto grandi sforzi finanziarî e lavorativi nel campo dell’organizzazione dell’economia di guerra, e per quanto l’armamento germanico in quantità e qualità di confezione avesse raggiunto un livello notevolmente superiore a quello di ogni altro paese, tuttavia l’OKW ritenne opportuno nell’attacco contro la Francia, evitare, come nel 1914, la sezione fortificata più efficiente, aggirandola a nord. La Maginot, è noto, si snodava dalla Svizzera, lungo la frontiera franco-germanica, fino a Montmédy; da Montmédy al mare, come dal Gran S. Bernardo al varo, la frontiera orientale francese era anch’essa sistemata a difesa, ma con opere permanenti in cavità di gran lunga più modeste. Inoltre la sezione Montmédy-mare non poteva trarre vantaggio, come quella S. Bernardo-mare, da uno sbarramento naturale come le Alpi e pertanto, da Montmédy al passo di Calais si apriva una pericolosa trouée béante, di cui lo stato maggiore tedesco decise di trarre il massimo profitto. Ma, per conseguire lo scopo, Hitler decise senz’altro di ripetere su più vasto raggio la manovra di aggiramento a nord, violando questa volta la neutralità dell’Olanda, oltreché del Belgio e del Lussemburgo. In tal modo l’esercito tedesco «girava» netto l’ostacolo della Maginot.
Alle ore 5,35 del 10 maggio, tutto il fronte dalla Mosa allo Zuiderzee fu in movimento; rimase fermo, invece, lungo la Maginot vera e propria, il tratto impegnato dall’armata C del col. gen. von Leeb. Scopo di Hitler era quello di attaccare i nemici da Montmédy alla Frisia settentrionale, cointeressando contemporaneamente nell’attacco tutti i territorî dalla Mosa alle foci dell’Ems. Il comando francese si rese ben presto conto che il grosso delle forze nemiche, evitando la Maginot, era stato violentemente proiettato sull’Olanda e il Belgio. Il piano di difesa lungamente meditato fra le due guerre era stato completamente sconvolto, perché ci si trovava quasi all’improvviso dinanzi alla necessità di dover combattere una guerra manovrata, almeno in parte, in campo aperto, dove il posto della fortezza era preso dal carro armato; mentre ci si era familiarizzati a lungo all’idea di essere chiamati un giorno a sostenere un attacco che avrebbe dovuto essere rintuzzato fra le linee fortificate della Maginot, al riparo di opere accuratamente predisposte, intercomunicanti mediante gallerie, sottopassaggi munitissimi, al riparo di cupole corazzate e «alla prova» di qualunque tipo d’artiglieria o di bombe aeree, con le spalle coperte da enormi cittadelle sotterranee.
Il comando anglo-francese, in linea teorica, avrebbe potuto anche decidere di attendere l’urto sulle posizioni difensive che prolungavano con maggior modestia di mezzi la Maginot fino al mare. Ma si sarebbe andati incontro a tre paurosi inconvenienti: di lasciar distruggere non meno di 18 divisioni belghe e 10 olandesi; di esporre l’Inghilterra, centro di tutta la resistenza, ad attacchi aero-navali ravvicinati, che avrebbero potuto sortire effetti rovinosi specie dopo l’occupazione dell’immenso litorale dano-norvegese; infine, dal punto di vista etico-politico, se l’Olanda e il Belgio fossero stati abbandonati alla Germania, la politica delle garanzie avrebbe subìto un colpo irreparabile. Per questi motivi, Gamelin, postosi in difensiva lungo la Maginot, lanciava il grosso delle sue forze efficienti verso il nord per attestarsi, secondo i piani delle manovre Dyle e Breda lungo la linea Namur-Dyle-Anversa-Breda.
Ma la sorpresa strategica più radicale e irreparabile doveva ancora venire; il comando francese, all’oscuro del nuovo elemento strategico introdotto da Hitler, assunse come un dato l’ipotesi che l’OKW, nella sua offensiva all’ovest, sarebbe caduto nella ripetizione del piano Schlieffen, proiettato su più grande scala, includendo nel piano d’invasione anche l’Olanda. Nel piano Schlieffen è noto come l’elemento risolutivo dell’azione fosse affidato all’efficienza e alle qualità manovriere della destra delle armate d’urto. Se i Tedeschi, come tutto pareva confermarlo, si fossero riversati in massa sull’Olanda e il Belgio, ci si sarebbe trovati dinnanzi ad una semplice manovra d’avvolgimento d’ala, analoga a quella del’14. Una simile manovra il comando francese era preparato a fronteggiarla. L’aveva fatta fallire nel 1914; non poteva trionfare oggi perché, appoggiato alla Svizzera neutrale e alla Maginot, il comando alleato, concentrando a nord le forze meglio armate e addestrate, avrebbe fatto massa con le armate belga e olandese e arrestato, con probabilità di successo, sulla Mosa, o sulle linee fra la Mosa e la Schelda, l’avanzata nemica. Per questo, subito dopo il 10 maggio, tre armate franco inglesi marciarono verso il nord a sostenervi le 28 divisioni belgo-olandesi.
Invece, mentre nei primi tre giorni l’Olanda fu sostanzialmente travolta (nella notte tra il 14 e il 15 maggio il comandante in capo offriva la resa della sua armata) e furono aggirate e sfondate le difese più importanti del Belgio (il canale Alberto, il forte Eben Emael e Liegi cadevano fra il 10 e il 13) si verificarono sulla Mosa, nel tratto Namur-Sedan, avvenimenti quasi silenziosi, ma di una portata tale da cacciare del tutto in ombra i fulminei successi in Olanda e nel Belgio. In quell’arco della Mosa di circa 200 km. si presentarono contemporaneamente, dal 12 al 13, fra Namur e Dinant, le unità corazzate di Rommel; fra Dinant e Fumay, quelle di Reinhardt; fra Fumay e Sedan, i carri di Guderian. Nella convinzione che la regione delle Ardenne per la sua densa vegetazione d’alto fusto fosse inibita al passaggio delle unità corazzate, il Comando francese aveva lasciato la sezione della Mosa-Namur-Mézières affidata alla difesa della 9ª armata, alle dipendenze del gen. Corap, e la sezione confinaria Mosa-Argonne-Alta Lorena alla difesa della 2ª armata, alle dipendenze del gen. Huntziger. Tutte e due queste armate non disponevano d’efficiente esplorazione aerea e armamento moderno, perché la loro missione si profilava prevalentemente in termini statici. In queste condizioni il 12-13 maggio i Tedeschi operarono lo sfondamento fra Namur e Sedan che, travolgendo contemporaneamente la 2ª e la 9ª armata (particolarmente quest’ultima), introdusse all’improvviso nella situazione un elemento nuovo e di portata terribilmente inquietante. Contrariamente a quanto pensava il comando francese, l’attacco principale non si era prodotto nel Belgio settentrionale, ma in quello meridionale, e più precisamente sulla cerniera del gruppo d’armata del nord col gruppo d’armata del centro. Più chiaramente, tutto il gruppo d’armate del nord, che reclutava il grosso delle forze d’urto anglo-francesi, ruotava sulla piattaforma della 9ª armata, il cui fronte franò completamente entro soli tre giorni.
Al comando francese, non ancora bene orientato sulla nuova tecnica d’assalto e di combattimento, la situazione apparve ora grave, ma non irreparabile. Siccome la rottura sulla Mosa era d’appena 50 km., e la Maginot ancora intatta, si pensò che sarebbe bastato concentrare a nord e a sud delle colonne nemiche di sfondamento truppe di riserva per tamponare il versamento, e prendere più tardi l’offensiva per tagliare quello che i Francesi chiamarono «dito di guanto». Alla 6ª armata di riserva del generale Touchon e alla 9ª armata, ricostituita, e divenuta, in seconda edizione, l’armata Giraud, fu affidato un tale compito fra la Sambre e l’Aisne. Ma, sia perché il grosso delle unità franco-inglesi era dislocato nel Belgio centro-settentrionale, sia perché le unità francesi mancavano dell’efficienza e dell’addestramento di quelle tedesche e di un comando esperto nell’arte difficile di regolare i loro movimenti, avvenne che il corazzamento e la motorizzazione delle truppe d’urto tedesche, sostenute da una potente aviazione tattica, produssero effetti irreparabili nei 350 km. di marcia, da Sedan al mare. Il comando francese non era preparato a sostenere, specie in una situazione così difficile, una guerra totalmente manovrata contro grandi unità corazzate, autonome nei servizi, nel collegamento, nell’azione di fuoco lontana e vicina, nell’impiego della fanteria, inserita con la sua Motorbrigade nella Panzerdivision, sul medesimo piano della Panzerbrigade e con questa collaborante ad azione in prevalenza alternata.
Più degli stessi Panzer, fu la dottrina del loro impiego l’irreparabile sorpresa per lo stato maggiore francese. Si comprende allora come ogni contromisura da questo escogitata giungesse sempre in ritardo sugli avvenimenti, come i Tedeschi si trovassero sempre oltre le designate posizioni d’arresto e come dovunque tutto precipitasse terribilmente. La situazione delle armate franco-inglesi in Belgio, grave fin dal 13 maggio, si fece infatti disperata nello spazio di soli cinque giorni. Tra il 15 e il 18, già non si disponeva più del tempo necessario per la ritirata delle armate di Blanchard e di lord Gort verso il sud. Il 18 la ricostituita 9ª armata era distrutta e Giraud col suo stato maggiore fatto prigioniero: il 19 cadeva Amiens. I Tedeschi nell’avanzata si erano rivelati irresistibili, perché, oltre tutto, avevano largamente attuato i principî strategici della direttiva «n. 8» per cui, dopo la rottura di Dinant-Sedan, tutte le divisioni corazzate e motorizzate disponibili furono incanalate nella breccia con l’ordine di spingersi fino al mare, appoggiandosi ai canali e alla rete fluviale dell’Aisne e della Somme. Per impedire una nuova Marna, mentre le armate corazzate di von Kleist avanzavano verso il mare, le sue truppe di fanteria autocarrate e a piedi occupavano solidamente il territorio conquistato dai blindati, col compito di coprire il fianco sinistro del cuneo di penetrazione contro i ritorni offensivi francesi. Il 21, raggiunta la Manica, i Tedeschi, facendo fronte verso la Francia, si misero in difensiva sul versante meridionale del corridoio tracciato in 11 giorni fra Sedan e Abbeville, per dare inizio alla battaglia di annientamento delle armate del nord. A tal fine, fra il 21 e il 24 maggio, investivano Boulogne e Calais, lasciando momentaneamente libero per la ritirata a tutte le forze belghe, inglesi e francesi il solo porto di Dunkerque. L’ultimo tentativo escogitato da M. Weygand (succeduto il 20 maggio a Gamelin) per arrestare l’invasore con la marcia convergente su Bapaume di un’armata alleata a nord e una francese a sud del corridoio tedesco falliva completamente. Di catastrofe in catastrofe, la «la battaglia di Canne» della Manica si concluse il 3 giugno con l’eroica evacuazione di Dunkerque.
Il 5 s’iniziava il secondo e ultimo tempo della campagna dell’ovest con la battaglia di Francia. La situazione, ancor prima che s’aprissero i combattimenti, era disperata: 150 divisioni di fanteria e 10 blindate erano contrapposte a circa 60 divisioni francesi, di cui 17 di «fortezza» vale a dire formate da riservisti di vecchie classi. L’armata era munita di un materiale più che mai nettamente inferiore, dopo la perdita delle divisioni franco-inglesi del nord, quasi tutte bene equipaggiate. Per ciò che riguardava i complessi meccanici, Weygand disponeva in tutto di tre divisioni corazzate e di tre di «cavalleria» cioè le divisions légères mécaniques (DLM), ma la dotazione di tutte e sei le divisioni era lontana dal raggiungere, per l’armamento pesante, quello di una sola Panzer e, per il leggero, di una sola divisione motorizzata nemica al completo. Mancavano i pezzi anticarro, era quasi inesistente la DCA e gli uomini si trovavano al limite della resistenza fisica. Disponendo di reparti così scarsi d’effettivi e poco efficienti, Weygand decise di organizzare la difesa solo per caposaldi (difesa a riccio), da Montmédy al mare. Cioè egli stabilì alcuni punti d’appoggio sui passaggi obbligati degli assi di penetrazione probabili; questi punti d’appoggio dovevano tenere a lungo, anche se accerchiati da ogni parte, e aprire il fuoco, com’era nelle loro possibilità, in tutte le direzioni. Questo complesso difensivo prese il nome di «linea Weygand»; essa presentava una sensibile rarefazione da Montmédy all’Aisne: una divisione ogni 10 km., e una rarefazione più marcata dall’Aisne al mare: una divisione ogni 15 km. Ma, cosa ancor più grave, sarebbe stato necessario – contrariamente alla tragica realtà – che i caposaldi disponessero di difese contro gli aero-carri, e potessero essere riforniti per via aerea.
Il 5 giugno, alla ripresa delle operazioni l’OKW si trovò dinanzi a due sezioni di fronte nemico con cui cimentarsi: Montmédy-Aisne-Ssomme-Manica (linea Weygand) e Montmédy-Svizzera (linea Maginot). Fu deciso di attaccare il primo settore dove era stato allineato il grosso delle forze mobili francesi; una volta eliminato cotesto complesso di una qualche efficacia, la Francia intera sarebbe stata alla mercè della Wehrmacht, senza che la Maginot, priva di difensori, avesse potuto in qualche modo assolvere al ruolo per cui era stata edificata. La continuazione delle operazioni verso l’Aisne, la Somme e la Senna non aveva che secondariamente lo scopo di occupare Parigi; principalmente doveva assicurarsi posizioni di partenza per l’avanzata verso il confine svizzero passando alle spalle della Maginot. In sette giorni, dal 5 all’11 giugno, l’esercito amalgamato in fretta da Weygand era liquefatto: su 46 divisioni, 22 rimasero fuse nella battaglia, e ormai non esisteva più una sola unità meccanizzata efficiente e una sola divisione di cavalleria blindata.
In simili condizioni non v’era più nulla da fare. La capitolazione che, dopo la caduta di Calais e l’accerchiamento delle armate del nord, fu presa in considerazione per la prima volta, il 25 maggio, dal Comité de guerre presieduto da A. Lebrun, s’impose inevitabile. Il 12 giugno Weygand ne rese edotto il governo francese, che solo per rispettare ancora i suoi impegni con l’Inghilterra si rifiutò di chiedere l’armistizio.
Fu allora, tra il 12 e il 13, che l’armata corazzata di von Reichenau s’aprì una breccia profonda nel dispositivo della montagna di Reims e nel settore di Épernay. Di nuovo la superiorità della tecnica, rivelatasi sul campo di battaglia col binomio Panzer-Stukas, assicurò ai Tedeschi una marcia senza ostacoli da Reims (pei Épernay, Vitry, Saint Dizier, Sens, Troyes, Chaumont, Neuf-Château, Nevers) fino a Besançon. Tutta la Maginot era stata presa a rovescio, marciando lungo l’ipotenusa che congiungeva, a occidente della storica linea, i due estremi caposaldi, dalle Ardenne al Giura. Contemporaneamente all’avanzata di Reichenau, il 14 giugno entrava in combattimento anche il Gruppo meridionale delle armate del gen. W. J. F. von Leeb, che dal 10 maggio era rimasto con le armi al piede, in attesa che le armate di von Bock e di von Rundstedt, col movimento e la manovra, completassero le premesse del successo sulla Maginot. Dopo due giorni di lotta accanita contro le più solide opere di fortificazione, l’armata del gen. von Witzleben attaccò frontalmente la Maginot e la sfondò in più settori. In stretta collaborazione con l’esercito, l’aviazione interveniva per contribuire alla rapida espugnazione della Maginot, a sud di Saarbrücken e, più tardi, presso Colmar e Mülhausen.
Lo schema dell’intera campagna di Francia può essere ridotto, dal punto di vista puramente strategico, al tema della battaglia d’Arbela. Vedemmo come la campagna di Polonia fosse stata invece la realizzazione del tipo battaglia di Lanne, che è l’avvolgimento del nemico per mezzo delle due ali. La campagna di Francia fu la realizzazione dell’altro tipo. di battaglia con lo sfondamento al centro, seguito dall’avvolgimento successivo di ciascun’ala dell’armata sfondata. La rottura, che s’ebbe sulla Mosa, tra Dinant e Sedan, fu seguita dall’avvolginunto dell’ala sinistra francese, schierata lungo il corridoio Sedan-Anversa. Lo sviluppo strategico di questo avvolgimento portò ad una battaglia del tipo di Canne, realizzato sulla Manica in meno di tre settimane. Alla ripresa le armate di Rundstedt e di von Leeb organizzarono l’avvolgimento dell’ala destra francese, incardinata alle difese della Maginot. Fra i due grandi avvolgimenti delle ali del primitivo schieramento s’ebbe l’attacco contro la rinnovata ala sinistra francese, appoggiata alla linea Weygand.
Si è molto disputato e ancora si disputerà sulla strategia statica dei Francesi e dinamica dei Tedeschi, sulla legge della guerra nuova escogitata, o quanto meno mirabilmente attuata, dai Tedeschi e appena sospettata dai Francesi. Due furono gli errori gravi commessi dallo stato maggiore di Parigi nei venti anni fra le due guerre; non aver completata la costruzione della Maginot, da Montmédy a Calais e non aver pensato ad armare e ad addestrare l’esercito al combattimento manovrato. Non fu pertanto un errore aver costruita la Maginot, quanto non averla prolungata fino alla Manica e non averle dato profondità. Questa seconda manchevolezza poteva essere eliminata col dotare l’esercito di un armamento adeguato al macchinismo moderno e alle nuove norme d’impiego, congrue alla velocità del carro e alla sua cadenza di fuoco. Lo stato maggiore germanico, pur avendo contrapposto alla Maginot la Siegfried, non si era rassegnato ad ammettere l’immobilità degli eserciti dell’altra guerra come una necessità permanente e insuperabile. Pertanto, mentre i Francesi non abbandonavano mai i loro forti, i Tedeschi erano addestrati anche per il movimento e la manovra, e consideravano le loro opere in cemento solo come accessorî temporanei da utilizzare sotto i bombardamenti più violenti e sotto l’azione di una soverchiante superiorità momentanea nemica.
Nei venti anni fra le due guerre i Tedeschi hanno sempre pensato in che modo superare il punto morto della prima. Hanno posto la loro attenzione sul carro armato, che apparve sui campi di battaglia sul finire del conflitto. Il carro si profilò tecnicamente come uno strumento di combattimento adatto a scalare trincee, a schiacciare siepi di filo spinato, a distruggere nidi di mitragliatrici, a progredire su tutti i terreni. La funzione del carro era quella di aprire la via al fantaccino, perché la fanteria, appoggiata dall’artiglieria, rimaneva pur sempre regina della battaglia. Se notevoli furono in Francia e in Inghilterra i precorrimenti della grande unità corazzata autonoma, nessun corpo militare, come lo stato maggiore germanico, vide con eguale compiutezza e perseguì con pari costanza e spregiudicatezza l’idea di riguardare i mezzi blindati come gli elementi costitutivi di veri corpi di cavalleria corazzata e d’impiegarli come tali nella manovra e nell’inseguimento. La divisione corazzata fu concepita come una grande unità a calibro uniforme, con una velocità e potenza di fuoco superiore a quella di qualunque divisione di fanteria. Poiché lo stato maggiore tedesco aveva fatto della divisione corazzata un organismo tecnicamente e tatticamente autonomo, una tale divisione diveniva lo strumento di guerra destinato non solo ad operare la rottura ma anche, e soprattutto, a sfruttare strategicamente la rottura stessa.
Con unità capaci d’operare in profondità nel dispositivo nemico e d’impedirgli ogni reazione utile, moltiplicando la sorpresa nel tempo e nello spazio, si potevano coniugare i vantaggi di una difesa statica, offerti dalle architetture militari delle Maginot e delle Siegfried. La Francia in tal caso avrebbe potuto difendersi come si difese Roma nei secoli del principato, cioè con l’organizzazione e il sostegno di una cintura d’opere semipermanenti e di strade di collegamento distribuite lungo la fascia confinaria (limes) e presidiate da un esercito di manovra adatto per la sua agilità a combattere contro masse mobili, errabonde e impulsive come quelle dei barbari. Senonché la Francia era caduta in una concezione statica anziché dinamica della fortezza e inoltre si rivelò senza rimedio al di sotto della situazione non tanto nella disponibilità del materiale, quanto nell’idea di una guerra di materiale. La Francia infatti si presentò sui campi di battaglia con un materiale se non qualitativamente pari a quello dei Tedeschi, di certo potente e numeroso, specie per ciò che riguardava l’artiglieria; ma si trattava di un materiale fabbricato e impiegato in vista di «una guerra lenta, metodica, progressiva e micidiale». Insomma, i Tedeschi avevano costruito il loro materiale in vista di una folgorante guerra di movimento, i Francesi col ricordo delle forme di esaurimento della prima guerra; il comando tedesco pensava «motorizzato», quello francese «a piedi».
La strategia della seconda Guerra mondiale ha ripreso per effetto della combinazione Panzer-stukas un andamento scatenato che si traduce in serie di periodi di movimento e di periodi di ristagno necessarî per raggruppare le forze, rintuzzare le offese, riorganizzare le retrovie. La fortezza va concepita, in una tale strategia, come il connettivo nell’organismo, e quindi non come qualche cosa che sia fine a sé stessa, ma come una struttura di sostegno inserita in un complesso di cui è semplice momento e parte. Dal 1918 al 1940 si è dibattuto tacito, ma serrato, il contrasto fra gli stati maggiori francese e tedesco sull’interpretazione statica e dinamica delle fortificazioni. Anche la Germania creò il suo bastione in occidente, come la Francia, ma mentre questa orientava tutta la preparazione in funzione della fortezza, la Germania concepiva la fortezza in funzione di un piano di movimento e d’iniziativa, che l’esercito, foggiato a strumento d’urto, doveva realizzare.
La battaglia di Gran Bretagna. – Hitler, dopo la grandiosa vittoria di Francia, si accinse a conseguirne un’altra più importante contro l’Inghilterra. Churchill non si faceva nessuna illusione: «Siamo sicuri – disse il 4 giugno 1940 – che si adotteranno nuovi metodi (d’invasione), e quando constatiamo l’originalità della cattiveria, l’ingegnosità nell’aggressione che impiega il nostro nemico, dobbiamo certamente prepararci per ogni guerra di stratagemma e per far fronte a manovre brutali e traditrici». Già fin dagli ultimi giorni della battaglia delle Fiandre cominciò a profilarsi la possibilità dell’inizio delle operazioni d’invasione, perché, eliminato l’imponente complesso del Gruppo d’armate n.1, il superstite Gruppo d’armate francesi n. 2 era di così scarsa efficienza che l’OKW poteva anche ordinare una sospensione delle grandi operazioni terrestri per dare inizio a quelle aeree contro l’Inghilterra, salvo a concludere le prime, con certezza di successo, dopo piegata Londra. Per questo, Churchill, nel discorso citato, rilevava che, dopo Dunkerque, «tutti i porti della Manica sono nelle mani del nemico, con tutte le tragiche conseguenze che ne scaturiscono, e dobbiamo aspettarci che un altro colpo sarà vibrato immediatamente contro di noi o contro la Francia».
Ma Hitler sapeva che l’azione contro l’Inghilterra era particolarmente dura. Già durante la crisi cecoslovacca del 1938 («Piano Verde»), in previsione di una possibile estensione del «Piano Verde» alle potenze occidentali, estensione chiamata «Piano Rosso», la direttiva del 25 agosto, a firma di Göring, metteva in evidenza più volte le difficoltà «dell’attacco contro gli obiettivi delle isole britanniche», difficoltà non sottaciute da Hitler stesso il 23 maggio 1939, in una conferenza segreta con i capi militari. In questa stessa conferenza Hitler aveva peraltro detto che «qualora l’Olanda e il Belgio venissero vittoriosamente occupati e tenuti e, ugualmente, la Francia prostrata, sarebbero allora assicurate le condizioni fondamentali per una guerra vittoriosa contro l’Inghilterra». La realtà era andata al di là delle previsioni di Hitler, perché fra il 9 aprile e il 25 giugno, oltre che dell’Olanda, del Belgio e della Francia, i Tedeschi si erano impadroniti anche del vasto litorale dano-norvegese. Questi decisivi successi avevano fatto sorgere, secondo che riferirà il 23 novembre 1943 il gen. Jodl nel discorso ai Gauleiter, «la domanda se sarebbe stato possibile o meno portar la guerra in Gran Bretagna con un grande sbarco».
Tale ipotesi venne studiata nella «Operazione del Leone Marino» (Seelöwe) del 17 agosto 1940. L’Inghilterra era isolata dall’Europa, praticamente caduta in possesso della Germania (fatta eccezione della Russia, che non poteva per altro comunicare in modo efficiente con le isole britanniche), ma non era sola. Erano giunti a Londra «messaggi espressi nei termini più commoventi, in cui (come diceva Churchill il 18 giugno 1940 ai Comuni) le grandi comunità d’oltre mare facevano propria la nostra decisione di continuare a combattere, e si dichiaravano pronte a condividere le nostre fortune e a perseverare fino alla fine». Contro la flotta britannica la tedesca nulla poteva, come riconscevano anche l’OKW e i capi della Kriegsmarine; pertanto la sostanza della strategia germanica contro l’Inghilterra fu imperniata sull’aviazione. La difesa dell’isola, secondo le ricordate dichiarazioni di Churchill del 18 giugno 1940, ammontava a 1.200.000 uomini, cui bisognava aggiungere i 500.000 «volontarî della difesa locale, armati solo di fucili o di altre armi da fuoco». Se l’esercito d’urto avesse disposto di moderno armamento blindato e di valide artiglierie, Churchill non lo avrebbe taciuto per far colpo sui Tedeschi; mentre invece solo 12 divisioni erano equipaggiate per il combattimento. Il rimanente delle forze aveva un’efficienza combattiva assai limitata. L’Inghilterra disponeva infatti, all’inizio della battaglia aerea dell’8 agosto, di circa 50 carri di materiale eterogeneo, costituito da carri di 6-11 t., con cann. di 4,7 cm., già in dotazione presso le «Mechanised Mobile Division» del corpo di lord Gort, da «Bren Gun Carrier», da tankettes e da «Garden-Loyd», cioè da carri di circa 4 t. Disponeva infine di soli 250 cannoni, molti dei quali antiquati e «alcuni ritirati dai musei o dai monumenti ai caduti».
Rimarrà pertanto un fenomeno sempre sorprendente e di ardua spiegazione quello per cui l’OKW sopravvalutasse tanto le forze dell’esercito inglese, fino ad attribuirgli, oltre gli effettivi per 1.700.000 uomini, materiali sufficienti «per 35 divisioni di fanteria attiva e motorizzata» e ben due divisioni corazzate in piena efficienza. Una così esagerata valutazione delle forze nemiche indusse Hitler e il gen. Jodl, autori del piano «Leone Marino», a concepire l’esercito d’invasione su scala così grande da implicare necessità logistiche sproporzionate ai mezzi della marina tedesca e insieme da esigere la piena padronanza del cielo della Manica, in modo da interdirla alla marina britannica.
Già fin dal 16 luglio Hitler intendeva invadere l’Inghilterra. I preparativi dovevano essere ultimati entro la metà d’agosto. La direttiva del Leone Marino» prevedeva due sbarchi principali, che dovevano essere effettuati dal Gruppo d’armate A (maresciallo von Rundstedt), costituito dalle armate 16ª e 9ª. La prima, alle dipendenze del col. gen. Busch, salpando da Ostenda, Calais, Boulogne, doveva attestarsi sulle coste del Kent e del Sussex, fra Margate e Portsmouth. Truppe aerotrasportate dovevano atterrare dietro la testa di ponte di Brighton, per cercare di stabilire il congiungimento fra le due armate del gruppo A. Completato lo sbarco del gruppo A, doveva entrare in azione il gruppo B, che, salpando dalla penisola di Cherbourg, doveva sbarcare nella baia di Weymouth. Il primo obiettivo del gruppo d’armate A era la linea che da Tilbury, sull’estuario del Tamigi, doveva passare per Maidenhead (a circa 30 km. a occidente di Londra) e discendere a sud-ovest, fino a raggiungere Portsmouth e Southampton. La capitale, in questa prima fase, non sarebbe stata occupata, ma serrata da vicino, dalla 9ª armata del col. gen. Strauss, nel versante meridionale e tagliata fuori, con la congiungente estuario Tamigi-Portsmouth, da ogni contatto con lo specchio d’acqua intorno al Canale. Questa grandiosa operazione di attestatura sarebbe stata presto seguita dall’attacco principale, che doveva svolgersi a occidente della capitale, fra Londra e Reading. Scopo di quest’ultimo era di spingersi verso il nord, per tagliare la grande città da ogni contatto con i porti dell’ovest e le contee industriali del centro e del settentrione. A questo punto, il Gruppo d’armate B (maresciallo von Bock), sbarcato nel Dorset, con l’impiego della 6ª armata del maresciallo Reichenau, doveva assumersi il compito di tagliare alla base la penisola di Cornovaglia, portandosi a Bristol, al fine di prolungare verso il nord, su più vasto raggio e in concomitanza col gruppo A, l’azione aggirante del gen. Strauss. Una volta accerchiata, Londra doveva esser presa d’impeto, mentre grossi reparti, lanciati al di là dei due gruppi d’armata nei Midlands, nel Galles meridionale, nel Lancashire, nello Yorkshire e nei porti più importanti, avrebbero favorito con la distruzione e la morte una più profonda penetrazione. Questo vasto insieme d’operazioni richiedeva, secondo i calcoli di Jodl, l’impiego di circa 35 divisioni, delle quali 6 corazzate e due motorizzate, oltre l’impiego di paracadutisti, di truppe aerotrasportate di armi antiaeree.
Perché un così importante insieme d’uomini e di mezzi potesse sbarcare e godere della garanzia dell’alimentazione, era necessario assicurarsi un sufficiente dominio del mare, sia pure su breve spazio, fra le due coste. Data la netta sproporzione fra la Royal Navy e la Kriegsmarine, non era possibile conseguire un tale scopo se non conquistando il dominio dell’aria, in modo da ripetere intorno a Calais e a sezioni della Manica la situazione d’assoluto predominio, già goduta dalla Luftwaffe sullo Skager Rak. «Le forze aeree inglesi, scriveva Hitler nel ricordato documento segreto del 16 luglio, dovranno essere colpite moralmente e fisicamente, al punto di non potere offrire sufficiente resistenza all’attacco tedesco. Gli sbarramenti di mine dovranno chiudere completamente lo stretto di Calais e lo sbocco occidentale della Manica. Le forze navali inglesi dovranno essere contenute nel Mare del Nord e nel Mediterraneo dagli Italiani... Il maggior numero possibile di cannoni pesanti dovrà assicurare la traversata, l’artiglieria ferroviaria dovrà spingersi in direzione di Dover e far fuoco sul suolo inglese».
Fra queste varie operazioni, quella che contemplava la battaglia risolutiva con la RAF appariva difficile, forse più della stessa campagna d’occidente, perché nella lotta intorno a Dunkerque (v. in questa Appendice) la caccia nemica aveva rivelato alte qualità nel personale e nelle macchine. In effetto la RAF, quantitativamente poco sviluppata, raggiungeva l’eccellenza per la qualità della caccia, l’addestramento degli equipaggi e la messa a punto del radar, con l’impiego del quale si riusciva a sapere sempre esattamente la posizione e il numero delle squadriglie nemiche, sopprimendo il logorante servizio delle squadriglie di copertura, con una notevole economia delle forze e soprattutto la certezza quasi completa di realizzare la sorpresa, quali che fossero le precauzioni del nemico.
Se l’OKW ignorava l’uso del radar da parte del nemico, conosceva il suo personale e le sue macchine, il suo proposito ostinato, le sue forze immense, realizzabili e concentrabili nell’isola entro un tempo piuttosto breve. Pertanto, subito dopo l’euforia della vittoria di Francia, i Tedeschi si misero a costruire nei territorî occupati piste di decollaggio, hangars, posti di radio, e a concentrare nei porti della Manica piroscafi, motozattere, rimorchiatori, barconi fluviali sottratti al traffico interno della Germania, del Belgio e dell’Olanda. In poco più di un mese tutto era pronto per l’attuazione del piano, che mirava, in un primo momento, a dare all’aviazione tedesca la padronanza del cielo della Manica e dell’Inghilterra sudorientale, quindi a neutralizzare l’intervento della flotta inglese e infine a realizzare lo sbarco della Wehrmacht. Col suo discorso del 19 luglio al Reichstag, Hitler ruppe il silenzio del mondo, che attendeva l’invasione offrendo proposte di pace all’Inghilterra. Queste proposte furono avanzate perché il Cancelliere non voleva rimproverarsi di aver trascurato di mettere gli imponderabili nel suo campo, alla vigilia della più grande impresa militare dell’Europa moderna. Se, com’era quasi certo, il primo ministro britannico non si fosse mostrato disposto «a salire il calvario della capitolazione», sarebbe riuscito facile al capo tedesco rinfocolare l’odio dei nazisti e chiamarli ad abbattere l’ostinata «Cartagine bellicista».
Ma la Luftwaffe non si presentava intatta al cimento da cui dipendeva la sorte della guerra: nelle due battaglie della Manica e di Francia aveva perduto più di 1000 apparecchi, in gran parte sotto i colpi della caccia francese, che col suo sacrificio totale faceva sentire, anche dopo l’armistizio di Rethondes, i benefici sul corso del conflitto. Contro una massa di 5000 aerei di prima linea, l’Inghilterra affrontava l’8 agosto l’urto supremo con meno di 700 caccia, in gran parte formati da Hurricane che, bene armati, protetti e maneggevoli quanto gli Spitfire, erano a questi inferiori per non meno di 50 km. di velocità oraria. Alle macchine di qualità della RAF, Göring opponeva i suoi caccia monomotori Messerschmitt ME 109 e bimotori ME 110. I Messerschmitt erano armati meglio degli stessi Spitfire e più veloci degli Hurricane, ma molto meno maneggevoli dei due tipi d’aerei britannici. La caccia tedesca accompagnava i convogli incursori dei bombardieri in picchiata: «il problema della caccia inglese consisteva nell’impegnare i cacciatori tedeschi di protezione con una parte dei suoi effettivi e nel distruggere con il resto i bombardieri, incapaci di difendersi da soli».
<subpar>La lotta ebbe inizio l’8 agosto e si concluse, attraverso quattro fasi, il 31 ottobre 1940, con l’insuccesso tedesco (v. inghilterra). Più ragioni concorrono a spiegare questo insuccesso: prima fra tutte, il ritardo nel dare inizio all’offensiva. I preparativi forse avrebbero potuto essere accelerati guadagnando qualche settimana preziosa, ma la meticolosità organizzativa dei Tedeschi ebbe la sua parte nell’allungamento dei tempi. D’altronde questa metodomania trovava la sua giustificazione nel fatto che la preparazione, costantemente realizzata fino allora secondo rigorosi principî normativi, aveva permesso poi di conseguire i più rapidi e clamorosi successi. Nella lotta che si stava per impegnare, tutto persuadeva a non lasciare nulla affidato al caso, affinché la fase più ardua e conclusiva della guerra non fosse compromessa dall’improvvisazione. Contribuì anche all’insuccesso, come già accennato, l’esagerata valutazione delle forze terrestri a difesa dell’isola, perchè lo stato maggiore di Göring s’impose di garentire alla Wehrmacht un predominio del cielo sul Canale e sull’Inghilterra sud-orientale più esteso nel tempo e nello spazio di quello effettivamente richiesto per aver ragione dei mezzi modesti della Home Guard. Inoltre, nella difesa dell’isola gli Inglesi furono favoriti da vantaggi maggiori di quelli goduti nei combattimenti intorno a Dunkerque, perché tutte le loro macchine danneggiate e tutti gli uomini che scendevano in salvo (ed è sorprendente quanti uomini e macchine danneggiate si salvino nella guerra aerea moderna), cadendo su suolo amico, potevano combattere ancora, mentre tutte le macchine tedesche danneggiate (e furono migliaia al 27 settembre, ultimo giorno dei rovinosi attacchi diurni in massa) e i loro equipaggi cosituivano una perdita assoluta.
Un’altra ragione importante concorre a spiegare la vittoria degli inglesi. La Germania (come la Francia, la Russia, l’Italia, e il Giappone) è rimasta sempre priva durante il conflitto di una vera e propria aviazione strategica. L’aviazione tedesca disponeva di bombardieri in volo orizzontale (Heinkel 111: 440 km. all’ora e Dornier 17:490 km.) e di bombardieri a tuffo (Junkers 87:385 km. e Junkers 88:500 km.). Per le deficienze proprie del bombardamento in quota, il primo tipo di bombardiere era poco efficace nell’attacco contro bersagli ristretti, come gli obiettivi industriali, mentre il secondo tipo, efficacissimo nell’attacco a bassa quota contro truppe, apprestamenti difensivi e convogli, conseguiva scarsi risultati contro gli aerodromi, le basi d’idrovolanti, le vie di comunicazione, i magazzini generali, le officine, le strade strategiche, le stazioni ferroviarie e i diversi obiettivi della vita civile e militare. Inoltre, siccome la Luftwaffe era stata concepita dall’OKW come arma prevalentemente tattica, i suoi bombardieri non disponevano di autonomia utile per colpire i centri più diversi e più lontani dell’industria di guerra britannica. Pertanto l’aviazione di Göring, messa alla prova, si rivelò impotente a sottoporre l’intero territorio nemico ad attacchi pesanti, prolungati e precisi contro obiettivi accuratamente scelti. Siccome i bombardieri tattici tedeschi non erano in grado di raggiungere sistematicamente e in formazioni massicce le zone centro-settentrionali della Gran Bretagna, il Fighter Command aveva finito col concentrare il grosso delle squadriglie nelle regioni meridionali, dove più efficacemente si applicava lo sforzo della Luftwaffe.
Inoltre gli Inglesi, prevedendo di dover combattere sul continente a fianco di una grande potenza militare come la Francia, avevano concepita la RAF prevalentemente come arma strategica, lasciando i compiti tattici all’aviazione francese. In conseguenza, gli apparecchi da bombardamento della RAF erano in grado di raggiungere in grandi formazioni qualunque centro industriale tedesco; e siccome gli Inglesi avevano pensato che la stessa cosa avrebbero fatta i Tedeschi, data in specie la loro concezione della Luftwaffe come arma indipendente, organizzarono una poderosa caccia, la migliore del mondo, capace di limitare sul proprio territorio l’offesa nemica. Senonché avvenne che quando la Luftwaffe fu impiegata per la prima volta come arma esclusivamente strategica, rivelò tutte le sue deficienze, d’autonomia, di protezione, d’armamento, di velocità, e la scarsa manegevolezza, deficienze che il vittorioso impiego di dieci mesi aveva soltanto mascherato. In definitiva, la caccia inglese risultò superiore alla tedesca in misura apprezzabile e in netto vantaggio di combattimento sull’aviazione da bombardamento nemica. Infine va rilevato che la piccola flotta aerea inglese s’avvantaggiava sulle altre di un particolare pregio d’addestramento: quello dell’impiego indipendente, mentre nella Luftwaffe, operativamente s’era finito col far prevalere il principio direttamente collaborativo dell’arma aerea con l’esercito, al punto da subordinare nell’impiego la prima alla seconda arma. Ma contro la Gran Bretagna la flotta aerea era chiamata a un compito nuovo, cioè a un compito indipendente, sul piano tattico-strategico. Per dare alla Luftwaffe il necessario nuovo addestramento per l’impiego indipendente si spese del tempo e non si raggiunse a pieno lo scopo, cosicché la RAF, disponendo di macchine adatte e di uomini a lungo addestrati all’impiego esclusivo dell’aviazione come arma strategica, riuscì a prevalere.
Il fallimento della battaglia aerea di Gran Bretagna ebbe un effetto risolutivo. Questa battaglia può essere paragonata per la portata e le conseguenze a quella della Marna, e per le dimensioni delle forze impegnate, la perseveranza nell’attacco e nella difesa (con la coscienza da parte dei contendenti di decidere per decennî col destino proprio quello dell’umanità) alla battaglia di Verdun.
L’intervento dell’Italia. – Mentre oltr’Alpe i grandiosi eventi del crollo dell’Olanda, Belgio, Francia si saldavano all’epica battaglia dell’assedio aereo di Gran Bretagna, il 10 giugno l’Italia dichiarava la guerra alla Francia e all’Inghilterra.
L’Italia, certo, avrebbe giovato all’Asse più con l’astensione che con la partecipazione alla guerra. Infatti, eliminata la Polonia, gli Anglofrancesi, per molto tempo, poco avrebbero potuto concludere contro la Siegfried a causa del loro scarso potenziale d’attacco in aero-carri e artiglierie. E non solo nel Baltico, ma nemmeno nel Mare del Nord, nonostante la loro superiorità nella flotta di superficie, avrebbero potuto intraprendere altro che incursioni contro le brevi e munite coste del chiuso golfo tedesco. L’intervento dell’Italia invece avrebbe offerto possibilità insospettate ai nemici, essendo la sua posizione geo-strategica all’antitesi di quella della Germania. Questa si estendeva infatti con tutto il suo territorio nel cuore d’ Europa, affacciandosi al mare solo con una baia stretta e profonda; dall’oriente era inaccessibile a causa del crollo della Polonia e dell’«amicizia» con la Russia, ed ugualmente inaccessibile era dall’occidente, a causa del possente binomio Wehrmacht-Siegfried. Non v’era che una sola via aperta agli Anglofrancesi sulla Germania: quella dell’aria, ma ci volevano alcuni anni prima che gli Alleati fossero in grado di tentarla con voli massicci. L’ Italia invece aveva le sue terre metropolitane e coloniali distese lungo una linea ortodromica di circa 8000 km., quasi tutte protese sul mare, e perciò esposte all’offesa della coalizione nemica forte di una flotta cinque volte superiore. Tutta l’Africa Orientale, una volta recise le comunicazioni con la madrepatria, sarebbe andata irrimediabilmente perduta; la Libia avrebbe viste le sue vie di rifornimento minacciate dalle basi fiancheggianti di Malta e di Biserta, e avrebbe potuto correre rischi mortali se, nell’inazione operativa contro la Germania, gli Anglofrancesi si fossero decisi ad un attacco sincronizzato lungo le due frontiere di Tunisia e d’ Egitto. Il territorio metropolitano poi si trovava assediato strettamente con le basi di Tolone e i punti d’appoggio della Corsica, della Tunisia, di Malta, a prescindere da basi nascoste o palesi che potevano concedere la Grecia e forse la Iugoslavia. Questo cerchio ravvicinato si giovava di quello di rinforzo a più largo raggio, costituito dalle basi di Gibilterra, d’Alessandria e delle altre, quasi altrettanto munite, del Marocco, dell’Algeria e della Siria.
C’era poi da tener presente che la guerra discriminava spietatamente i popoli in base a quei rapporti di forze militari, già esaltati da Mussolini, ma dal medesimo ora temuti, perché la guerra era scoppiata tre anni prima del periodo di pace, necessario all’Italia per ricostituirsi. Dopo la campagna folgorante di Polonia, Mussolini non poteva farsi più illusioni sulla differenza di potere aero-terrestre fra Roma e Berlino; perciò solo teoricamente si poteva parlare di parità di diritti tra i due soci e di un mondo diviso in zone d’influenza, con la pianura russa e l’Atlantico alla Germania, il Mediterraneo, l’Africa e l’Oceano Indiano all’Italia. Di qui un’insolita misura nei discorsi del capo del governo fascista e nella propaganda degli organi del potere durante i primi sette mesi di non belligeranza, cioè fino all’impresa di Norvegia. Questa apparve come una leggenda e scosse l’opinione, perché questa volta il successo non era stato conseguito, come in Polonia, su di un avversario di tanto più debole e dato per battuto in partenza, ma su di un nemico che, almeno sul mare, era di gran lunga più forte, e da cui pertanto ci si aspettava, dopo la sorpresa iniziale, una reazione vittoriosa. Senonché, siccome il potere navale si stava trasformando (e vieppiù si sarebbe in seguito trasformato) in potere aero-marittimo, la Gran Bretagna, molto più debole nei cieli lontani dello Skager, aveva dovuto abbandonare quel braccio di mare al controllo nemico. Si trasse allora in Italia un’illazione non del tutto affrettata e superficiale, in virtù della quale si credette di poter ripetere nei nostri mari, sul canale di Sicilia e nel Mediterraneo centrale, una situazione singolarmente assimilabile a quella dello Skager Rak.
Sull’epilogo della sconcertante occupazione di Norvegia s’innestò il crollo dell’Olanda, avvenuto in tre giorni, del Belgio, in diciotto giorni, e la cattura delle armate francesi del nord e la ritirata dell’intero corpo di spedizione britannico battuto, in soli ventiquattro giorni. L’ Italia non era pronta a un grande sforzo militare e tanto povera da non essere in grado di mobilitare completamente; ma dopo le capitolazioni dell’Olanda e del Belgio e dopo la tragedia delle Fiandre, l’Italia rischiava di non aver voce in capitolo nell’imminente resa della Francia. Per altro se il mondo libero trepidava per l’Inghilterra e per sé stesso, proprio per questo sembrava imporsi la guerra al secondo stato totalitario, a tutela del suo onore e dei suoi interessi. La data per l’intervento, in un primo tempo fissata per la primavera del 1941, fu da Mussolini, dopo la campagna di Norvegia, anticipata ai primi di settembre del 1940. Dopo la conquista dell’Olanda, la resa del Belgio, l’invasione della Francia e la situazione generale che si era determinata, fu anticipata al 5 giugno.
La battaglia delle Alpi occidentali. – Il precipitare degli avvenimenti in Francia diede carattere d’urgenza alle operazioni sul fronte alpino: ma è chiaro che, anche prescindendo da considerazioni etico-politiche, dal punto di vista militare, quelle operazioni non hanno influito sul destino della Francia. Questa infatti allineava sulle Alpi al momento delle ostilità una forza reale, secondo ammissione da parte francese, di circa 200.000 uomini, dei quali 90.000 di prima linea e gli altri di riserva e addetti ai servizî. Poiché il nucleo di combattimento di queste forze era formato da unità di fanteria statica, cioè di battaglioni di cacciatori di fortezza, anche se questo nucleo, con tutte le sue unità di rinforzi e di servizî, avesse potuto partecipare alle operazioni del nord, il decorso della battaglia della Manica e di Francia non avrebbe subìto alterazioni di pratica portata, trattandosi di truppe inadatte per addestramento, armamento e mezzi logistici alla manovra e all’urto coi mezzi blindati. La neutralità benevola dell’Italia nel 1914 potè contribuire agli eventi che portarono alla controffensiva della Marna, perché si era trattato di assicurare un apporto a formazioni impegnate in una battaglia combattuta da forze omogenee; ma nel 1940 la Francia era dominata da procedimenti e da mezzi di combattimento a cui non aveva da opporre nulla di equivalente.
Inoltre, lo scacchiere occidentale del teatro alpino, per la natura del terreno, le predisposizioni difensive del nemico e la lontananza d’importanti obiettivi, non si prestava al rapido raggiungimento di risultati di reale importanza. Infine, colti impreparati dal celere ritmo della campagna dell’ovest, nei giorni successivi alla dichiarazione di guerra gli Italiani continuarono i lavori per il completamento delle unità e dei servizî. Le operazioni della battaglia (v. alpi, in questa App.) cominciarono solo il 21 e, dopo aver realizzato progressi locali, si conclusero il 23 giugno.
<subpar>Le operazioni nel Mediterraneo. – All’entrata in guerra dell’Italia la situazione navale si presentava preoccupante, perché alle 11 corazzate del nemico essa poteva opporne 2 (dato che altre 4 corazzate, due di nuova costruzione e due rimodernate, potevano entrare in squadra solo entro due mesi); contro 3 portaerei nessuna; contro 7 incrociatori di categoria A, 7; contro 16 incrociatori minori, 12 e contro 63 caccia e torpediniere, 40. Senonché l’immediata capitolazione della Francia liberò l’Italia dalla grave minorazione del tonnellaggio e delle basi. La flotta inglese, rimasta sola, si ritrasse alle due estremità del Mediterraneo, non perché inferiore alla italiana per potenza navale, ma perché inferiore per potere aereo nello specchio centrale del mare interno. La Gran Bretagna, infatti, doveva concentrare la quasi totalità della sua aviazione nei due punti focali determinati dall’allargamento progressivo della guerra: le isole metropolitane e l’Egitto. Perciò sul cielo del Mediterraneo centrale s’era formata una situazione analoga a quella dello Skager Rak. Il Mediterraneo rimase stabilizzato per vario tempo con una superiorità aero-navale dell’Italia al centro e dell’Inghilterra alle due estremità (la preponderanza britannica era assicurata in specie dalla stretta collaborazione con cui agivano navi e aerei). Il controllo del Mediterraneo centrale era rafforzato da parte italiana con l’interdizione del passaggio del canale di Sicilia mediante linee continue di sbarramenti di mine tra Pantelleria e la Sicilia e mediante azioni di contrasto con mezzi fissi e mobili fra Pantelleria, Lampedusa e Kerkenach (Tunisia meridionale). Pur non potendo conseguirsi in modo assoluto l’interdizione del transito del canale, a causa della superiorità navale inglese e della vicinanza di Malta, tuttavia lo sbarramento, rappresentando per il nemico un grave rischio, tagliava in due il Mediterraneo, consentendo alla marina italiana possibilità di manovra strategica fra i due scacchieri d’oriente e d’occidente.
Tuttavia non fu mai contemplata in Italia l’ipotesi di una risoluta azione offensiva, sfruttando la situazione iniziale strategicamente favorevole, come i Giapponesi nella guerra contro la Russia a Chemulpo e a Port Arthur, e come avrebbero fatto contro gli Stati Uniti a Pearl Harbour. Ma il Giappone, per giungere ai risultati di Pearl Harbour, aveva compiuto una lunga preparazione che realizzava la collaborazione più compiuta fra le forze aeree e marittime. L’Italia, invece, non aveva mai pensato a organizzare nulla che potesse assicurarle un successo iniziale, quando invece soltanto una tale iniziativa, colpendo mortalmente la flotta inglese d’Alessandria o di Gibilterra (possibilmente tutte e due), poteva assicurarle per un lungo periodo una superiorità, da sfruttare per l’occupazione di Malta e la conquista dell’Egitto. Invece fin dall’inizio ci si mise sulla difensiva entro il perimetro geografico del Mediterraneo centrale, e ci si limitò a proteggere il traffico con la Libia e a tentare, quando negli anni successivi se ne presentò l’opportunità, qualche colpo spicciolo con i «mezzi d’assalto» contro navi da guerra e mercantili alla fonda a Gibilterra e ad Alessandria. S’ebbe qualche successo apprezzabile nella baia di Suda il 26 marzo 1941 (affondamento dell’incrociatore York di 8250 t. con 6 cann. da 203, una petroliera di 20.000 t., un trasporto truppe di 12.000 t.), a Gibilterra con il tentativo di fine 1941 (affondamento contemporaneo di 5 piroscafi), ben più, ad Alessandria con l’iniziativa del 18 dicembre dello stesso anno, allorché «bombe adesive, applicate con straordinario coraggio e ingegnosità agli scafi delle corazzate Valiant e Queen Elisabeth, provocarono alle due navi larghe falle», com’ebbe a dichiarare Churchill il 23 aprile 1942 ai Comuni, convocati in seduta segreta. Ma si trattava di successi, bensì ammirevoli per ardimento di tecnica e di coraggio, impotenti per altro a conseguire quella distruzione su vasta scala delle forze avversarie, necessaria per influire in modo determinante sugli sviluppi della guerra.
Quest’obiettivo essenziale non fu possibile raggiungerlo neppure coi sottomarini, pur avendone a disposizione 109 contro 8 nemici. I sommergibili italiani non poterono conseguire risultati notevoli in Mediterraneo perché, entro la terza decade d’aprile del 1940, l’ammiragliato inglese aveva già deciso il dirottamento delle navi mercantili. Così, in conseguenza di queste disposizioni precauzionali, prese con circa 40 giorni d’anticipo dalla maggiore potenza marittima, questa non subì praticamente danni, mentre l’Italia, precipitando l’intervento al 10 giugno senza attendere il limite di tempo per il rientro del naviglio d’oltre Mediterraneo, andò incontro alla perdita iniziale di 1.215.087 t., cioè del 35% dell’intero tonnellaggio mercantile. Sull’andamento della sopravvenuta guerra lunga ebbe conseguenze gravissime questa perdita iniziale, dato anche l’alto valore qualitativo di quel naviglio. Sottratto il traffico da trasporto inglese nel Mediterraneo, i sommergibili italiani si trovarono di fronte alle navi da guerra o ai rari convogli che si recavano a Malta formidabilmente scortati. S’aggiunga che la marina britannica sopravanzava di molto quella italiana nei progressi tecnici, capaci d’aumentare la potenzialità delle navi; in particolare disponeva di una temibile preparazione contro la minaccia subacquea, possedendo mezzi perfezionati, come l’«asdic», per la scoperta e la caccia dei sommergibili.
Mancata la grande azione iniziale di sorpresa e venuta meno la possibilità di un impiego redditizio dei sottomarini, l’Italia dovette condurre la guerra secondo direttive che meno richiedevano d’immaginazione e d’audacia. Con le due squadre, in cui operativamente rimasero a lungo divise le forze navali italiane con il dispositivo del canale di Sicilia, con la superiorità aerea nell’Italia del Sud e in Libia, si riuscì a neutralizzare in parte Malta e a proteggere i trasporti in Cirenaica, dove si preparava, dopo il crollo della Francia l’offensiva verso l’Egitto. Però, quando l’Inghilterra aveva bisogno di penetrare nella zona del Mediterraneo centrale per rifornire Malta, per insidiare le comunicazioni con la Cirenaica o per contrastare i movimenti della flotta italiana, poteva sempre farlo, e anche con vantaggio, data la superiorità dei suoi due gruppi di corazzate (Hood, Valiant, Resolution, di base a Gibilterra, e Warspite, Royal Sovereign, Malaya, di base ad Alessandria) e dell’azione, in stretta correlazione con queste navi, dell’aviazione marittima. Le battaglie di Punta Stilo (8-9 luglio 1940) o della Calabria (come la chiamano gli Inglesi) e quella di Capo Spada (19 luglio 1940) misero in evidenza la superiorità che al nemico davano le corazzate e, più ancora, la tempestività dell’intervento nel combattimento da parte dell’aviazione. Nelle battaglie citate, come in quella di Capo Teulada (27 novembre 1940) o di Capo Spartivento sardo (per gli Inglesi), si scontarono gli errori di quella dottrina, secondo la quale non c’era bisogno di realizzare la cooperazione aerea con le forze navali, assegnando a loro squadriglie d’aviazione ausiliaria, perché nel corso delle operazioni «non un’aliquota, ma tutta la aviazione sarebbe stata pronta a cooperare». In particolare poi, ad una nazione come l’Italia le portaerei apparivano inutili, perché i velivoli delle basi costiere potevano controllare tutto il Mediterraneo. Non si tenne conto che, per agire in modo redditizio sul mare, le forze aeree dovevano essere dotate di apparecchi di punteria giroscopici per eseguire il bombardamento d’alta quota e dovevano sottoporre il personale navigante ad uno speciale addestramento per abituarlo ad eseguire azioni contro bersagli in movimento ad alta velocità variabile e a riconoscere i varî tipi di navi. Non venne sufficientemente considerato il problema della tempestività dell’intervento dell’aviazione da caccia e da bombardamento durante le varie fasi della battaglia navale. Così accadde che la ricognizione aerea italiana mancasse del tutto all’inizio dello scontro come alla battaglia di Capo Teulada, o nella fase culminante, come a Punta Stilo: gli aerei da caccia e da bombardamento intervennero a Punta Stilo dopo le ore 16 del 9 luglio, allorché il combattimento era cessato. In questa battaglia si giunse al punto che non s’ebbe la cooperazione della caccia, anche quando le forze navali furono in vicinanza delle proprie coste. Alla battaglia di Capo Matapan (27-28 marzo 1941) avvenne poi che, nonostante gli espressi accordi col Corpo Aereo Tedesco (CAT), l’appoggio sia diretto sia indiretto dell’aviazione mancasse del tutto, pur essendo tanto critica la situazione della squadra italiana. Nessun velivolo giunse dalle basi di terraferma sul cielo delle navi, cosicché, in definitiva, data la mancanza d’aviazione, gl’Italiani subirono la sorpresa anziché realizzarla, come in programma, a danno del nemico. Due furono i fattori preminenti della vittoria inglese a Capo Matapan: l’aviazione e il radar. Il potere aeronavale nemico causò l’insuccesso italiano, l’impiego del radar nella notte consumò il disastro.
La marina britannica, invece, a parte l’applicazione del radar, che fu impiegato per la prima volta negli scontri navali alle 22,30 del 28 marzo 1941, fece di tutto per assicurare in qualunque circostanza la correlazione aeromarittima. A tal fine, nonostante la creazione di una forza aerea indipendente, la RAF, conservò sempre un’aviazione della flotta, la Fleet Air Arm, vale a dire l’aviazione imbarcata che dipendeva esclusivamente, anche dal punto di vista amministrativo, dall’Ammiragliato. Così, grazie alle portaerei, le marine più avvedute poterono incorporare in sé stesse le sole forze aeree veramente mobili, le sole nelle quali le basi aeree sono, come gli aerei, capaci di muoversi rapidamente, godendo così di tutti i vantaggi offensivi della mobilità, tra i quali, decisivi, la facilità di concentrarsi e di realizzare la sorpresa. In tal modo la flotta inglese poté contare in ogni fase dei combattimenti sull’intervento di velivoli delle sue portaerei, mentre da parte italiana «non si potrà fare affidamento sul concorso di velivoli da caccia costieri, se non in circostanze particolari». Lo sfasamento di cooperazione fra le forze navali e aeroterrestri era dato dalla somma dei tempi che occorrevano al comando navale per rivolgere la richiesta al comando aeronautico, quindi le ritrasmissioni ai comandi sottoposti fino ai comandi delle squadriglie d’esecuzione, quindi il tempo per iniziare l’esecuzione e quello necessario agli aerei per portarsi sul luogo. Nelle situazioni più favorevoli occorrevano due ore per lo svolgimento del ciclo descritto. Poteva darsi poi che, siccome il comando aereo aveva molte richieste da altre forze marittime, nonché da forze terrestri e, siccome il comando aereo era del tutto indipendente da quello marittimo, il primo comando si riservasse un giudizio di situazione per stabilire, fra le richieste da soddisfare, una gerarchia delle urgenze. Infine, le forze aeree moventi da basi costiere erano sempre sottoposte al rischio di condizioni meteorologiche avverse sulle zone di partenza.
Tenuto presente tutto questo, si comprenderà perché il dominio aereo generale italiano sul Mediterraneo centrale risultasse per molta parte inefficiente durante gli scontri navali, nel corso dei quali talvolta anche i minuti hanno importanza risolutiva. Poiché il dominio dell’aria, come quello del mare, non si risolve di necessità nella presenza continua e in forze preponderanti dovunque da parte del più forte, fu possibile l’11 novembre 1940 contro le navi concentrate a Taranto l’attacco di sorpresa che l’aviazione navale inglese preparava da tempo, in base alle fotografie ricavate nelle ricognizioni aeree. Così, non avendo mai pensato a organizzare una Pearl Harbor, non essendo mai riusciti a occupare Malta, data l’inferiorità italiana nelle corazzate e più ancora nella cooperazione aerea in considerazione delle gravi perdite subìte a Taranto e a Capo Matapan, ben presto avvenne che l’aeronautica e la marina dovettero adottare il criterio della difensiva di stretto raggio. Il compito più importante del conflitto divenne quello della protezione del traffico con l’Africa settentrionale, traffico esposto alle offese concentrate provenienti da Alessandria, Gibilterra e, più ancora, da Malta, che fiancheggiava così da vicino le rotte per Tripoli e Bengasi. Pur essendo esposte alle offese aeromarittime, le comunicazioni italiane, però, fino all’abbandono dell’Africa rimasero aperte; altrettanto avvenne di quelle britanniche con Malta, nonostante tutto l’impegno dell’Asse per tagliarle. Così, fino alla caduta della Tunisia, la guerra aeromarittima d’Italia e poi dell’Asse nel Mediterraneo gravitò intorno ai due fuochi operativi della Libia e di Malta, sforzandosi ciascun contendente di tener aperte le proprie vie di comunicazione e di chiuderle all’altro.
La guerra in Africa. – L’entrata dell’Italia nel conflitto portò per la prima volta l’Asse a contatto terrestre con l’impero britannico in Egitto, nel Sudan, nell’Uganda, nel Kenya, in Somalia, per una frontiera di circa 6000 km. La situazione dell’Inghilterra, dopo la caduta della Francia e l’intervento italiano, s’era fatta all’improvviso grave, non tanto nelle sue colonie limitrofe all’Etiopia, quanto in Egitto, dove, nonostante l’importanza politico-strategica di quella cerniera delle due parti d’impero a oriente e a occidente del canale di Suez, pure gli Inglesi disponevano appena di 20.000 uomini, appoggiati da 150 vecchi aerei. Tenendo poi presente il fatto che, crollata la Francia, tutte le forze della Germania erano tese a organizzare l’attacco contro la Gran Bretagna, si può concludere che la situazione degl’Inglesi in Egitto fosse delle più oscure e incerte. Tuttavia, questa loro situazione era suscettibile di una sorprendente ripresa, perché se le forze sul Nilo e nelle colonie limitrofe all’AOI, al momento delle ostilità, erano scarse, le forze in potenza nella comunità imperiale erano immense. Per di più, queste forze potevano esser messe in valore da quella concezione mondiale della strategia, che ha sempre consentito agl’Inglesi di collocare al posto esatto i diversi teatri d’operazione.
La campagna dell’Africa Orientale. – In queste lontane regioni lo stato maggiore britannico, per guadagnare tempo e per risparmiare energie e uomini, si difese, come sempre, con l’abbandono delle zone più minacciate dalla superiorità iniziale delle forze italiane. Così furono evacuate Cassala, Gallabat e il posto di Kurmuk, il cuneo di Moyale, nella Northern Frontier del Kenya, e tutta la Somalia, dove i 2000 uomini scarsi del Somaliland Camel Corps non potevano tenere contro un’armata di circa 25.000 uomini, ripartita su tre colonne. Il 19 agosto 1940 gli Italiani entravano a Berbera; ma i Britannici, da quel mese fino al novembre, prepatarono la controffensiva. La quale era favorita dal fatto che l’Africa italiana, dopo lo scoppio delle ostilità, non poté mantenere comunicazione alcuna con la madrepatria, e non disponeva di autosufficienza; cosicché se la guerra non si fosse conclusa subito a favore dell’Asse, ai presidî italiani non sarebbe rimasto che resistere eroicamente. Mentre l’Africa Orientale fin dal primo giorno di guerra rimase avulsa dal sistema militare dell’Asse, l’impero nemico conservò sempre la coesione fra tutte le sue parti. L’alto comando britannico pertanto fu ognora arbitro della scelta dei piani e delle opportunità strategiche da applicare ai due teatri africani, irreparabilmente separati per l’Asse, contigui per l’impero inglese.
La controffensiva britannica fu preparata contemporaneamente in Africa Orientale e in Libia, più sollecitamente e massicciamente in Libia, dove la minaccia si profilava più grave; così avvenne che, quantunque il gen. W. Platt entrasse in azione il 6 novembre 1940, e l’11 avesse già ripreso Gallabat e il 23 Metamma, pure l’offensiva in grande fu presa solo verso la fine di dicembre, allorché A. Wavell, dopo la vittoria di Sêdêel-Barranê, ebbe inviato in Africa orientale la 4ª divisione indiana e, fattore decisivo, una compagnia di carri pesanti. Da quel momento le forze in presenza risultarono irreparabilmente disquilibrate a danno degl’Italiani: non rimase loro che la superiorità in uomini, circa 300.000, appoggiati da una modesta artiglieria di 400 pezzi e da una aviazione di 200 apparecchi, in gran parte antiquati. I carri britannici erano di tanto inferiori a quelli tedeschi nel 1940 di quanto lo erano superiori agl’italiani; nel rapporto tra le forze aeree lo squilibrio era ancora più grave. E quantunque il materiale in aerei e carri delle armate attaccanti fosse disparato (una sorta di campionario di mezzi bellici moderni), però, la superiorità in luogo sui difensori era raggiunta, poiché, contro la superiore efficienza tattico-tecnico-logistica del nemico nulla potevano, di per sé soli, gli uomini e la posizione del territorio. Cominciarono così le operazioni coniugate dei generali Platt e Cunningham, che dovevano concludersi nel novembre del 1942, dopo una lunga agonia dei difensori, con la vittoria degli Inglesi.
Le conseguenze del successo britannico furono notevoli sia dal punto di vista morale, sia da quello materiale. Dal 1° settembre 1939 gli Inglesi erano stati sempre sconfitti: ora, invece, nonostante che fossero rimasti soli a combattere contro le potenze dell’Asse, erano riusciti a infliggere a queste una dura disfatta: ciò giovò molto al morale del nemico. D’altra parte l’eliminazione degli Italiani dall’Africa Orientale aveva avuto come conseguenza di far cessare le ostilità in quella vasta regione, ciò che permise agli Americani di radiarla fin dall’8 aprile 1941 dalla lista delle zone di guerra. Questa misura legislativa statunitense ebbe decisive ripercussioni in Egitto, perché consentì al governo di Washington, sulla base della legge Affitti e prestiti (Lease and lend Act), approvata di recente (11 marzo 1941), di alimentare lo sforzo bellico dei Britannici sul Nilo, per mezzo dei porti di Massaua e di Port-Sudan, impedendo agli Italo-Tedeschi di conquistare il canale di Suez.
La campagna di Libia 1940-1941. – Dopo la prima Guerra mondiale, la strategia imperiale britannica si era decisamente orientata, per ciò che riguardava il continente nero, verso la valorizzazione strategica dell’Africa centro-meridionale, dove il Kenya era chiamato alla funzione di centro di raccolta di tutte le forze e di cerniera tra l’Africa a nord e quella a sud dell’equatore. Questo processo di spostamento successivo dell’asse fondamentale della difesa britannica dal Mediterraneo, cioè dalla catena classica delle basi del preguerra 1914: Gibilterra, Malta, Cipro, Suez verso l’interno dell’Africa, si era precisato durante la seconda Guerra mondiale, quando, a causa dell’intervento italiano e del crollo della Francia il Mediterraneo e tanta parte delle coste nordafricane divennero ostili o infide alle forze del Commonwealth. Le comunicazioni imperiali furono avviate attraverso il Capo di Buona Speranza e, fatto nuovo, attraverso una pista e un’imponente strada aerea di penetrazione, che congiunse l’Atlantico (da Duala a Dakar) al Mar Rosso e quindi all’Egitto e al prossimo Oriente.
Allo scoppio delle ostilità l’Egitto, centro dell’arco dei territorî britannici dell’Africa e dell’Asia, rapppresentava l’attestatura di punta, ancorché massiccia, dell’impero britannico nelle acque orientali del Mediterraneo. Qualora l’Asse fosse anche riuscito a insediarsi nel delta del Nilo, il blocco in chiave dell’arco britannico afro-asiatico avrebbe subìto, più che una rottura, una inflessione, in quanto che la squadra inglese d’Alessandria, trasferendosi nel M. Rosso, avrebbe sempre potuto sostituirsi alle terre opime del triangolo Alessandria, Porto Said, il Cairo nella funzione di collegamento fra i due continenti attigui. Quantunque l’insediamento dell’Asse nel Delta non avrebbe potuto conseguire, di per sé stesso, effetti risolutivi del conflitto, tuttavia grande sarebbe stato il successo morale, politico, economico. Dal punto di vista militare, poi, l’Inghilterra avrebbe dovuto abbandonare il Mediterraneo orientale peggiorando di colpo la posizione di Malta, priva dell’appoggio diretto della squadra d’Alessandria. Cosa ancora più grave, per non compromettere il sistema di difesa dell’impero, lo stato maggiore di Londra avrebbe dovuto subito provvedere all’organizzazione di due, invece che di un solo fronte. Si sarebbe, infatti, imposta la necessità di creare un primo sbarramento sul vertice del Delta, nel punto esatto di comunicazione tra il Basso Egitto e la valle del Nilo, in senso stretto, giusta una divisione di quell’antica terra, che risale almeno ai Tolomei. L’altro sbarramento avrebbe dovuto essere stabilito lungo la strozzatura del Canale per interdire al nemico la via egizio-siriaca di penetrazione al Medio Oriente e alle Indie.
Ma tutto questo avrebbe importato, in un primo momento, una perdita enorme di prestigio e l’onere di un secondo fronte, senza parlare delle pericolose ripercussioni politiche e morali nel Medio Oriente, dove i Tedeschi perseguivano gli scopi d’impadronirsi dei giacimenti di petrolio, disarticolare l’impero britannico, interdire ogni comunicazione attraverso l’Iran fra Mosca e Londra, in vista di un attacco già in preparazione contro l’URSS. Deciso a stornare questa somma di pericoli, susseguente ad un eventuale insediamento degli Italiani nel Basso Egitto, Churchill sfruttò il tempo trascorso fra il 12 settembre 1940 (occupazione di Sêdêel-Barranê, ad opera dell’armata di R. Graziani) e l’8 dicembre (inizio dell’offensiva del gen. Wavell) per trasportare e organizzare in Egitto una prima modesta armata del Nilo. Fu così che, avendo l’Italia impostato la lotta sul piano tecnico e tattico di una guerra europea, combattuta in territorio coloniale, gli Inglesi portarono in Africa i loro mezzi più moderni. Sotto gli ordini del gen. sir H. Maitland Wilson, che delegava i suoi poteri al maggior gen. O’Connor, venne costituita un’armata di circa 20.000 uomini, articolata su tre divisioni, di cui una blindata (la 7ª, con 40 carri e 4000 combattenti, alle dipendenze del magg. gen. O’ Moore Creagh), la sola da cui ancora disponeva la Gran Bretagna. Sul Nilo l’Australia e la Nuova Zelanda, poi, venivano inviando il fiore della loro giovinezza con i gen. Blamey e Freyberg. Il gen. Wavell, subentrato nel frattempo al comando dell’armata, l’accresceva, la potenziava con il concorso dell’aviazione britannica del Medio Oriente, al comando del gen. sir A. Longmore. Il complesso aereo inglese era, naturalmente, di piccole proporzioni, circa 115 apparecchi, la maggior parte invecchiati; ma di recente erano venuti ad aggiungersi i Glem-Martin americani, più ancora, squadriglie di Hurricane recenti.
Quando l’8 dicembre, con cinque giorni d’anticipo sul suo nemico, sferrò l’offensiva, Wavell sorprese completamente gli Italiani a Sêdêel-Barranê; e, cosa irreparabile, le truppe italiane non avevano da contrapporre ai carri Valentine, Matilda e Crusader, con cannoni da 37 mm. su torretta mobile, che i loro antiquati M33 e M11, a torretta rigida, armati di sole mitragliatrici pesanti. In diversa scala s’ebbe pertanto, sul teatro d’operazioni africano, l’esatta ripetizione della campagna di Francia: la stessa cecità dell’armata assalita, a causa del dominio del cielo conquistato dall’offensore, «la stessa sorpresa e la stessa brutalità folgorante dell’attacco blindato, la stessa incapacità della fanteria, specie dell’indigena, a combattere e a manovrare contro i carri, la stessa disarticolazione, nel campo dei difensori, di tutto l’apparato del comando, lo stesso successo della manovra nelle retrovie». Graziani si era trovato incapace a rinvendicare la minima libertà d’azione, come alcuni mesi prima il gen. Gamelin.
L’offensiva preventiva di Wavell fu sferrata con uno scopo limitato: quello di disorganizzare i preparativi dell’attacco nemico e , di guadagnare tempo sino all’arrivo di nuovi rinforzi: i risultati sorpassarono largamente le previsioni, cosicché allora il gen. Wavell decise di sfruttare a fondo il successo iniziale per distruggere il maggior numero di nemici e impadronirsi possibilmente di Tobruch e di Bengasi, diminuendo l’efficienza del triangolo Taranto-Tripoli-Tobruch e mettendo in condizioni il comando britannico del Mediterraneo di poter aiutare più efficacemente la Grecia, in guerra con l’Italia dal 28 ottobre del 1940.
Fu allora che Hitler si decise a sollevare il suo alleato, il quale in Libia, in Albania e nella rada di Taranto non aveva fatto che accumulare scacco su scacco. Il 3 febbraio, nella grande conferenza di Hitler con i capi militari: Göring, Keitel, Jold, Brauchitsch, fu stabilito l’invio immediato del X corpo aereo, la formazione e il trasporto di una «Unità d’arresto», cioè il nucleo del futuro Africa Korps. Nacque così l’azione «Girasole», che contemplava l’intervento tedesco nell’Africa settentrionale.
Poiché Hitler considerò sempre il settore africano come un teatro d’operazione secondaria, anziché decidersi a utilizzare la sua momentanea superiorità in aerei e paracadutisti per la conquista di Malta, si limitò nel gennaio 1941 a inviare per la prima volta nel Mediterraneo il gen. Geisler con la Luftwaffe, col compito di attaccare senza soste Malta, i sottomarini e l’aviazione dell’isola al fine di neutralizzare questa base tanto onerosa per le comunicazioni con l’Africa. Raggiunto lo scopo, nel mese di febbraio l’Afrika Korps, con le sue 15ª e 21ª divisione corazzate, la 90ª motorizzata, cui seguirà più tardi la 164ª, anch’essa motorizzata, passava il Mediterraneo, accompagnato da un forte nucleo aereo. L’intervento dei Tedeschi invertì in Cirenaica i rapporti delle forze in presenza: i Mark-IV, protetti e armati di cannoni da 75 mm., dominarono nettamente quegli stessi carri britannici, che già dieci mesi prima erano stati dominati in Fiandra; i famosi 88 anticarro fecero meraviglie contro i valentine, debolmente protetti. Le truppe, poi, erano state rigorosamente selezionate e scientificamente preparate al loro compito, nuovo per l’armata tedesca. Infine, il capo era un generale audace e popolare, il comandante di truppe corazzate Erwin Rommel, l’eroe del passaggio della Mosa e della corsa alla Manica. L’aviazione, formata principalmente da aerei da bombardamento in picchiata JU-87 e 88, era rappresentata dalla 2ª Luftflotte agli ordini di Kesselring, cioè di un generale che si svelerà come uno dei più preparati di tutta la guerra.
La situazione di Wavell fu aggravata dal fatto che il governo inglese, per preponderanti ragioni politiche e morali, aveva disposto, contro ogni evidenza militare, che una parte dell’armata della Cirenaica fosse inviata in Grecia. Rommel il 24 marzo, passando all’offensiva, si trovò di fronte ad un complesso del tutto inferiore per armamento e materiale, e singolarmente ridotto di numero, a causa dell’invio della 4ª divisione indiana in Abissinia (dopo il successo di Sêdêel-Barranê) e di forze ancor più consistenti in Grecia. Wavell, in tal modo, perdeva tutta la Cirenaica, e riusciva ad arrestare Rommel alla frontiera dell’Egitto, solo perché aveva ricevuti a fine aprile rinforzi dall’Abissinia e dal Medio Oriente e perché l’armata nemica cominciava a risentire il peso dei rifornimenti attraverso i grandi spazî. Il duello anglo-tedesco si chiudeva in questa prima fase con un vantaggio per gl’Inglesi: l’occupazione di Tobruch, importante punto d’appoggio per le future operazioni.
La campagna italiana contro la Grecia. – In vista dell’attacco contro l’URSS, Hitler non aveva intenzione nel 1941 d’impegnarsi nei Balcani: tuttavia, per garantirsi i preziosi rifornimenti di petrolio, all’indomani dell’arbitrato di Vienna, accordava un trattato di garanzia al regno di Romania, e il 7 ottobre 1940 inviava a Bucarest una missione della Wehrmacht, comandata dal gen. Hansen, seguita ben presto da truppe tedesche, che penetrarono in Romania e ne occuparono tutti i punti strategici per «proteggere i petrolî» e «istruire l’armata». Questa nuova iniziativa di Hitler nei Balcani, cioè in una regione alla quale era particolarmente sensibile Mussolini, indusse questo ad intraprendere un’azione contro la Grecia per risollevare le proprie azioni nella vicina penisola, ma anche per ragioni di più vasto respiro. Qualora, infatti, l’Italia fosse riuscita a occupare tutta la Grecia continentale, non sarebbe stato difficile estendere l’occupazione all’intero arcipelago delle isole egee, ricongiungendosi così ai presidî del Dodecanneso. La situazione italiana nel Mediterraneo si sarebbe straordinariamente rafforzata in conseguenza della riunione nelle stesse mani di due imponenti sistemi aeromarittimi: quello ionico-siculo libico e quello greco-egeo-cretese. Il primo sistema era costituito dal ricordato triangolo Taranto-Tripoli-Tobruch, il secondo dal Pireo-Lero-Suda. La saldatura fra i due sistemi avrebbe rafforzato in particolare la posizione strategica di Creta, che, fra tutte, era capitale. Una così vasta e munita base di operazioni aeromarittime avrebbe offerto alle forze italiane ampie possibililà di manovra per linee interne fra i varî bacini del Mediterraneo, serrando gli Inglesi su spazio ristretto fra Cipro e il Basso Egitto. Potevano essere realizzate in tal modo efficaci operazioni contro Cipro, la Siria, l’Egitto, l’Africa del Nord, contro la stessa squadra navale di Alessandria, costringendo l’ammiragliato a prendere in considerazione l’opportunità d’abbandonare il Mediterraneo. Se l’impresa fosse stata preparata più ponderatamente poteva riuscire, ma una troppo diretta e ottimistica interferenza del potere politico la compromise.
Quando, il 28 ottobre, al comando del generale Visconti-Prasca, fu dato inizio all’azione militare, l’armata d’attacco si trovò in stato d’inferiorità numerica rispetto all’armata di Papagos: 11 divisioni contro 14, penosamente reclutate queste ultime da una popolazione di 7 milioni d’uomini. Tenuto conto dello stato di generale impreparazione per la guerra moderna (rileviamo, una volta per tutte, che le truppe italiane durante l’intero conflitto non hanno mai avuto in dotazione un carro paragonabile ai più efficienti d’Inghilterra, di Germania, di Russia, degli Stati Uniti), avvenne che l’esercito di Prasca risultò non troppo superiore nell’armamento a quello dell’avversario, che peraltro era animato da un morale molto alto, ammirevolmente bellicoso e sistematicamente addestrato alla guerra di montagna. Cosicché quando, ad es., le divisioni del gen. U. Soddu, non potendo tenere la montagna, si attestavano nelle gole montane o nei fondovalle, i Greci, infiltrandosi per le alture, generalmente mal guardate, si calavano alle loro spalle costringendole ad arretrare di alcuni chilometri. «La disposizione particolare del rilievo albanese che, in questa regione, orienta le creste dal sud-est al nord-ovest favoriva questa perpetua tattica d’infiltrazione». Gli Inglesi, inoltre, intervennero in aiuto dei Greci; nello stato di penuria generale in cui si trovava la Gran Bretagna a quel tempo, non fu possibile fare molto per i difensori, tuttavia i Gloster-Gladiator delle squadriglie dell’Air Vice-Marshal, al comando del gen. sir J. d’Albiac, mettevano spesso in condizioni d’inferiorità i Fiat C. R. 42.
In tal modo, dunque, l’armata italiana non poteva col suo armamento insufficiente ottenere successi risolutivi contro un avversario agguerrito, sostenuto dall’aviazione inglese, dotato di un eccellente cannone di 7,5 cm. modello «Danglis», al quale non si aveva nulla da opporre di efficace, aiutato, infine, da un terreno montuoso, tra i più impervî, e che conosceva a meraviglia. Il soldato italiano, mal equipaggiato e mancante di cartucce, soffriva il martirio di temperature bassissime con pregiudizio del suo rendimento bellico. Si spiega allora come gli errori di apprezzamento politico mettessero gli esecutori in una situazione penosa: si era preparati ad una missione di occupazione pacifica e invece ci si trovò dinanzi ad un nemico preparato e deciso a opporre la più viva resistenza. Il 9 marzo 1941, sicuro del successo, il gen. U. Cavallero, lanciando all’offensiva 7 divisioni nella vallata della Voiussa, reclamava la presenza di Mussolini al suo osservatorio; in realtà, quando questi il 17 ritornava a Roma non aveva potuto che constatare, attraverso un altro rovescio delle sue armi, l’inutilità dell’avventura di Grecia.
Le campagne germaniche contro la Iugoslavia e la Grecia. – Alla fine dell’inverno, la Germania cominciava a inquietarsi degli scacchi ripetuti inflitti agli Italiani dai Greci nelle montagne d’Albania, perché questi scacchi e l’evoluzione inquietante della politica americana incoraggiavano alcuni stati europei ad allentare i vincoli che Berlino aveva annodato intorno ad essi. Le conseguenze militari apparivano ancora più gravi. Per prima cosa ne rimaneva seriamente perturbata la messa a punto dell’operazione «Barbarossa», cioè dell’attacco contro l’Unione Sovietica; data l’influenza tradizionale della Russia sulla Bulgaria e la Iugoslavia, niente poteva essere intrapreso contro la massima potenza slava senza essersi prima del tutto assicurati della penisola balcanica. L’azione sfortunata contro la Grecia aveva reso inoltre all’avversario britannico una testa di ponte sul continente europeo, e compromesso in tal modo i benefici di Dunkerque. Con l’insediamento in Grecia, l’Inghilterra acquistava un certo numero di basi aeree che la portavano nelle vicinanze dirette di tutta l’Italia meridionale, e specialmente dei porti d’imbarco e di sbarco tanto delle terre metropolitane quanto dell’Albania. E inoltre erano esposte all’offesa dei bombardieri inglesi le zone petrolifere romene: il bacino di Ploeóti distava ormai meno di 500 chilometri dalle basi inglesi.
Come rimedio Hitler proponeva di studiare misure atte a rimuovere il pericolo di un collasso del fronte albanese: truppe tedesche, fra cui la 1ª divisione alpina, della forza approssimativa di un corpo d’armata, dovevano tenersi pronte per lo spostamento. Nacque in tal modo l’11 gennaio 1941 l’operazione «Ciclamino», in base alla quale le forze tedesche in Albania dovevano servire «in un primo momento come riserva in caso d’emergenza». Più tardi il gruppo d’armate italiane e gli effettivi germanici di rinforzo avrebbero attaccato con l’obiettivo di aprirsi la via di Salonicco, sostenendo con ciò «l’attacco frontale dell’armata di List» che per tempo si sarebbe insediata in Bulgaria. Il 19-20 gennaio, cioè una settimana dopo la compilazione dell’azione «Ciclamino», Mussolini si recava al quartier generale di Hitler, dove allontanò da sé l’amaro calice del soccorso: l’invio di truppe tedesche gli parve «augurabile, ma non necessario». Venne così abbandonato il piano «Ciclamino».
<subpar>Siccome però la situazione italiana in Albania continuò a peggiorare, Hitler si decise ad attuare, con l’aiuto dello stato maggiore tedesco, un’azione diplomatica e militare complessa, il cui scopo era quello di assoggettare gli stati balcanici e di neutralizzarli in vista della grande operazione che si veniva preparando contro l’URSS. Attraverso l’Ungheria, dal 13 dicembre 1940 in poi, si svolgono ininterrotte serie di trasporti di truppe tedesche verso la Romania. Nel gennaio 1941, approfittando di torbidi suscitati in questo paese dalla Guardia di ferro, i tedeschi occupano totalmente la Romania rinforzando i presidî di tutti i punti strategici. Erano le prime misure d’attuazione dell’operazione «Marita», cioè del piano d’attacco contro la Grecia. Come misura preliminare e prudenziale, s’imponeva di occupare saldamente la Romania, per evitare verso questo territorio preziosissimo ogni sorpresa da parte della Russia, che già, fra il 26 giugno e il 2 luglio 1940, aveva occupato «pacificamente» la Bessarabia e la Bucovina settentrionale, ed era tornata a farsi particolarmente attenta ai paesi balcanici dopo i rovesci italiani sulle montagne d’Epiro. Inserita saldamente la Romania nel sistema germanico e nelle articolazioni strategiche del piano «Marita», Berlino accentuava la sua pressione sulla Bulgaria, la quale, malgrado la sua russofilia, il 1° marzo aderiva al Tripartito; il 2 marzo le truppe tedesche penetravano in Bulgaria, pronte a intervenire a Salonicco, a Costantinopoli e a esercitare una pressione sulla Iugoslavia.
Installati in Macedonia i corpi d’armata dei generali Boehme e von Stumme di fronte alla frontiera greca, tra Nevrokop e Petriã, Hitler passa a guadagnare la Iugoslavia col metodo diplomatico, che però fallisce; anzi il 5 aprile, fatto eloquentissimo, la Iugoslavia sottoscrive a Mosca un patto di amicizia e di non aggressione con l’URSS. L’attuazione del «Marita» subiva un serio contrattempo: la Iugoslavia poteva ora allinearsi con la Grecia e l’Inghilterra e ampliare così la testa di ponte di quest’ultima sul continente, con pregiudizio del «Marita», la cui strategia postulava l’isolamento assoluto della Grecia. Si era cominciato a conseguire questo scopo con l’occupazione della Romania e della Bulgaria; in mare lo si sarebbe raggiunto con l’azione del X corpo aereo tedesco (CAT) che, intensificando il blocco dello Stretto di Sicilia, avrebbe del tutto neutralizzato Malta, avrebbe spazzato via ogni naviglio inglese nel canale fra Creta e la Cirenaica, avrebbe, infine, a colpi di Stukas, costretto la squadra d’Alessandria a rimanere alla fonda. La solidarietà della Iugoslavia con l’Asse doveva saldare a nord l’anello stretto intorno alla Grecia.
D’altra parte, la conquista dell’Europa del sud-est era necessaria se la Germania voleva intraprendere all’inizio dell’estate l’assalto alla Russia: l’alto comando tedesco doveva assicurarsi le retrovie, eliminando l’ultima testa di ponte nemica sul continente, e acquistare delle basi aeree e sottomarine nel Mar di Levante, per minacciare più da vicino il Medio-Oriente e per aumentare la pressione sulla Turchia.
Il colpo di stato iugoslavo che, nella notte dal 26 al 27 marzo aveva frustrato l’attività diplomatica di Hitler per accaparrarsi pacificamente la Iugoslavia, fu seguito, la mattina del 27 stesso, da una conferenza militare presso Hitler, che doveva decidere l’azione contro la Iugoslavia per determinarne l’immediata distruzione militare e politica. S’ebbe così l’operazione «25», cioè il piano d’attacco contro Belgrado, insieme all’«abbozzo di piano») per il coordinamento delle operazioni italiane e tedesche.
Alle prime ore del 6 aprile si trovavano pronte per intraprendere la campagna 21 divisioni tedesche, incluse le divisioni S.S. Germania e Gross Deutschland; altre 11 divisioni furono poste in riserva generale. Delle 21 divisioni d’attacco, 10 erano corazzate e 4 motorizzate; e fra le corazzate si distingueva la divisione di grande élite S.S. «Adolf Hitler». In complesso, ci si trovava di fronte a uno schieramento più imponente e sensibilmente più perfezionato di quello messo a punto il 10 maggio 1940 contro l’Occidente. Forze italiane, delle quali apprezzabili quelle della 2ª armata (gen. V. Ambrosio, con 8 divisioni di fanteria, 2 motorizzate, 3 di cavalleria, 1 blindata), furono schierate nella Venezia Giulia, nella regione di Zara, sul fronte d’Albania. Nonostante il patto di non aggressione fra l’Ungheria e la Iugoslavia, l’amm. Horty e il suo governo decisero di associarsi attivamente alla campagna, cedendo alle suggestioni tedesche e al desiderio di recuperare il Banato. Questo imponente complesso di forze terrestri era appoggiato dalla Luftwaffe, comandata personalmente da Göring e ripartita in due gruppi, diretti dai gen. Löhr e M. von Richthofen. Rinforzata dai gruppi aerei tedeschi dislocati in Italia e dall’aviazione italiana, essa avrà una parte di prim’ordine. Di contro, la Iugoslavia non schierava che corpi tradizionali di fanteria e di cavalleria, senza formazioni blindate e motorizzate, senza aviazione e senza DCA.
La campagna dei Balcani, nonostante il pauroso squilibrio delle forze in presenza, diveniva una delle fasi più interessanti e più significative della guerra, perché per la prima volta si vedevano le divisioni blindate tedesche operare su terreno montagnoso, dove la resistenza nemica sarebbe stata più facile e dove il collegamento con la Luftwaffe si presentava particolarmente difficile. Senonché, per ovviare alle difficoltà del terreno, lo stato maggiore germanico aveva dotato le quattro armate d’attacco di 6 divisioni di fanteria scelta, di 2 divisioni S.S. e, cosa decisiva, di 3 divisioni di montagna (1ª, 5ª, 6ª Gebirgsdivision).
La 12ª armata tedesca di von List, sostenuta dagli Stukas dell’8° C. A. del gen. Richthofen, aprì in Iugoslavia la campagna dei Balcani, mentre contemporaneamente il gen. di fanteria Boehme lanciava in Grecia le sue eccellenti 5ª e 6ª Gebirgsdivisionen contro la linea «Metaxàs» per impadronirsi al più presto di Salonicco. Il 9 aprile i Panzer del gen. Veiel occupavano il grande porto greco-macedone, rimanendovi fermi in attesa della conclusione della campagna contro la Iugoslavia (per le operazioni, v. iugoslavia, in questa App.), che il 18 aprile era costretta all’armistizio. Signori di Salonicco, della Valle del Vardar e della conca di Monastir, i Tedeschi intrapresero subito la campagna contro i Greci; ma, siccome costoro si trovavano rispetto agli attaccanti nello stesso squilibrio d’armi e d’equipaggiamento in cui s’erano trovati gli Iugoslavi, il gen. Maitland Wilson, capo del corpo di spedizione britannico, venuto dalla Cirenaica a stabilirsi, a fine marzo, al Pireo e a Volo, comprese di non poter più tenere un fronte continuo, specie dopo il crollo iugoslavo. Al generale inglese non rimase che preparare un piano di ritirata metodica, per cui, sfruttando le difficoltà del terreno, i punti di passaggio obbligati, la distruzione di molteplici opere d’arte, come ponti e argini fluviali, riuscì a impedire un inseguimento troppo serrato. Poiché, infine, la Wehrmacht dovette aprirsi l’accesso al Peloponneso con un lancio di paracadutisti in collegamento con i Waffen S.S. della divisione corazzata «das Reich», Wilson, utilizzando anche i minuti, poté reinbarcare le sue truppe. Il 3 maggio la campagna era finita.
Poiché il piano generale di operazioni germanico dell’8 agosto 1941 mostra come il comando tedesco intendesse intraprendere una campagna in grande nel Mediterraneo, dopo piegata l’Unione Sovietica, Hitler, che più volte aveva riconosciuto l’importanza strategica di Creta, decise di sfruttare la sua immensa superiorità momentanea sugli Inglesi, per conquistare l’isola. I Britannici occupavano Creta con una divisione, dalla fine del 1940, ma erano male equipaggiati e mancavano soprattutto di artiglierie antiaeree; come pure inadeguatamente armate erano le unità venute di rinforzo dal Peloponneso. Data la vicinanza degli aeroporti istallati dai Tedeschi nella Grecia del sud e la lontananza delle basi aeree anglo-egiziane, la grande isola venne a trovarsi nel raggio d’azione dei cacciatori germanici e fuori della portata di quelli britannici. Questa situazione paralizzò completamente l’aviazione inglese di stanza a Creta, cosicché gli uomini di Freyberg negli accaniti combattimenti non poterono mai giovarsi della copertura aerea. La chiave della conquista dell’isola stava nel possesso degli aerodromi, su cui si calò a ondate la divisione di paracadutisti del gen. K. Student, la quale, salvo che per l’occupazione dell’arcipelago, non aveva fatto parlare più di sé, dopo la sorpresa di Rotterdam. Nonostante il valore di questa divisione e dell’85° reggimento di alpini, nonostante l’intervento dei distaccamenti della Wehrmacht che, nella notte, cercavano, specie dopo il 24 maggio, di attraversare il canale di Cérigo, nonostante l’importanza strategica della conquista di Malene, Pyrgos, Stylos, Sphakion, la decisione fu portata dall’armata aerea del gen. Richthofen, conferendo così alla campagna di Creta – conclusasi il 1° giugno – più netto che mai, il carattere di un episodio singolare in tutta la guerra. Si trattò, infatti, «di una vittoria aerea, che fu conquistata da un piccolo numero di gruppi di paracadutisti, senza appoggio d’artiglieria, senza mezzi di trasporto, disponendo solo di scarsissime comunicazioni terrestri o marittime e unicamente sostenuti dall’aziavione». La carenza della RAF fu scontata dalla Royal Navy, che subì–specie ad opera dei picchiatori di Richthofen – dure perdite.
Ormai l’Occidente era conquistato, l’Inghilterra poco temibile ancora nell’aria e impotente per lungo tempo a tentare qualsiasi operazione di sbarco sul continente, l’Italia liberata dalla sua anchilosi in Albania, e rafforzata nell’Africa settentrionale, la Iugoslavia e la Grecia distrutte, l’Ungheria fedele, la Romania e la Bulgaria presidiate: da ogni parte sembrava poggiare su solide basi l’impero di Hitler. La conquista di Creta dava una perfetta copertura al perimetro meridionale di quell’impero, e gli offriva una base incomparabile per minacciare la posizione degli Inglesi nel Mediterraneo orientale, nel Prossimo e Medio Oriente, in Africa. Pertanto, prima che gli oscuri pericoli, minacciati dagli Anglosassoni, prendessero forma e consistenza, bisognava che la Russia fosse abbattuta.
La campagna contro la Russia. – Fin dal 24 giugno 1937, si poteva leggere nella «direttiva 1937-38» per «tutte le eventualità belliche» di Blomberg, allora ministro della Guerra e capo di stato maggiore generale: «la Germania non deve temere attacchi da nessuna parte; le ragioni principali di ciò sono, oltre al desiderio di pace di tutte le nazioni e particolarmente delle potenze occidentali, le deficienze nella preparazione di guerra di molti stati e in particolare dell’Unione Sovietica». Ma gli avvenimenti successivi e, principalmente, dopo Monaco, la necessità d’indurre la Russia a cooperare, direttamente o indirettamente, all’isolamento della Polonia, imposero a Hitler di evolvere dal suo fanatismo antibolscevico verso una politica d’intesa, raggiunta col patto del 23 agosto. L’intesa, però, era tanto superficiale che il 23 novembre 1939, Hitler, parlando ai suoi generali in conferenza segreta, dopo aver espressa la propria preoccupazione per il nemico occidentale, che «s’intanava nelle sue fortificazioni», a conclusione del discorso, dichiarava: «Noi attaccheremo la Russia soltanto quando saremo liberi a occidente». A principio, nonostante l’attacco della Russia alla Finlandia, nonostante le preoccupazioni di Berlino circa «le intenzioni russe di occupare gli Stati baltici» e nonostante l’ingresso delle truppe sovietiche in Bessarabia, Hitler non si preoccupava ancora molto della grande potenza dell’est. Egli era convinto che questa apprezzasse assai e temesse la forza tedesca. Però, nonostante tutto, giusta la testimonianza di Raeder e del gen. Jodl, i timori di una discesa verso occidente dell’oriente bolscevico, nel profondo, erano rimasti sempre vivi nella coscienza di Hitler. Nella sua deposizione a Norimberga, il gen. von Paulus, asseriva di «aver udito parlare per la prima volta di un attacco contro la Russa il 3 settembre 1940, quando divenne quartiermastro generale del comando supremo». Tuttavia, in questa prima fase, le misure militari si concretavano in una serie di disposizioni prevalentemente difensive, che diedero origine (30 ottobre 1940) al «caso Est» (Ostfall), progenitore del «Barbarossa».
Poco dopo la fine della conferenza tedesco-sovietica di Berlino del 10-13 novembre, mentre si discuteva ancora di una possibile alleanza della Russia con le potenze del Tripartito, il 5 dicembre 1940, il comandante del quartier generale della Wehrmacht esponeva a Hitler il piano completo della nuova operazione a oriente. La prima stesura di questa operazione costituì la direttiva «n. 20», diramata dal comando supremo il 13 dicembre 1940; von Paulus la definì «base di tutta la preparazione militare ed economica per l’invasione dell’Unione Sovietica». Hitler, commentando l’esposto operativo dello stato maggiore, del 5 dicembre, e il testo della direttiva «n. 20», fissò le grandi linee strategiche della prossima azione contro la Russia. «Lo scopo principalissimo della Germania è di prevenire una ritirata dei Russi, che permetta loro di concentrarsi su una linea ridotta. L’avanzata a oriente dovrà essere proseguita fino a tanto che l’aviazione rossa non sia più in grado di attaccare il territorio del Reich e, d’altro canto, l’aviazione tedesca possa battere ogni punto delle zone industriali russe. Il primo urto dovrà venire sferrato con potenza tale da distruggere grandi forze nemiche. È essenziale che i Russi non possano più ricostituire il fronte». Questi fondamentali concetti operativi, meglio specificati, passarono a formare il nucleo della direttiva «n. 21» (18 dicembre 1940), che è la vera e propria operazione «Barbarossa»; in essa gli scopi generali vengono così definiti: «Il grosso dell’esercito russo nella Russia occidentale deve essere distrutto in operazioni ardite, spingendo avanti cunei corazzati e impedendo la ritirata di unità capaci di combattere nell’immenso territorio russo. Con una rapida avanzata bisognerà raggiungere una linea dalla quale l’aviazione russa non sia più in grado d’attaccare il territorio del Reich. L’ultimo obiettivo dell’operazione è di stabilire una linea di difesa contro la Russia asiatica secondo un tracciato che vada approssimativamente dal Volga ad Arcangelo. Allora, in caso di necessità, l’ultima zona industriale rimasta alla Russia negli Urali potrà essere eliminata dalla Luftwaffe». Superfluo dire che la Wehrmacht doveva tenersi pronta a schiacciare la Russia con «una rapida campagna, anche prima della conclusione della guerra contro l’Inghilterra».
Non conoscendo il metodo di lavoro di Hitler in seno allo stato maggiore, si potrebbe essere tentati di credere che ormai l’azione contro la Russia, al 18 dicembre ’40, fosse irrevocabilmente decisa. Si sarebbe sensibilmente lontani dal vero argomentando dall’elaborazione, anche accuratissima, dei piani l’effettiva realtà bellica del più prossimo futuro. Al dicembre del 1940, nonostante la compiuta elaborazione del «Barbarossa», l’attenzione di Hitler si portava ancora decisa sull’occidente, dove – dopo la conclusione della campagna contro la Francia e la disfatta aerea tedesca nel cielo inglese – Hitler in concreto trovava urgente strangolare la Gran Bretagna con la chiusura del Mediterraneo. Già il 7 settembre 1940, il Reichsführer in una conferenza con Serrano Suñer aveva discusso a fondo l’operazione di Gibilterra, e il 23 ottobre Hitler e Franco, incontratisi a Hendaye, stabilirono l’attacco per il 10 gennaio 1941. I piani tedeschi progredirono allora con sollecitudine: la direttiva di guerra «n. 18» del 12 gennaio 1941, designata con l’indicativo «Felice», contemplava tutto un vasto insieme d’operazioni, interessanti la penisola iberica e il Marocco spagnolo. «Scopo dell’intervento tedesco in Iberia è di cacciare gli Inglesi dal Mediterraneo occidentale; per far ciò, espugnazione di Gibilterra e chiusura dello stretto... l’attacco per Gibilterra sarà condotto dai Tedeschi,... le forze destinate alla rocca devono esser forti abbastanza da poterla prendere anche senza l’aiuto spagnolo». Qualora gli Inglesi avessero reagito con l’invasione del Portogallo, il piano «Isabella», contemplava l’occupazione preventiva della terra lusitana.
Già molti cannoni pesanti, venuti dalla Germania, erano stati piazzati sulle colline dominanti lo Stretto; con Tangeri e Ceuta in mano agli Spagnoli, con una forte armata falangista nel Riff, con l’esercito inglese ancora in via di ricostituzione e gli Stati Uniti neutrali, nulla poteva fermare un’avanzata tedesca su Gibilterra e sull’Africa. Qualora si stabilisca un paragone fra la resistenza che potevano offrire nell’inverno 1940-41 l’armata rossa e l’esercito inglese a Gibilterra o in Iberia, o dovunque avesse operato sbarchi di diversione, non s’hanno dubbî nell’individuare il settore più favorevole alle iniziative tedesche; per questo Hitler, fino a tutto gennaio, sollecitava furiosamente il Caudillo ad associarsi al suo sforzo di guerra. Ma non accadde nulla lo stesso, perché la Spagna non era in grado di combattere con un milione di morti per la guerra civile, con larga parte del paese ancora devastata, con l’agricoltura e l’industria completamente disorganizzate. Non accadde nulla anche perché Franco chiedeva, a compenso della sua belligeranza, Gibilterra, il Marocco francese e la parte dell’Algeria colonizzata e abitata da una maggioranza spagnola; gli stessi territorî cui aspiravano la Germania e l’Italia, che non intendevano abbandonare alla Spagna il controllo del Mediterraneo occidentale.
Ma lo spirito di Hitler ormai, nel gennaio e, ben più, nel febbraio 1941, cominciava ad essere dominato in misura preponderante dal problema centrale del conflitto. Egli aveva coscienza che se non fosse riuscito a spezzare la resistenza inglese non avrebbe vinto la guerra; ma se nella situazione disperata in cui si trovava, l’impero britannico ancora resisteva non è perché pensasse, con le sole sue armate, di liberare l’Europa dalla Wehrmacht, ma perché esistevano nel mondo altri due centri di forze, enucleati intorno a Mosca ed a Washington, in grado, insieme a Londra, di piegare Berlino. Il giorno che avrebbe visto l’allineamento di Mosca, Londra e Washington, provocato dalla disumana ideologia e dal dispotismo internazionale nazista, avrebbe visto insieme segnato il destino tedesco. «Con l’entrata in guerra degli Stati Uniti e della Russia, diceva infatti Hitler, confidando le sue gravi preoccupazioni segrete a Raeder il 19 gennaio 1941, un peso enorme graverebbe sulle nostre spalle. Ma la possibilità di un simile pericolo deve essere esclusa fin dall’inizio. Se riusciremo a liberarci della minaccia russa, potremo continuare a combattere contro l’Inghilterra in condizioni enormemente più favorevoli». Siccome il capo tedesco sapeva di non avere a Mosca dei veri amici, e che il patto del 23 agosto era stato per le due parti soltanto un espediente, decise verso la fine del gennaio 1941 di fare irrevocabilmente la guerra alla Russia e di farla al più presto, quando ancora Londra era impotente e gli Stati Uniti neutrali. Nel quadro di questa strategia intercontinentale, si comprende come la stessa impresa di Gibilterra divenisse secondaria; infatti, se Hitler fosse riuscito a mandare in frantumi la Russia, egli poteva abbattersi con la sicurezza matematica del successo, non solo sull’intero Mediterraneo, ma su tutte le terre del Prossimo e Medio Oriente e sulle Indie stesse. Per questo finì col dominare su ogni altra preoccupazione il «caso Barbarossa» che, nella conferenza decisiva del 3 febbraio 1941 con tutti i supremi capi militari, ottenne la sanzione definitiva.
La data stabilita per l’azione fu il 15 maggio; ma la sopravvenuta complicazione con la Iugoslavia provocò il rinvio dello scatenamento del «Barbarossa» dal 15 maggio al 22 giugno. La resistenza dei popoli balcanici e degli Inglesi a Creta fu d’importanza decisiva su tutto l’andamento della guerra, perché risparmiò a Mosca di subire la sorte d’Atene, di Belgrado e d’altre capitali. Se i Tedeschi, infatti, si fossero presentati il 10 ottobre sul fronte Tula-Borodin-Volokolamsk-Kalinin in luogo di farlo, come avvenne, il 10 novembre, essi avrebbero disposto di poco più di due mesi per sviluppare la loro offensiva decisiva prima dell’arrivo dei grandi freddi. Comunque, assoggettati i Balcani, e convinto che «la massa russa non era in grado di misurarsi con un esercito modernamente equipaggiato e superiormente condotto», Hitler il 22 giugno dava inizio alla sua crociata antibolscevica.