SECENTISMO
. Si suole designare con questo termine, e con altri affini, alcuni generali (concettismo), altri riferentisi a particolari letterature (marinismo per l'Italia, da G. B. Marino; gongorismo, da L. de Góngora y Argote, o culteranismo per la Spagna; preziosismo [préciosité] per la Francia; eufuismo per lo stile messo di moda in Inghilterra dal romanzo Euphues di J. Lyly; poesia metafisica per quella di John Donne e della sua scuola, così definita retrospettivamente da J. Dryden nell'Essay on Satyre), il gusto, soprattutto il gusto per i concetti, prevalso nel Seicento, che, applicando alla letteratura il termine in uso per le arti plastiche di questo periodo, si è chiamato anche barocco.
Tutti questi termini hanno avuto in passato un'accezione spregiativa, associandosi con essi idee di vacua gonfiezza, di male applicata sottigliezza, di artificiosità pretensiosa, ma studiosi recenti hanno cercato di provocare per il gusto letterario del Seicento quell'apprezzamento che il barocco ha oramai riguadagnato nel campo della critica d'arte.
Per i secentisti poesia equivaleva ad argutezza (sp. agudeza; inglese wit). L'Espinosa Medrano, indignandosi col Faria y Souza per avere costui negato "anima poetica" al Góngora, ribatteva: "Se chiama anima le scintille dell'ardore intellettuale, ogni verso di lui contiene mille anime, ogni suo concetto mille vivezze". E Baltasar Gracián, nel suo trattato sull'Agudeza y arte de ingenio, stima l'argutezza unica fonte del piacere estetico, qualità comprensiva che abbraccia in sé tutte le perfezioni e le bellezze dello stile: "Ogni potenza ha un sovrano tra i suoi atti, e un altro tra i suoi oggetti; tra quelli della mente regna sovrano il concetto, trionfa l'argutezza. Quello che per gli occhi è la bellezza, e per gli orecchi l'armonia, per la mente è il concetto". Ed ecco in che cosa consiste per lui il concetto: "in un'armonica correlazione tra due o tre conoscibili estremi espressa con un atto di intelletto" che corrisponde alla definizione del wit data più tardi da un critico avverso, il dottor Johnson (in Life of Cowley): "discordia concors, combinazione d'immagini dissimili, o discoperta d'occulte rassomiglianze in cose apparentemente diverse". Il concettismo rappresenta uno sviluppo del culto della metafora già professato dagli umanisti. Scriveva Erasmo a Pietro Egidio (1514): "Sic enim augurabar, quod... intelligerem non nitorem modo, sed universam prope sermonis dignitatem a metaphoris proficisci... Metaphora sola cumulatius praestat universa quam exornationes reliquae singula. Delectare vis? Nulla plus habet festivitatis. Docere studes? Non alia probat vel efficacius vel apertius". E il Castiglione nel Cortegiano (XXX): "Se le parole che usa il scrittore portan seco un poco, non dirò di difficultà, ma d'acutezza recondita... danno una certa maggiore autorità alla scrittura, e fanno che 'l lettore va più ritenuto e sopra di sé, e meglio considera, e si diletta dello ingegno e dottrina di chi scrive". È breve il passo da tali opinioni a quella di uno dei trattatisti del concettismo, Emanuele Tesauro (Il Cannocchiale Aristotelico, Venezia 1655): "La Metafora tutti [gli obietti] a stretta li rinzeppa in un vocabulo: e quasi in miraculoso modo gli ti fa travedere l'uno dentro all'altro. Onde maggiore è il tuo diletto: nella maniera, che più curiosa e piacevol cosa è mirar molti obietti per un istraforo di perspettiva, che se gli originali medesimi successivamente ti venisser passando dinanzi agli occhi". In questa opinione si coglie anche il rapporto tra gusto letterario e gusto artistico: la metafora è in letteratura quello che in architettura è una prospettiva illusoria del genere della famosa galleria a colonne del Borromini a palazzo Spada (Roma). Ravvicinamenti del genere tra letteratura ed arti plastiche potrebbero moltiplicarsi; per es., nei progetti d'architettura del tedesco Wendel Dietterlin (fine del Cinquecento) l'affollamento di ornati corrisponde alla moda letteraria di stipare di concetti il discorso. Essendo l'arguzia, secondo la definizione di Sforza Pallavicino, "una osservazione mirabile raccolta in un detto breve", s'intenderà perché la forma artistica che più si prestava all'ingegno d'un secentista dovesse essere l'epigramma, che suggeriva di scorcio un tertium quid. In un certo senso può dirsi che la tendenza epigrammatica sia discernibile in tutte le opere letterarie del Seicento; anzi, senza dubbio, a dare indirizzo concettistico al gusto secentesco molto contribuì la divulgazione dell'Antologia greca, iniziatasi fin dallo scorcio del sec. XV (nell'Antologia abbondavano le applicazioni di certi vecchi procedimenti retorici la cui invenzione è legata al nome del sofista Gorgia). La tendenza epigrammatica, divenuta generale nel Seicento, si giovava di schemi come l'ottava rima e il sonetto per esplodere a guisa di girandola nella chiusa. La meraviglia, raccomandata dal Marino in un famoso distico:
È del poeta il fin la meraviglia,
Chi non sa far stupir vada alla striglia,
è assicurata specialmente con tali inopinati accozzi e incontri di concetti quali emergono come naturali decorazioni delle clausole di quelle forme metriche. Le ottave dell'Adone, e più ancora quelle della Strage degli Innocenti, del Marino, non sono altro che sillogi di epigrammi, ed epigrammi sono i sonetti e i madrigali del Marino e dei marinisti italiani e stranieri (tra questi ultimi, notevole l'inglese R. Crashaw, di cui si veda The Weeper). Tutta la Strage degli Innocenti non è, in conclusione, che la ripetizione all'infinito di una formula di caso meraviglioso espressa in un popolarissimo epigramma di Marziale, sul fanciullo ucciso dal pezzo di ghiaccio. In un'esclamazione dello stesso Marziale può vedersi adombrato lo spirito concettistico del Seicento: "O quantum est subitis casibus ingenium!", ove è nominata quell'argutezza (ingenium) che i secentisti dovevano scoprire nelle cose inanimate e negli avvenimenti. Non aveva dunque torto il Gracián di chiamare Marziale primogénito de la Agudeza, e di veder nella Spagna, sua patria, il clima naturale dell'arguzia.
Della stretta connessione tra epigrammi e concetti si rendevano conto i secentisti. Il Gracián, a illustrare i varî aspetti dell'agudeza, cita soprattutto epigrammi di Marziale ed emblemi dell'Alciato. Il Tesauro accresceva il suo Cannocchiale Aristotelico o sia Idea delle Argutezze Eroiche, con due trattati, sui "concetti predicabili" e sugli emblemi (Venezia 1678), e a parte compilava un volume di Inscriptiones (Torino 1666), cioè epigrammi, secondo l'accezione originaria della parola. Emblema ed epigramma rappresentano infatti due modi diversi e complementari di concepire la stessa argutezza. Bisognosi com'erano di certezze sensuali, i secentisti non si fermarono all'idoleggiamento puramente fantastico della metafora, del concetto: vollero estrinsecarli, proiettarli in geroglifici, in emblemi, si compiacquero di rincalzare la parola con una rappresentazione plastica aggiunta.
I secentisti vedevano l'universo sotto specie d'argutezza. Di tutti i fenomeni del mondo circostante, di tutto lo scibile umano, essi traevano partito per dare esca alla loro passione intellettuale: misteriose arguzie essi discoprivano negli aspetti del cielo e della terra, imprese eroiche e simboli in tutte le creature; arguto era il linguaggio degli animali e delle piante, arguto il linguaggio di Dio; il secentista si fingeva un dio a sua propria immagine, "arguto favellatore, motteggiando agli uomini e agli angeli, con varie imprese eroiche e simboli figurati, gli altissimi suoi concetti" (Tesauro). Per il secentista il cielo non era che "un vasto ceruleo scudo, ove l'ingegnosa Natura disegna ciò che medita: formando eroiche imprese, e simboli misteriosi e arguti de' suoi segreti"; le cadute dei fulmini "formidabili arguzie, e simboliche cifere della Natura, mute insieme e vocali: avendo la saetta per corpo e il tuono per motto"; e arguzie i sogni, gli equivoci, gli oracoli, i mostri, o meglio tutto per lui era oracolo, mostro, equivoco. Tutto essendo arguzia, non restava più criterio alcuno per distinguere un'opera d'arte da un'opera d'abilità, o, peggio, dal prodotto capriccioso d'un cervello sconquassato. Baldassarre Pisani definiva la poesia: "un incanto che rapisce l'uomo a sé stesso, un interpellato delirio dell'immaginativa alterata"; e per il Tesauro i matti "meglio che i sani (chi lo crederebbe?) sono condizionati a fabbricar nella lor fantasia metafore facete, e simboli arguti: anzi la pazzia altro non è che metafora, la qual prende una cosa per altra".
Onde il secentismo è apparso ai secoli successivi un'aberrazione del gusto, e siccome con le medesime parole con cui si definisce il concetto si potrebhe definire ciò che oggi si chiama freddura, non potendosi da noi conciliare la freddura con alcuna seria disposizione dello spirito, siamo facilmente indotti a negare nei secentisti in quanto arguti ogni calore e ogni serietà, e a considerare vano passatempo e non arte la loro attività così diretta. Tuttavia il sentimento dei secentisti nei riguardi dell'ingegnosità non poteva essere quello di noi moderni. Ci restano invero testimonianze che in casi critici della vita quali sogliono strappare espressioni semplici, elementari, anche agli uomini più sofisticati dall'artifizio, un secentista ricorreva naturalmente al concetto: John Donne, il giorno che le speranze di felicità per lui e la moglie parvero crollargli intorno, non trovò di meglio che un'arguzia: "John Donne - Ann Donne - Undone" (undone = distrutti); le sue concettose prediche provocavano raptures e tears (rapimenti e lacrime) nell'uditorio; e ai concetti dei predicatori il popolo, non solo la gente oziosa e cortigiana, si commoveva fino alle lacrime in Inghilterra, in Italia, e dappertutto; san Filippo Neri, scrivendo a una suora chiamata Maria (11 ottobre 1585), non si peritava di introdurre un giuoco di parole: María-Mária; e che emblemi e imprese fossero incapaci di alimentare cuore, intelletto e fantasia, si stenterà a crederlo quando si conosca l'effetto che avevano su talune anime mistiche.
Resici conto della stravaganza del gusto secentesco, non si saprebbe relegarlo come mero elemento negativo, come moda caduca, poiché se è vero che l'arte trascende la moda e il gusto, non perciò rimane senza legami con essi. Sarà arte in quanto li trascende, ma essa moda, esso gusto sembrano pure entrare tra le condizioni della sua nascita.
Ad es.: tra i concetti barocchi, uno che ha goduto di larga circolazione è quello illustrato nei passi seguenti:
Vedete i sassi là, che de' begli ostri
Sparsi sen van, sol per mostrarsi tinti
Di quel rossor, che manca ai volti vostri.
Così il Marino, rivolgendosi ai lapidatori di Santo Stefano. E il poeta Théophile de Viau, il primo della schiera dei précieux, importatori di concetti italiani e spagnoli in Francia (il più rappresentativo di questi rimatori preziosi è il Voiture, intimo della marchesa di Rambouillet, il cui salotto, primo del genere, fu il centro della società "preziosa" canzonata da Molière nelle Précieuses ridicules), in un passo della tragedia di Pyrame et Thisbé citato a ludibrio dal Boileau ("Toutes les glaces du Nord ensemble ne sont pas, à mon sens, plus froides que cette pensée"):
Ah! voici le poignard qui du sang de son maître
S'est souillé lâchement. Il en rougit, le traître!
E Philip Sidney, nell'Arcadia: "Ferite, che facevan che tutta la sua armatura sembrasse arrossire di non aver saputo meglio difendere il suo padrone". E il gesuita M. van der Sandt (Sandaeus), in un distico apposto sotto il disegno d'una rosa con nel mezzo un'immagine della Presentazione al Tempio (Maria Flos Mysticus, Magonza 1629):
Vin' scire unde suum rosa candida traxerit ostrum?
Purgantem vidit Virginem et erubuit.
Nei casi citati il concetto resta esanime; si anima invece in vera e propria poesia in un famoso epigramma di R. Crashaw sulle nozze di Cana (che poi il Dryden tradusse in inglese e V. Hugo doveva parafrasare in francese):
Unde rubor vestris, et non sua purpura lymphis?
Quae rosa mirantes tam mutat aquas?
Numen (convivae) praesens agnoscite Numen:
Nympha pudica Deum vidit et erubuit.
Un moderno, E. Cecchi, scriveva a proposito dell'ultimo verso: "Nel secondo verbo specialmente, freme l'emozione della natura: la pagana ninfa pudica che riconosce lo spirito, il creatore. Chiusa nella dura autonomia fisica del mondo antico, sente trasportare fuor di sé la propria origine in una ragione che la contiene e la rivela. Il verso è concentratamente espressivo del modo onde si congiungono in relazioni intime e veementi il naturale e il divino" (Storia della letteratura inglese nel secolo XIX, Milano 1915, p. 296). Ammesso che questa del Crashaw sia poesia, dovremo pure riconoscere che solo una mente come quella di questo poeta, esercitata alla scuola dei concetti barocchi, una mente con quello specifico gusto, poteva azzeccarci. Per cento concetti sterili, il Crashaw ne avrà creato uno vitale: la differenza sarà ben qualitativa - ché qui egli è poeta, e altrove soltanto inventore d'arguzie - ma quell'accensione dell'ispirazione avvenne pure in una mente abituata a pensare in certe forme suggerite dalla moda, e di esse si rivestì illuminandole. Qui il barocco non potrebbe precisamente definirsi come il momento negativo, che è parte dell'immagine: e arte sì, ma arte secentesca, barocca, chiameremo il resultato.
D'immagini barocche abbondano i grandi poeti elisabettiani, e non vi è soluzione di continuità tra l'età di Shakespeare e quella dei poeti "metafisici"; e se le immagini di uno Shakespeare, di un Chapman, di un Webster che possono giustamente chiamarsi "metafisiche" sono, insieme, alta poesia d'ogni tempo, sono nondimeno impostate su una forma mentis che era quella dell'età barocca e non altra. Dal concetto meramente artificioso a quello che è immagine viva si passa per gradi insensibili, sicché converrà parlare di trasfigurazione più o meno riuscita.
Nel segnente passo delle Soledades del Góngora (Soledad primera, 556-61), ad es., l'immagine barocca riesce a comunicare il senso di misteriosa animazione d'un bosco con figure che sarebbero false analogie se non fossero, piuttosto, adombramenti di miti:
Pintadas aves - cítaras de pluma -
coronaban la bárbara capilla,
mientras el arroyuelo para oilla
hace de blanca espuma
tantas oreias cuantas guijas lava,
de donde es fuente a donde arroyo acaba.
E nella famosa ottava del Marino sul gallo è qualcosa di più di un mero sfoggio di comparazioni e d'iperboli: in questo stesso sfoggio è alcunché di quell'altezzoso e stentoreo che è proprio della cosa descritta:
Già l'augel mattutin battendo intorno
L'ali, a bandir la luce ecco s'appresta,
E 'l capo e 'l piè superbamente adorno
D'aurato sprone e di purpurea cresta,
De la villa oriuol, tromba del giorno,
Con garriti iterati il mondo desta,
E sollecito assai più che non suole
Già licenzia le stelle e chiama il sole.
Circa la genesi e l'interdipendenza tra i varî aspetti nazionali del secentismo, molto s'è discusso, ma parlare d'influssi determinanti nella maggior parte dei casi è semplicistico, trattandosi di una di quelle mode che, come suol dirsi, "sono nell'aria". Solo in Francia il preziosismo, alieno al genio della razza, fu tutto d'importazione straniera, italiana e spagnola; gli Spagnoli ebbero soprattutto influsso sul genere burlesco trattato da Saint-Amant e da Scarron. Per la Spagna è certo che il Marino molto contribuì alla divulgazione del concettismo, riportandovi quella moda che alla fine del Quattrocento aveva già avuto una prima fioritura in Italia grazie anche all'opera d'un catalano, il Cariteo (v. petrarchismo). Nel Libro de la Erudición poética del marinista Luis Carillo y Sotomayor, e nelle sue poesie, si trova la prima manifestazione di quel culteranismo (ossia poesia per los cultos, gente colta) che doveva diventare la maniera tipica del Góngora verso il 1609-10.
Dal Marino derivarono molto i poeti gesuiti in latino, che all'arte dell'epigramma dedicavano un'ingegnosità addestratasi alla scuola della casistica, dell'equivocazione e dell'eloquenza sacra: Bernard van Bauhuysen, Baudouin Cabilliau, Charles Malapert, François Remond, Maximilian van der Sandt, Jakob Bidermann, ecc.; poeti i cui componimenti latini (epigrammi, epistole, inni, emblemi, ecc.) si diffusero nel Nord dell'Europa e influirono su poeti in volgare. Da essi, oltre che dal Marino, derivò molto Richard Crashaw, il più cospicuo rappresentante del marinismo in Inghilterra; mentre dall'emblematista gesuita H. Hugo desunse emblemi e concetti quel popolarizzatore del concettismo che fu Francis Quarles. D'altronde il Marino stesso attinse ai gesuiti; così nel canto VII dell'Adone (st. 32 segg.) imitò un componimento latino (la gara tra il suonatore di liuto e il rosignolo) introdotto dal gesuita Famiano Strada nelle sue Prolusiones Academicae (Lione 1617, lib. II, prol. VI) quale esempio arieggiante lo stile di Claudiano. Codesto poema dello Strada offre un'ottima illustrazione della diffusione che godette nel Seicento la letteratura gesuitica: lo imitarono in Inghilterra il Crashaw (Music's Duel, una delle più notevoli espressioni della tendenza barocca a dare risalto al pittoresco e allo spettacoloso a scapito del disegno e della logica della composizione), il drammaturgo John Ford (The Lover's Melancholy, atto I, scena 1ª), Ambrose Philips, William Browne (Britannia's Pastorals, libro II, canto IV, 463 segg.), senza contare le allusioni presso altri scrittori; in Olanda la poetessa Tesselschade Visscher nel Wilde Zangster; in Spagna don García Coronel commentando un passo del Góngora che vi accennava. La letteratura gesuitica ebbe una parte preponderante nel secentismo tedesco, il cui capolavoro è da alcuni considerato la tragedia Cenodoxus di Jacob Bidermann.
Senza connessione col marinismo e col gongorismo (al quale è anzi anteriore) è l'eufuismo. Quanto allo stile - tutto allitterazioni, antitesi, bilanciamento simmetrico di membri e interrogazioni retoriche - il romanzo del Lyly non rappresentò che una recrudescenza del vecchio cursus e degli schemi retorici che il Medioevo aveva derivato dalla tarda latinità; non sorprende quindi di trovare gli stessi procedimenti del Lyly non solo nel Boccaccio (specialmente nel Filocolo), da cui l'inglese deve averli direttamente imparati, ma in Guittone d'Arezzo e in altri (per es., nell'alto estilo dello spagnolo Guevara, nel cui Libro aureo de Marco Aurelio, ampliato nel Relox de príncipes, 1529, si vedeva un tempo la fonte immediata dell'eufuismo). D'altra parte la predilezione per strane similitudini desunte dagli antichi naturalisti e dagli Emblemata dell'Alciato dà alle pagine dell'Euphues un carattere affine al gongorismo. Per es.: "Poiché come la preziosa pietra santrasta nulla ha nell'esterna apparenza se non quel che sembra nero, ma, rotta, effonde raggi come il sole, così la virtù si mostra ignuda all'occhio esterno, ma, penetrata dal desiderio interiore, risplende come cristallo". Basterà accelerare i tempi scorciando con ellissi perché questo stile assuma tutte le caratteristiche del wit metafisico che il Donne metterà di moda. Del quale wit può offrire un esempio l'Inno al Signore mio Dio, nella mia infermità composto da John Donne otto giorni prima di morire (marzo 1631):
Dacché io sto per giungere a quella sacra dimora ove, insieme al coro dei santi eterni io sarò fatto Tua musica, nell'atto di giungere io accordo lo strumento qui alla porta, e vado tra me pensando prima a quello ch'io debba fare allora.
Mentreché i miei medici pel loro amore son divenuti cosmografi ed io la loro carta, io che giaccio disteso su questo letto, acciocché da loro possa dimostrarsi che questa è la mia scoperta sud-occidentale per fretum febris, di passare a morte per codesti stretti, io mi rallegro che per codesti stretti io vedo il mio occaso; ché, sebbene le loro correntíe non concedano ritorno a nessuno, qual danno può recarmi il mio occaso? Siccome l'Occidente e l'Oriente in tutte le carte distese (ed io son una d'esse) sono una cosa sola, così la Morte confina colla Resurrezione.
È mia dimora il Mare Pacifico? O le Indie Orientali? O Gerusalemme? Comechessia, vie ad essi sono l'Aniano e il Magellano e Gibilterra, tutti stretti, e non altro che stretti, sia dove dimorò Giafet, o Cam, o Sem.
Noi crediamo che il Paradiso e il Calvario, la Croce di Cristo e l'Albero di Adamo si trovassero nell'istesso punto: mira, o Dio, e trova i due Adami congiunti in me: come il sudore del primo Adamo mi copre il volto, il sangue dell'ultimo Adamo mi recinge l'anima.
Così, avvolto nella sua porpora, accoglimi, o Signore, per queste sue spine dammi l'altra sua corona; e come alle altre anime io predicai il tuo verbo, sia questo il mio testo, la predica che io tengo a me medesimo: che il Signore umilia colui che vuole innalzare.
Nel Lyly ricorrono anche frequentemente espressioni del tipo di quella che Longino (De Subl., III, 2) già condannava: "avvoltoi, tombe viventi" (perché divoratori di altri animali); e di quelle di cui si burlava il Quevedo nell'Aguja de Navegar Cultos: "tombas del ocaso, exequias de la luz" (Marino chiama le stelle "dell'esequie del dì chiare facelle", Góngora definisce l'occidente "cerulea tomba fria La que cella las cenizas del dia"). Concetti metafisici di questo genere abbondano in un volume che si può considerare la risoluzione briosa del secentismo, la raccolta di fiabe popolari di G. B. Basile, il Cunto de li Cunti o Pentamerone. Il Basile si vale di ardite metafore a fine di gioco, non già col deliberato proposito di fare la satira d'una maniera letteraria, ma puramente e semplicemente per conferire vaghezza di spiritose invenzioni al suo mondo irreale di fate e d'incantesimi; e costì il concettismo, che a noi moderni appare spesso così insopportabile in composizioni serie, sfavilla come un gaio fuoco d'artifizio. Gli stravaganti fiori della retorica secentesca formano uno scenario adeguato agli stravaganti re, alle strabilianti regine, agli orchi e alla cenerentole del mondo fiabesco del Basile. In un mondo governato dal capriccio, possono perfettamente ambientarsi i capricciosi arabeschi barocchi; nel mondo metafisico delle fate sono legittimi i concetti metafisici. Ecco un passo tra mille che a noi può sembrare una gustosa parodia dell'eufuismo: "Scoppiò in pianto Renza al triste annunzio, e rispose: Oh sciagurata la mia sorte, come presto è calata alla feccia la botte dei miei piaceri! Come è scesa al fondigliolo la pignatta dei miei spassi! Com'è ridotta al rimasuglio la cesta delle mie contentezze! Me misera, ché se ne scorrono con l'acqua le mie speranze, mi vanno in crusca i disegni, e si risolve in fumo ogni mia soddisfazione! Appena ho cominciato a gustare questa salsa reale, che il boccone mi si è fermato in gola!" (versione italiana di B. Croce). O si vedano frasi come: "il Sole col temperino dei raggi rade gli scarabocchi che sulle carte del cielo ha scritto la Notte", o quest'altra, che rasenta la poesia: "la luna, come chioccia, chiama le stelle a beccare le rugiade". Metafore di questo genere pullulano nelle pagine del Basile: tutta la natura, mascherata in sembianze umane, occhieggia maliziosamente nello sfondo come animata da un diabolico buonumore; sicché un corrispondente a quelle pagine può trovarsi solo nei quadri di bizzarri pittori fiamminghi del Cinque-Seicento, un Bosch, un Bruegel: pittori che dipingevano l'inferno come un'incredibile cucina, e sbizzarrivano la fantasia in mostruose bambocciate, accoppiando le forme più strane, rappresentando nanerottoli dal corpo di citriolo e dalle corna di cervo volante, ridicoli spauracchi, e ogni sorta di grotteschi fantasmi. Il Pentamerone è, in un certo senso, il superamento umoristico del secentismo.
Bibl.: B. Croce, Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari 1911; id., Storia della età barocca in Italia, ivi 1929 (il Croce, che è tra gli studiosi che più si sono adoperati ad approfondire la conoscenza del barocco, ripete in conclusione del gusto di questo periodo il giudizio negativo un tempo tradizionale); A. D'Ancona, Seicentismo nella poesia cortigiana del sec. XV, in Studi sulla letteratura italiana de' primi secoli, Ancona 1884; M. Praz, Seicentismo e marinismo in Inghilterra, Firenze 1925; id., Studi sul concettismo, Milano 1934; L. P. Thomas, Góngora et le gongorsme considérés dans leurs rapports avec le marinisme, Parigi 1911; id., Le lyrisme et la préciosité cultistes en Espagne, ivi 1909; A. Farinelli, Marinismus und Gongorismus, in Deutsche Literaturzeitung, XXXIII (1912); E. Sarmiento, Gracian's Agudeza y Arte de Ingenio, in Modern Language Review, XXVII (1932); V. M. Jeffrey, John Lyly and the Italian Renaissance, Parigi 1929; G. Williamson, The Donne Tradition, Cambridge Mass. 1930; E. Holmes, Aspects of Elizabethan Imagery, Oxford 1929; K. M. Lea,Conceits, in Modern Language Review, XX (1925); W. P. Friederich, Spiritualismus und Sensualismus in der englischen Baroichlyrik, Vienna e Lipsia 1932; P. Meissner, Die geistesgeschichtlichen Grundlagen des englischen Literaturbarocks, Monaco di B. 1934; T. S. Eliot, Selected Essays, Londra 1932 (i saggi dell'Eliot, qui raccolti, hanno contribuito assai alla rivalutazione della poesia metafisica nei paesi anglosassoni; a quei saggi s'ispirano i volumi del Williamson, del Leishman, della Bennett, e d'altri); J. B. Leishman, Four Metaphysical Poets, Oxford 1934; J. Bennett, Four Metaphysical Poets, Cambridge 1934; M. W. Croll, The Baroque Style in Prose, in Studies in English Philology, A Miscellany in Honour of F. Klaeber, Minneapolis 1929; H. Cysarz, Deutsche Barockdichtung, Renaissance, Barock, Rokoko, Lipsia 1924; E. Ermatinger, Barock und Rokoko in der deutschen Dichtung, Lipsia 1926; G. Müller, Deutsche Dichtung von der Renaissance bis zum Ausgang des Barock, Wildpark-Potsdam 1930; L. Vincenti, Interpretazione del barocco tedesco, in Studi germanici, I (1935).