VENIER, Sebastiano
– Secondogenito di Moisè e di Elena Donà di Leonardo, nacque a Venezia, parrocchia di S. Maria Formosa, intorno al 1496 e il 4 dicembre 1517 estrasse la Balla d’oro, la qual cosa gli consentì l’ingresso nel Maggior Consiglio all’età di 21 anni anziché dei 25 previsti dalla legge.
Di vivace intelligenza, facile eloquio, colto, ma dal carattere duro e intransigente, non conseguì il dottorato, e tuttavia esercitò la professione di avvocato, dimostrandosi giurista di notevoli capacità. Pur essendo la sua fama legata alla storica battaglia navale di Lepanto (1571), Venier non fece la sua carriera nella flotta e neppure si imbarcò nelle «mude» mercantili; pertanto non va confuso con un omonimo suo contemporaneo, Sebastiano di Giacomo, che fu sopracomito nel terzo e quarto decennio del secolo; fallita invece l’elezione a savio agli Ordini (8 marzo 1520), l’8 luglio dello stesso anno divenne avvocato grande, cioè avvocato ‘dei prigionieri’, persone non necessariamente incarcerate, ma incolpate di qualche reato; il quale ruolo alle dipendenze dell’Avogaria, come pure delle Corti e delle Quarantie, avrebbe mantenuto per diversi anni, affiancandovi anche il saltuario esercizio della professione privata.
Naturalmente il suo nome venne proposto anche per altre magistrature, ma continuò a fare l’avvocato, come risulta da un suo intervento riportato da Marino Sanudo in data 20 giugno 1528: «fo Pregadi per l’Avogaria per expedir il capitanio et patroni de le galie di Alesandria [...], sier Sebastian Venier q. Moisè avocato parloe per sier Bertucci Contarini olim capitanio di dette galie» (I diarii, a cura di R. Fulin et al., 1890-1903, XLVIII, 1897, col. 127).
Oltre che contare sui proventi derivanti dall’attività giuridica, Venier doveva essere ricco di famiglia (nonostante la notifica dei redditi, stilata nel 1537 in unione al fratello Leonardo, dichiari una rendita di soli 170 ducati), dal momento che il 13 maggio 1528, e ancora qualche giorno dopo, e poi il 6 agosto 1529, risulta tra coloro che prestarono danaro alla Signoria, le cui finanze erano state dissestate dalla guerra seguita alla Lega di Cognac.
Eletto avvocato fiscale il 15 gennaio 1530, si adoperò attivamente nell’accusare o difendere vari patrizi; in particolare, l’8 novembre dello stesso anno difese i procuratori dell’ospedale di S. Lorenzo dalle ingerenze del patriarca Girolamo Querini, che rivendicava il diritto di nominarvi il priore; poi, il 7 febbraio 1531, parlò a sostegno dei figli di Lorenzo Pisani dal Banco, accusati di aver aperto gli argini dell’Adige nel Padovano, causando l’allagamento di quasi 45.000 campi. Qualche giorno dopo, il 22 febbraio, rifiutò la nomina di avvocato fiscale, cui era stato nuovamente eletto, e come avvocato dei prigionieri il 7 gennaio 1533 difese le ciurme della «muda» di Fiandra, accusate di inadempienza ai propri doveri.
Eletto nuovamente avvocato grande il 28 maggio 1537, continuò a esercitare tale magistratura per altri sette anni, rinunciando al redditizio e prestigioso bailaggio a Costantinopoli, cui era stato eletto l’8 maggio 1541, per cui soltanto il 14 maggio 1544 poté verificarsi un salto di qualità nella sua carriera, con l’elezione ad avogador di Comun, la magistratura di cui sino allora era stato collaboratore nei dibattiti processuali. Nello stesso anno Venier si sposò; aveva ormai circa quarantasette anni e due figli naturali, Filippo, che si fece prete, e Marco, funzionario della Cancelleria, ma a indurlo al matrimonio fu la morte senza figli dell’unico fratello Leonardo, avvenuta nel 1543. La sposa venne individuata in Cecilia Contarini di Natalino, vedova di Luca Vendramin, che dette a Venier una figlia, Elena, con cui si estinse questo ramo della famiglia.
Il nuovo stato civile e la conseguente collocazione sociale di Venier si tradussero, come si è accennato, in un ulteriore e più prestigioso sviluppo della sua carriera, che avrebbe progressivamente abbandonato la prevalente natura giuridica per assumere quella politica. Savio di Terraferma dal 6 ottobre al 31 dicembre 1546 e del Collegio della milizia da Mar il 18 ottobre dello stesso anno, il 23 aprile 1547 venne nuovamente eletto avogador di Comun e poi, l’11 marzo 1548, duca di Candia.
La nomina a massima autorità dell’isola costituì un decisivo progresso nella carriera di Venier, che rimase a Creta due anni interi, sino all’autunno del 1550, dispiegandovi l’abituale rigore alieno da compromessi nell’impartire giustizia e reprimere prevaricazioni, furti, danneggiamenti. Molti i processi da lui espletati per le controversie dei feudati; esemplare il suo comportamento nella lite promossa da Domenico Aponal contro Benedetto Corner e risolta da Venier il 20 giugno 1549, con l’intimazione a Corner di consegnare le rendite della proprietà contestata, accompagnata dall’invio di propri dipendenti onde controllare l’entità dei raccolti. Accanto all’autorità giudiziaria, Venier cercò (invano, come era toccato ad altri suoi predecessori) di contrastare, nel settore agricolo, la viticoltura che si era molto sviluppata a danno dei cereali, condannando l’isola a reiterate carestie. Va anche osservato, peraltro, che in margine a tanto zelo profuso nell’esercizio dell’alta carica, Venier riuscì anche a coniugare l’interesse privato, procurando a suo figlio Filippo un vicariato nell’isola.
Concluso il mandato, Venier fu savio di Terraferma dall’aprile al 28 giugno 1551, quando venne eletto avogador di Comun, quindi (19 marzo 1552) rifiutò la nomina di provveditore generale a Cipro per assumere quella di savio di Terraferma per la seconda metà dell’anno. Eletto savio alle Acque il 12 marzo 1553, il 25 maggio fu tra gli inquisitori del defunto doge Francesco Donà, quindi (11 giugno) tra i cinque correttori delle Leggi; successivamente, il 3 settembre fu eletto censore, quasi a suggellare con un pubblico riconoscimento la sua integrità, rivestendo tale carica una valenza prevalentemente etica. Il 1° gennaio 1554 entrò a far parte del Consiglio dei dieci, quindi – in un susseguirsi di nomine – il 21 giugno fu eletto provveditore sopra il fiume Piave, nuovamente correttore delle Leggi appena tre giorni dopo (24 giugno), savio alle Acque il 5 luglio. E ancora: savio di Terraferma per il primo semestre 1555 e censore dal 13 gennaio, giudice sulle valli del Dogado il 16 giugno 1556, sopraprovveditore alla Sanità il 2 ottobre, savio di Terraferma per il primo semestre del 1557. Per il rimanente dell’anno e per tutto il successivo non ebbe altre cariche oltre al titolo di senatore, ma poi la carriera politica riprese intensamente con l’elezione a provveditore sopra le Fortezze (6 ottobre 1559); fu poi savio di Terraferma dal 30 novembre 1559 al 30 marzo 1560, allorché divenne savio del Consiglio fino a giugno e, dal 1° maggio, anche membro del Consiglio dei dieci, quindi, con incalzante successione, savio di Terraferma da ottobre a dicembre; eletto savio del Consiglio il 31 dicembre 1560, si dimise il 4 gennaio 1561 per accettare l’indomani il capitanato di Brescia.
A motivare questa elezione stava forse l’opportunità di disporre sul posto di un giurista esperto e di riconosciuta rettitudine, infatti le maggiori preoccupazioni di Venier furono determinate dalle annose liti confinarie che opponevano la comunità bresciana a quella cremonese tra Leno e Montichiari; tornato a Venezia, fu savio del Consiglio dal 1° ottobre 1562 all’8 marzo 1563 e subito dopo entrò commissario ai confini del Friuli, carica cui era stato designato il 28 febbraio dello stesso anno. Eletto del Consiglio dei dieci il 3 settembre 1564, provveditore alle Beccarie il 18 novembre, savio del Consiglio per il primo semestre 1565, ancora chiamato a far parte del Consiglio dei dieci l’8 aprile 1565, conservatore delle Leggi il 9 luglio, il 4 ottobre venne nominato provveditore ai confini della Carnia, quindi (23 giugno 1566) podestà di Verona.
Vi rimase sino all’ottobre del 1567, dedicandosi quasi esclusivamente all’amministrazione della giustizia, cui si applicò con l’abituale rigore «perché l’indulgentia verso i tristi diventa tiranide contra i boni» (Relazioni dei rettori veneti in Terraferma, a cura dell’Istituto di storia economica dell’Università di Trieste, 1977, p. 55).
Reiterata pertanto, o meglio predominante, la denuncia delle prevaricazioni nobiliari ai danni dei più deboli: «Uno de danari imprestadi [...] doppo havute dodeci sententie contra, ha fatto un istrumento di man di nodaro chiarissimo, et sopra quello havute doi sententie contra, ancora muoveva garbuglio, di modo che alteratomi chiamai il cavalliero per farlo mettere in pregion, mi dimandò di gratia tre giorni di termine, gieli diedi et satisfece»; di conseguenza «li debitori si lamentavano di me dicendo che io era aspro, patientia, la mia conscientia non mi dà che faccia elimosina di quello che non è mio» (p. 59). Non migliori i costumi dei singoli quando rivestivano cariche pubbliche, persino la principale di tutte, la Consolaria, i cui membri, pur regolarmente convocati, «se manda a chiamar a casa, et bisogna anche mandarli a cerchar per tutta la città aspettandoli tardi, et se voleno partir a bon’hora per rispetto del aiere veronese, che dà molto su la testa et anco sulle braccia et sulle gambe, chel passa i capelli, le maneghe, et le calze» (p. 63).
Al termine del rettorato, Venier fu nuovamente nominato commissario ai confini (11 dicembre 1567) assieme ad Agostino Barbarigo e Andrea Badoer, per definire con i delegati imperiali i rispettivi domini nella Carnia; ma – come scriveva di lì a poco il nunzio apostolico a Venezia, Giovanni Antonio Facchinetti, al segretario di Stato in data 13 dicembre – i commissari veneti «non saranno per andar così tosto, sendo negotio di lunghissima digestione» (Nunziature di Venezia, VIII, a cura di A. Stella, 1963, p. 321). Essi infatti presero tempo e Venier accettò intanto l’elezione a savio di Terraferma dal 1° aprile 1568 sino al 14 giugno, giorno in cui fu nominato provveditore generale a Corfù, dato l’intensificarsi dei timori sulle mire dei turchi.
Prima di partire, il 22 giugno fece testamento; appare ricco soprattutto di beni mobili, capitali investiti nella Zecca; ricorda i figli Filippo e Marco, ammonendoli di «contentarsi di questo che hanno havuto quasi più che se fusseno stati legitimi»; beneficia la moglie Cecilia, erede universale la figlia Elena, sposata in primi voti con Federico Corner e ora moglie di Francesco Morosini.
Venier rimase a Corfù, porta dell’Adriatico, neppure un anno, cercando soprattutto di avere informazioni sulle mosse dei turchi nella vicina costa greca e rinforzare le difese dell’isola, essendo sempre molto attento a non fornire agli ottomani alcun pretesto di irritazione o disgusto. Savio del Consiglio dall’aprile al settembre del 1569, fu poi eletto nel Collegio della milizia da Mar (22 agosto 1569) e quasi un mese dopo, il 18 settembre, entrò a far parte del Consiglio dei dieci. Subito dopo (16 ottobre) fu inviato come luogotenente a Cipro, dove rimase solo pochi mesi, giusto il tempo di verificare le strutture difensive dell’isola, poiché l’11 febbraio 1570 venne mandato nuovamente a Corfù in veste di provveditore generale; tra le misure adottate, la creazione di una cavalleria leggera.
Si aprì allora un periodo determinante nella vita di Venier, quello che ne fece un eroe della storia veneziana e uno dei protagonisti nelle vicende del Mediterraneo in età moderna; di fatto, questo secondo incarico a Corfù sancì la sua funzione di principale referente del Senato nel settore difensivo dei domini del Levante, ruolo che venne onorato il 15 maggio 1570 con la nomina a procuratore di S. Marco de ultra.
Era tempo: la situazione infatti sarebbe precipitata nell’arco di una manciata di mesi; il 18 marzo un chiaus turco chiese al doge la consegna di Cipro, presto seguita, di fronte alla scontata risposta negativa, dallo sbarco delle truppe di Solimano a Limisso (1° luglio). Negativi per Venezia gli esordi del conflitto: persa in poco tempo tutta l’isola fuorché Famagosta, il 20 dicembre 1570 Venier venne nominato capitano generale da Mar in sostituzione di Girolamo Zane, rivelatosi inadeguato al ruolo e sottoposto a processo. Venier non poteva certamente dirsi esperto di cose marine, non aveva – come si è accennato – mai comandato una nave, men che meno una flotta, pertanto la nomina fu motivata dalla necessità di galvanizzare il morale degli equipaggi, psicologicamente provati dalla prospettiva di doversi cimentare con la marineria ottomana, ritenuta invincibile.
Sotto questo aspetto, Venezia aveva bisogno, più che di un abile uomo di mare, di un comandante dotato di energia, coraggio, alto senso della giustizia, integrità morale, e allora Venier appariva l’uomo giusto; ma va tenuto presente il grande rischio che la Serenissima correva: affidando l’armata navale a un comandante privo della necessaria esperienza, essa metteva in gioco la sua stessa esistenza; se infatti qualche mese dopo, a Lepanto, i turchi avessero vinto, di lì a poco le loro navi sarebbero giunte di fronte alla laguna e avuto la città – una città senza mura – nelle loro mani.
Naturalmente Venier sentì come prioritaria l’urgenza di portarsi a Cipro per recare soccorso a Marcantonio Bragadin, che resisteva a Famagosta, ma il comandante in capo dell’armata cristiana, don Giovanni d’Austria, aveva scelto Messina come luogo del concentramento delle flotte alleate, e lì si recò anche quella veneziana. Di qui, il 16 settembre 1571, quando ormai a Famagosta si era consumata la tragedia, l’armata cristiana, forte di oltre 200 galere, con 30.000 combattenti a bordo e sei gigantesche galeazze comandate da Francesco Duodo, salpò alla volta di Corfù per poi penetrare, all’inizio di ottobre, nel golfo di Corinto. Lì era riunita l’armata turca, comandata da Alì Pascià.
Lo scontro avvenne a Lepanto (non molto lontano da dove, parecchi secoli prima, si erano affrontate le flotte di Cleopatra e Ottaviano); era il 7 ottobre 1571 e si avvicinava la cattiva stagione: ancora pochi giorni e le squadre sarebbero rientrate nei rispettivi arsenali. Nell’ultima grande battaglia a remi della storia, 450 navi e 75.000 uomini si affrontarono in un combattimento decisivo per entrambi; tra le varie cause che determinarono la vittoria dei cristiani, ci fu un evento che questi ultimi giudicarono, descrissero, ritrassero come miracoloso. Il vento, che spirava dalla terra verso il mare, il mare aperto che la flotta ottomana, imbottigliata nel golfo, cercava di guadagnare, improvvisamente cambiò direzione, rallentando la battuta dei rematori che, oltretutto, avevano sulle braccia tre mesi di voga trascorsi a razziare le coste dalmate. Pertanto le galeazze di Duodo, che montavano cannoni di grande potenza, ebbero buon gioco a decidere la battaglia. Per gli ottomani fu un massacro, per i cristiani una vittoria memorabile che ispirò la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso e venne ritratta nell’immensa tela di Andrea Vicentino a palazzo ducale, con i due comandanti, Venier e Alì Pascià, che dal cassero delle loro ammiraglie sembrano sfidarsi alla prova risolutiva.
Sin qui la gloria, ma in seguito dovette manifestarsi l’inesperienza di Venier nella sua incapacità a sfruttare la vittoria; a questo contribuirono non poco il contrasto che l’opponeva a don Giovanni d’Austria (il quale aveva imposto un rinforzo di soldati spagnoli nelle galere veneziane) e la diffidenza del papa Pio V, per cui il 3 febbraio 1572 il Senato lo sostituì con Jacopo Foscarini, destinando Venier – pur conservandogli l’autorità suprema – alla custodia dell’Adriatico. Personalmente egli avrebbe voluto continuare la guerra distruggendo le fortezze turche fra Cattaro e Castelnuovo, in Albania, ma la politica decise altrimenti e un anno dopo venne richiamato a Venezia, dove fu savio del Consiglio per il primo semestre del 1573 e poi del Consiglio dei dieci il 4 ottobre e, qualche giorno dopo, provveditore all’Arsenale fino a tutto il settembre del 1574. Negli anni che seguirono fece parte quasi ininterrottamente del Consiglio dei dieci o della sua zonta, essendovi stato eletto il 7 febbraio e il 6 ottobre 1574, il 6 febbraio, il 2 ottobre e l’11 dicembre 1575 e il 4 ottobre 1576. Fu anche savio del Consiglio per il periodo aprile-settembre del 1574 e del 1575, quindi per il primo semestre del 1577; venne eletto provveditore all’Arsenale il 20 dicembre 1574 e il 14 aprile 1576, provveditore sopra il Criminal il 22 settembre 1576 e correttore della Promissione ducale il 7 giugno 1577.
Qualche giorno dopo, l’11 giugno, fu eletto lui stesso doge con voto unanime; aveva 81 anni, la voce era ormai indebolita e soffriva di sciatica, ma conservava il temperamento deciso, e talvolta rude, di un tempo. Il suo fu un breve dogato, appena otto mesi.
Morì infatti il 3 marzo 1578 e fu sepolto nella chiesa di S. Maria degli Angeli a Murano anziché nella tomba di famiglia, come pure aveva ordinato nel testamento del 1568; nel 1907 la salma venne traslata nella basilica dei Ss. Giovanni e Paolo, il pantheon veneto che conserva la maggior parte delle arche dei dogi.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Misc. Codd., s. 1, 20, Storia veneta: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de’ patritii veneti, VII, p. 347; Segretario alle voci, Elezioni Pregadi, reg. 1, cc. 26, 33, 39, 40, 48, 51, 53; reg. 2, cc. 7, 8, 47, 52, 58, 62, 73; reg. 3, cc. 1, 2, 3, 5, 7, 12, 22, 34, 40, 42, 53, 63, 88, 101, 107; reg. 4, cc. 2, 4, 5, 6, 24, 28, 29, 44, 49, 66, 91, 93, 102; Capi del Consiglio dei X, Lettere di rettori, b. 22 (Brescia), nn. 77-79, 85-86, 90, 97-100 (1561), 102-103 (1562); b. 292 (Corfù), nn. 44-46 (1568), 52-55 (1570), 56-59, 68-69, 72-76 (come capitano generale da Mar, 1571-72); Dieci savi alle Decime, Redecima del 1537, b. 93/517; Notarile, Testamenti, b. 196/969; Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, Mss. It., cl. VII, 18 (= 8307): G.A. Capellari Vivaro, Il Campidoglio veneto, IV, c. 164r; Biblioteca del Museo Correr, Cicogna, 3635: A.F. Bon, Collezione genealogica, storica, araldica della veneta patrizia famiglia Venier [...] 1803, c. 155rv e passim; Provenienze diverse, 677 C/III/, f. 36 (processi da lui giudicati a Candia); M. Sanudo, I diarii, a cura di R. Fulin et al., XXVIII, XLVII-XLIX, LI-LVIII, Venezia 1890-1903, ad ind.; Nunziature di Venezia, VIII, a cura di A. Stella, Roma 1963, pp. 201, 298, 321; Relazioni dei rettori veneti in Terraferma, a cura dell’Istituto di storia economica dell’Università di Trieste, IX, Podestaria e capitanato di Verona, Milano 1977, pp. 55-63.
E.A. Cicogna, Saggio di bibliografia veneziana, Venezia 1847, p. 332 (orazioni in suo onore); G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, XCII, Venezia 1858, pp. 378-399, 405-409; P. Molmenti, S. V. e la battaglia di Lepanto, Firenze 1899 (alle pp. 283-349 si trova la Relatione del cl.mo messer S. V. Procurator, et hora Serenissimo Principe, del suo Capitaneato Generale da mare, la quale fu presentata a 29 dicembre 1572); Id., Sebastiano Veniero dopo la battaglia di Lepanto, in Nuovo Archivio veneto, 1915, vol. 30, pp. 5-146 (con ricca appendice documentaria); F. Sassi, La politica navale veneziana dopo Lepanto, in Archivio veneto, s. 5, 1948, n. 38-41, p. 125; C. Dionisotti, Lepanto nella cultura italiana del tempo, in Il Mediterraneo nella seconda metà del ’500 alla luce di Lepanto, a cura di G. Benzoni, Firenze 1974, p. 135; A. Da Mosto, I dogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Firenze 1977, pp. 287-297 e passim; Il Serenissimo doge, a cura di U. Franzoi, Treviso 1985, pp. 3, 66, 180, 205, 287, 304; F. Seneca, Il mancato soccorso di Nicolò Donà a Famagosta nel 1571, in Römische historische Mitteilungen, 1989, vol. 31, p. 220; W. Panciera, Il governo delle artiglierie. Tecnologia bellica e istituzioni veneziane nel secondo Cinquecento, Milano 2005, pp. 22, 24, 70, 76, 78, 81, 85; N. Capponi, Lepanto 1571. La lega santa contro l’impero ottomano, Milano 2008, ad ind. (in partic. pp. 192 s.); U. Tucci, Venezia e dintorni. Evoluzioni e trasformazioni, Roma-Venezia 2014, pp. 99, 101, 254.