FLORIGERIO, Sebastiano
Figlio di un "maistro Iacobo de Bononia", nacque probabilmente a Conegliano tra il 1500 e il 1505, come si può dedurre da un documento del 28 giugno 1523 relativo al pagamento di alcuni dipinti eseguiti nel castello di Conegliano, in cui il F. è citato con la qualifica di maestro (Poz, 1987, p. 387). L'assenza di espliciti riferimenti alla cultura pittorica coneglianese e trevigiana del primo Cinquecento nella produzione giovanile del F. ha indotto alcuni studiosi a supporre che la formazione dell'artista sia avvenuta in Friuli, e più precisamente all'interno della bottega di Pellegrino da San Daniele, con cui egli avrebbe collaborato al completamento del ciclo di affreschi nella chiesa di S. Antonio Abate a San Daniele, ultimato nel 1522. Tuttavia, alla luce di più recenti indagini, proprio le parti per cui la critica aveva più insistentemente proposto il nome del F., sono state riconosciute come "l'espressione più tipica della maturità stilistica di Pellegrino" (Bonelli, 1988, p. 103). Inoltre, se spettano effettivamente al F. le quattro tele con i Patriarchi, oggi nel duomo di Conegliano, databili intorno al 1523, bisognerà pensare piuttosto a un suo precoce orientamento verso i modi di Giovanni Antonio Pordenone, che a quella data aveva già lasciato in zona importanti testimonianze della sua arte. Comunque sia, alcuni documenti individuati recentemente presso l'Archivio di Stato di Treviso (Poz, 1987, pp. 387 s., 398 n. 8) attestano che nei primi mesi del 1525 il F. si trovava in Friuli, dove stava attendendo all'esecuzione della pala dell'Immacolata Concezione (presso le Gallerie dell'Accademia di Venezia).
L'opera, commissionatagli dalla Confraternita dell'Immacolata ed ultimata entro il 27genn. 1525, consta di uno scomparto rettangolare raffigurante la Madonna con il Bambino, s. Anna e i ss. Rocco e Sebastiano e di una cimasa centinata con S. Giovanni Evangelista tra i ss. Francesco e Antonio da Padova. Essa costituisce il primo caposaldo sicuro dell'attività del F., che a tale data mostra di aver meditato non solo sul Pordenone, ma anche e soprattutto su alcuni brani del ciclo affrescato da Pellegrino nella chiesa di S. Antonio Abate a San Daniele.
Altri documenti resi noti da Joppi (1890, p. 68) informano che il 28 ag. 1525 il F., allora domiciliato a San Daniele, si impegnava a dipingere una pala per la chiesa di S. Maria di Villanova e il 27 novembre di quello stesso anno a sposare, stipulando i relativi patti dotali, la figlia di Pellegrino da San Daniele. Da quest'ultimo documento apprendiamo che era stato "per plures annos" nella bottega di Pellegrino, il quale, oltre a trattarlo come un figlio, gli aveva trasmesso "ex corde" le sue conoscenze in campo pittorico, rendendolo più esperto; il matrimonio sarebbe avvenuto di lì a due anni, ma nel frattempo era fatto divieto al F. di lavorare in proprio. A questo proposito può essere utile ricordare che all'inizio dello stesso mese Pellegrino da San Daniele aveva avanzato la propria candidatura per l'esecuzione del polittico dei Battuti che, privo della cornice e della cimasa originarie, si trova attualmente al Museo archeologico nazionale di Cividale. Destinato in origine alla chiesa cividalese di S. Maria dei Battuti, esso è costituito da una tavola centrale raffigurante la Madonna con il Bambino tra le quattro vergini aquiciesi e i ss. Giovanni Battista e Donato; gli scomparti laterali ospitano le figure di S. Sebastiano e di S. Michele Arcangelo, mentre in due riquadri di misure inferiori sono dipinti due angioletti in atto di reggere dei drappi. Sebbene i documenti parlino solo ed esclusivamente di Pellegrino, che portò a compimento l'impresa tra il 14 ott. 1526 e il 19 giugno 1528, la critica è profondamente divisa circa il ruolo svolto dai due artisti. Ai sostenitori della totale autografia pellegrinesca si contrappone, così, un nutrito gruppo di studiosi che attribuiscono al F. un diverso grado di responsabilità, variante dall'esecuzione dei soli scomparti laterali alla realizzazione di gran parte dell'opera se non addirittura dell'intero polittico. Le evidenti analogie con la pala dell'Immacolata Concezione inducono a supporre che il F. possa effettivamente aver svolto un certo ruolo nell'ideazione e fors'anche nell'abbozzo dell'opera, che dal punto di vista pittorico si presenta comunque come un insieme unitario. Non dobbiamo dimenticare tuttavia che nel gennaio del 1528 (dunque diversi mesi prima della consegna del polittico) il F. aveva già sciolto i suoi legami con Pellegrino e stava lavorando in proprio per la comunità di Gemona e per diversi altri committenti udinesi, tra cui il luogotenente veneto G. Moro (Poz, 1987, pp. 388, 398 n. 10). In ogni caso, il 26 genn. 1529 il F. (preferito dai committenti a Pellegrino, che anche in quell'occasione aveva avanzato la propria candidatura) stipulò il contratto per l'esecuzione della pala di S. Giorgio, raffigurante il santo in atto di trafiggere il drago, mentre la principessa assiste atterrita all'evento sulla destra e s. Giovanni Battista, dal lato opposto, volge lo sguardo verso l'apparizione miracolosa della Madonna con il Bambino che sovrasta la scena, circondata da un vorticoso gruppo di angioletti.
Destinata all'omonima chiesa udinese, in base agli accordi intercorsi tra le parti, l'opera fu ultimata entro il 24 aprile di quello stesso anno. Il recente restauro cui è stato sottoposto il dipinto ha consentito il recupero della cromia originaria che, risultando caratterizzata da tinte piuttosto vivaci, di fatto smentisce il luogo comune di una supposta predilezione dell'artista per i colori cupi; come osservato dalla critica, nell'insieme l'effetto chiaroscurale resta tuttavia prevalente, giustificando l'attribuzione al F. da parte del Vasari di una "maniera cruda e tagliente", collegata all'uso "di ritrarre rilievi e cose naturali a lume di candela" (Furlan, 1987, p. 225). Pervasa da un senso di moto rotatorio e da una dinamica interna certamente imputabile alla conoscenza di opere del Pordenone pressappoco coeve, come le portelle dell'organo del duomo di Spilimbergo, la pala in questione resta uno dei massimi raggiungimenti dei F. che, nonostante i limiti derivatigli da un'educazione provinciale e da un'attività esplicata per lo più in aree marginali, fu certamente uno dei pittori più originali operanti nell'entroterra veneto nella prima metà del Cinquecento.
L'11 maggio 1529 il F. fu bandito dalla provincia di Udine per aver ucciso un uomo. È probabile che, dopo aver trovato momentaneo riparo in un ignoto convento, come precisa lo stesso F. (vedi F. Blasich, Il San Giorgio del F. tela esistente nella parrocchia omonima di Udine, Udine 1885, p. 19), egli si sia trasferito a Treviso, eseguendovi il Cristo morto attualmente di proprietà della Cassa di Risparmio di Treviso. Già attribuito dal Longhi (1928) al cosiddetto "amico friulano del Dosso", il suggestivo dipinto presenta stringenti analogie con alcune opere eseguite durante il successivo soggiorno padovano: in particolare con il polittico di S. Bovo, destinato alla sala capitolare della Confraternita dei bovai (attigua alla chiesa dei Torresino), che il pittore ultimò il 7 maggio 1533.
Attualmente smembrato tra diversi musei e collezioni private, quest'ultimo dipinto constava di uno scomparto centrale centinato raffigurante Cristo morto sorretto dalla Vergine e un offerente in basso a sinistra (oggi nell'Accademia dei Concordi a Rovigo), di due ante laterali con S. Rocco e S. Sebastiano (attualmente al Museo civico di Padova) e di una predella originariamente tripartita, con scomparti raffiguranti rispettivamente S. Donato, i Ss. Prosdocimo e Antonio da Padova e S. Giustina (i primi due appartenenti a una collezione privata e il terzo perduto). Come precisato dalla critica, stilisticamente l'opera si configura come "il punto di approdo delle esperienze maturate precedentemente dall'artista in Friuli" (Furlan, 1991, p. 175). Completato dalle predelle, di impostazione più tradizionale, il polittico era probabilmente inserito, come già la pala di Cividale, entro una sontuosa cornice lignea. Insieme all'affresco con la Deposizione dalla croce, tuttora conservato all'interno dell'oratorio di S. Bovo, esso costituisce l'unica testimonianza superstite dell'attività padovana dei F. che, stando alle fonti locali, avrebbe dipinto anche una "tavola a fresco" nella sala inferiore dell'oratorio e alcune figure "oltre il naturale" sotto l'arco del portale del palazzo del Capitano costruito su disegno del Falconetto nel 1532 (Brandolese, 1795, p. 96).
Oltre al Concerto dell'Alte Pinakothek di Monaco, negli anni della maturità (compresi tra il 1529, anno della partenza dal Friuli, e il rientro a Cividale, dove il F. è nuovamente documentato a partire dalla fine del 1538) potrebbero rientrare un'Andata al Calvario di ubicazione ignota (Poz, 1987, pp. 395 s.) e un secondo dipinto del Museo d'arte occidentale di Odessa raffigurante S. Elena che ritrova le croci, la cui attribuzione oscilla attualmente tra un pittore veneto della prima metà del Cinquecento e Stefano Dall'Arzere (V. Markova, Inediti della pittura veneta nei musei dell'U. R. S. S., in Saggi e memorie di storia dell'arte, XIII [1982], p. 21, fig. 12). Il F. si cimentò anche in campo ritrattistico: tuttavia l'unica opera pervenutaci, il ritratto di Raffaele Grassi (padre del pittore Giambattista) conservato agli Uffizi, è tuttora problematica quanto a cronologia, e la sua datazione oscilla tra la fine del primo soggiorno friulano e la seconda fase di attività dell'artista in questa regione (Poz, 1987, p. 396). Ancora più problematica è la ricostruzione della sua attività grafica: infatti, nessuno dei vari fogli sinora attribuitigli dalla studiosa presenta i requisiti indispensabili per una attribuzione sicura (ibid., p. 401 n. 46). Il 27 nov. 1538 il F. stava dipingendo una pala per la cappella di S. Giuseppe nel duomo di Cividale: l'opera, da taluni ritenuta perduta ma da altri identificata invece con quella tuttora esistente in loco con l'attribuzione a Sebastiano Secante, è cautamente accostata da Tempestini (1974, p. 90) al F. per taluni richiami a Pellegrino e per il "gusto archeologico alla Falconetto nell'architettura", che ben risponderebbero al gusto dell'artista.
Posteriormente a tale data il F. svolse una serie di attività documentate grazie alle ricerche dello Joppi (1887, p. 54; 1890, pp. 68 s.): nel 1539 fornì un gonfalone per la confraternita cividalese dello Spirito Santo; nel 1540 figura come arbitro in una contesa e l'anno successivo riceve dei pagamenti per un affresco sopra la porta dei convento di S. Maria in Valle. Infine il 19 maggio 1543 ottenne la revoca del bando che gli precludeva l'accesso a Udine; tuttavia proprio in tale anno si trasferì a Conegliano, dove prese in affitto una casa. Nuovamente a Cividale nel 1550, anno in cui ricevette l'incarico di dipingere una pala con S. Orsola per le monache del convento di S. Maria in Valle, morì in data imprecisata. Un generico, ma comunque utile, termine ante quem è costituito dal 29 dic. 1564, data in cui la moglie Aloisa, redigendo testamento, è indicata come vedova (Poz, 1987, pp. 397, 402 n. 60).
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