Se questa è una capitale
La crisi che ha travolto, nell’ottobre 2015, il sindaco Ignazio Marino non è che l’ultimo capitolo di una storia secolare. Proclamata capitale per legge 4 volte dal 1861, Roma non lo è mai stata veramente.
Più che il simbolo della nazione, è una città grande in cui fare grandi affari.
Fra tutte le capitali europee Roma vanta un record ineguagliabile. È il numero delle volte che è stata proclamata capitale del medesimo Stato. Ma già la prima delle tante suonava come un monito del suo destino, ovvero quello di essere l’unica capitale-non capitale del mondo.
Accadde il 27 marzo del 1861, quando il Parlamento di palazzo Carignano a Torino, al colmo dell’eccitazione per aver tenuto a battesimo appena 10 giorni prima lo Stato unitario, acclamò una mozione che proclamava Roma capitale del Regno d’Italia. Il dettaglio che in quel momento la città eterna fosse già capitale, ma di uno Stato estero, fu considerato insignificante rispetto al significato politico del gesto.
Per la proclamazione vera e propria si dovettero attendere altri 10 anni.
Arrivò con una legge del febbraio 1871, 5 mesi dopo la breccia di Porta Pia. Ancora 75 anni e dal Regno si passò alla Repubblica. In mezzo ai brividi: fra i vincitori della Seconda guerra mondiale non mancava chi avrebbe voluto imporre al nostro paese un salto indietro di un secolo nella storia, facendolo di nuovo in pezzi.
La Costituzione del 1948 certificò il pericolo scampato con una terza proclamazione: l’articolo 114. Lì i costituenti scrissero senza tentennamento alcuno che «Roma è la capitale della Repubblica».
Seguirono alcuni provvedimenti per ‘Roma capitale’, fino al capolavoro del 3 ottobre 2010 quando al Comune di Roma, com’era sempre stato definito, venne cambiato nome per legge.
Da ‘Comune di Roma’ a ‘Roma Capitale’. E siccome alle follie della politica non c’è mai fine, ecco nel gennaio 2012 addirittura una legge – surreale e di poche righe – della Regione Lazio: «Roma è la Capitale della Repubblica e la sede del governo e dei ministeri». Non una legge qualsiasi, bensì ‘statutaria’, come se fosse una modifica di quella specie di costituzione regionale che è lo statuto. Nessuno in quel consiglio regionale, che sarebbe passato alla storia per lo scandalo dei fondi di partito usati da alcuni politici per scopi personali, si interrogò sulla circostanza che non rientra nelle prerogative regionali stabilire quale sia la capitale di uno Stato sovrano.
L’importante era affermare il principio, a dispetto dell’oltraggio a un buonsenso che latita spesso e volentieri.
Non c’è paese europeo nel quale il nome della capitale sia accompagnato per legge dal sostantivo – appunto – ‘capitale’, come succede a Roma. Perché in nessun paese c’è il bisogno di esorcizzare uno sconcertante dato di fatto. E cioè che Roma non è mai stata considerata in realtà come la capitale d’Italia. Una circostanza capace di provocare un effetto collaterale unico nell’Occidente. Siccome le capitali sono il simbolo delle nazioni, se la capitale non esiste non c’è neppure la nazione. Questa è la spiegazione più logica dello stato in cui da molti decenni versa questa città. E la crisi che ha travolto nell’ottobre del 2015 il sindaco Ignazio Marino non è che l’ultimo capitolo di una storia che ha le sue radici profonde nella mancanza di identità.
Dal 1951, anno del primo censimento del dopoguerra, Roma ha raddoppiato i propri abitanti, allagando il territorio con orrori edilizi di ogni genere. Uno sviluppo frenetico e sconclusionato che non ha avuto eguali in altre metropoli italiane. Gli stupri ambientali sono stati perpetrati da speculatori senza scrupoli con la complicità di una classe politica mediocre e inerme, spesso eterodiretta dalla stessa speculazione. Nel palazzo Senatorio si sono alternati sindaci prevalentemente modesti, privi dello standing necessario al primo cittadino della capitale di una delle potenze economiche occidentali.
Ma quello che è accaduto nel secondo dopoguerra è la replica di quanto, sia pure in sedicesimi, si era verificato durante il Regno d’Italia. Fin dai primi giorni della proclamazione, la capitale è stata oggetto di scorribande affaristiche senza precedenti nella penisola.
Protagonisti, i nobili al soglio pontificio e le corporazioni curiali che nello sviluppo edilizio necessario a una capitale avevano individuato immense fonti di profitto. La rendita fondiaria cresceva vertiginosamente, e all’ombra della retorica risorgimentale era la cosa che sembrava interessare alla politica del giovane Regno più di ogni altra cosa. Anche dell’esigenza di fare di Roma una capitale autentica. Così, mentre dappertutto si aprivano cantieri, il Parlamento si riuniva in una specie di aula di legno nel cortile di palazzo Montecitorio, sorretta da una intelaiatura di ferro.
Dove d’estate si moriva di caldo e d’inverno si crepava dal freddo.
Andò avanti così per 29 anni, finché la struttura venne dichiarata pericolante e inagibile, e da allora, per 18 anni, i deputati si riunirono in una sede provvisoria. La nuova aula, realizzata nel retro di Montecitorio in un ampliamento del palazzo seicentesco, venne inaugurata solo nel 1918, cioè 47 anni dopo la proclamazione della capitale del Regno.
Ma il cemento armato non era ancora così diffuso: la prima opera pubblica realizzata con quella tecnologia fu un ponte sul Tevere (ponte Risorgimento) costruito nel 1911. E lo sviluppo urbano manteneva un proprio ordine, pur fra le violenze inferte dagli sventramenti fascisti. Poi tutto, con le nuove tecnologie edilizie, ha preso una piega diversa.
E mentre il cemento inondava l’Agro romano, saturando di brutture legali e orrori abusivi tutta l’area immensa racchiusa nei 69 chilometri del Grande raccordo anulare, un altro bubbone ingigantiva a vista d’occhio. Una città così estesa aveva bisogno di servizi estesi. Dunque tanti posti di lavoro, che a loro volta significano tanti voti. In mano a una politica priva di visione – per la quale Roma era sempre stata non la capitale, il simbolo di una nazione, ma una città grande in cui fare grandi affari – i servizi per la collettività si sono facilmente trasformati in serbatoi clientelari. Senza qualità, efficienza, orgoglio di appartenenza. La mancanza di investimenti in infrastrutture ha completato l’opera, creando i presupposti per una situazione ambientale critica. Roma è la metropoli europea con il minor numero di chilometri di linee metropolitane e il maggior numero di automobili: più di 70% residenti. Cifra che sale fino a sfiorare il rapporto di uno a uno se si considerano anche gli altri mezzi di trasporto, comprese le centinaia di migliaia di quelli a 2 ruote.
E mentre nessuno si poneva seriamente il problema di come affrontare la questione cruciale della mobilità, le società municipalizzate si moltiplicavano, gonfiandosi come panna montata. Indifferenti alla crisi finanziaria, ai tagli di bilancio, ai debiti astronomici. Ancora nel 2013 il sito Internet comunale informava che le società partecipate davano lavoro a 37.000 persone. Un esercito al quale sommare quello dei 24.000 dipendenti diretti del Comune, per un totale ampiamente superiore alle 60.000 unità. Numero più che doppio di quello dei dipendenti Fiat in Italia, che fa di ‘Roma Capitale’ la seconda azienda italiana dopo le Poste, considerando anche il personale delle aziende private che lavorano in appalto per il Comune assolvendo compiti precedentemente affidati alle strutture capitoline, ormai incapaci di affrontarli per obesità e inadeguatezza. Una città in mano a una politica debole orientata dalle lobby e dagli interessi affaristici, con una struttura enorme dominata dalle dinamiche clientelari e infiltrata dalla corruzione fino a essere definita ‘compromessa’ da un assessore (Stefano Esposito, l’ultimo assessore alla Mobilità della giunta di Ignazio Marino), non poteva che rappresentare l’humus ideale per le penetrazioni criminali. Mafia Capitale si innesta su questo terreno. E al di là delle note spese su cui è scivolato Marino non si può capire quello che è successo a Roma se non partendo proprio da qui.
Una città senza trasporto pubblico
- Parco veicoli: attualmente all’ATAC il 40% del parco veicoli è fermo. 900 mezzi su 2300, molti dei quali per riparazione, altri per fornire pezzi di ricambio perché la gestione degli acquisti per le officine è in tilt.
- Manutenzione: il 55,18% degli interventi per le riparazioni di autobus dell’ATAC non riesce ad aggiustare la vettura.
- Miniautobus elettrici: Roma ne aveva più di ogni altra città europea. Il Giubileo del 2000 consacrò l’orgoglioso primato. Quello del 2015 certificherà invece la loro prematura estinzione. Da 60 che erano – tanto la famiglia dei minibus arrivata a Roma 20 anni fa si era allargata – ne sono rimasti in circolazione 8. Gli altri sono in un cimitero a Trastevere: le batterie sono esauste e i soldi per sostituirle non ci sono.
- Età media: l’età media dei veicoli dell’ATAC è di 10 anni.
- Dipendenti: ATAC ha lo stesso numero di dipendenti di Alitalia: 11.900 (inclusi 84 dirigenti e 240 quadri). I dirigenti ATAC hanno retribuzioni che arrivano a 350.000 euro all’anno.
- Controllori: su 11.900 dipendenti dell’ATAC ci sono appena 300 controllori.
- Ore lavorative: un autista di autobus a Roma lavora 700 ore l’anno, a Napoli 850, a Milano 1200.
- Malattie: i giorni di malattia per il 70% dei casi si verificano a ridosso dei periodi di riposo.
- Biglietti: il 40% dei passeggeri viaggia senza biglietto.
- Bilancio: per l’ATAC il 2014 si è chiuso con un passivo di 141 milioni di euro. Il report di gestione del primo quadrimestre del 2015 segna una perdita di 58 milioni di euro; il 2015 si chiuderà con un passivo di almeno 150 milioni di euro.
- Percorrenza: i chilometri percorsi dai mezzi sono scesi dai 206 milioni del 2009 ai 157 milioni del 2013.
- Scioperi: dal 2009 si sono registrati 521 scioperi.
- Sciopero bianco: a partire dal 1° luglio, data di inizio dell’obbligo di timbrare il cartellino e conseguente inizio dello sciopero bianco, i treni scartati per malfunzionamenti sono aumentati del 200% rispetto a quelli mandati in rimessa nel mese di giugno. Più 300% rispetto alle prime 3 settimane di luglio 2014.
- Assenteismo: nel servizio di superficie il tasso di assenza medio tra i 6912 addetti è del 13,9%, ma per 1002 lavoratori il tasso di assenza è di oltre il 24%. Sono 2458 invece i lavoratori virtuosi, vale a dire quelli che si assentano per meno del 6% delle giornate lavorative. Per i 1856 addetti della metropolitana e delle ferrovie urbane il tasso di assenze medio è dell’11%, ma 245 lavoratori si assentano più del 24% dei giorni lavorativi. Sono 848 i dipendenti virtuosi.
Roma al 52° posto per qualità della vita
Secondo la classifica Quality of living della Mercer – in questa edizione sono stati analizzati 10 parametri chiave, dall'ambiente socio-politico alla sanità, dai servizi pubblici all'istruzione di 230 città di tutto il mondo – Roma occupa il 52° posto nella classifica delle città con la miglior qualità della vita, in cui il primo posto spetta a Vienna. Milano è al 41° posto e tallona Londra al 40°. Confrontando le specifiche di Roma e Milano nei parametri che compongono l’indice, si nota che la distanza relativa tra i due centri è invariata rispetto all’edizione 2014, così come nel medio termine. Roma continua a offrire un ambiente naturale più attraente, ma un sistema di trasporto pubblico meno efficiente, in un contesto politico, sociale ed economico meno favorevole al business.
Emergenza rifiuti
Il Comune di Roma, nonostante la situazione di sporcizia in cui versa gran parte della città, ha rinnovato l’affidamento all'AMA per 15 anni e per 11 miliardi di euro, pur con un costante monitoraggio con metodologia scientifica e con report da una parte della qualità erogata e dall'altra della qualità percepita del servizio. In caso di report negativi è previsto l'affidamento di alcune aree a privati. La delibera è passata con 22 favorevoli e 14 contrari, e un terzo dei consiglieri assenti.