scuola (scola)
La locuzione ‛ tenere s. ', iterata sinonimicamente con ‛ leggere ', cioè con " tenere lezioni " di livello universitario, appare quanto mai appropriata in Fiore CLXIV 4, dove la Vecchia garantisce alla giovinetta che, se vorrà seguire i suoi consigli, diverrà dottissima nella pratica dell'amore, tanto da poter dare lezioni ad altri (tu terrai scuola e leggerai), nonostante che per suo conto ella si sia fatta la propria cultura amorosa senza frequentare corsi teorici: I' era bella e giovane e folletta, / ma non era a la scuola de l'amore / istata (Fiore CXLVIII 2).
In Cv II XII 7 esiste una distinzione fra le scuole o lezioni ordinarie, che si tenevano nei conventi, e le disputazioni, o discussioni comuni, che erano riserbate agli scolari se ristrette, e cui invece, se generali e pubbliche, erano ammessi anche altri cultori di filosofia (da questo imaginare cominciai ad andare là dov'ella [la filosofia] si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti; v. oltre). Ancora unito a ‛ leggere ', in Pd XXIX 70 'n terra per le vostre scole / si legge che...: " cioè per le scuole de la Santa Teologia... da' maestri de la Santa Teologia " (Buti).
Indica la cultura che si acquista, la " dottrina " che s'impara dai testi mondani, in Pg XXXIII 85: nonostante tutta la sua buona volontà D. non riesce a comprendere appieno quel che Beatrice gli narra nel Paradiso terrestre, ed essa gli dichiara che ciò avviene perché conoschi ... quella scuola / c'hai seguitata, e veggi sua dottrina / come può seguitar la mia parola; / e veggi vostra via da la divina / distar cotanto, quanto si discorda / da terra il ciel che più alto festina. Analogamente, nelle parole di Virgilio (Pg XXI 33): io fui tratto fuor de l'ampia gola / d'inferno per mostrarli [a D.], e mosterrolli / oltre, quanto 'l potrà menar mia scola, " cioè la mia dottrina. E questo dice: imperò che, secondo la lettera, Dante non può comprendere de la dottrina di Virgilio, se non la punizione dei dannati, e la purgazione dei salvati, come appare per lo sesto dell'Eneide di Virgilio " (Buti).
Significa " schiera ", " compagnia ", in If IV 94, dove si parla dei poeti che fanno gruppo intorno a Omero (Così vid'i' adunar la bella scola / di quel segnor de l'altissimo canto / che sovra li altri com'aquila vola), e in Pg XXXII 79: dinanzi a Pietro, Giovanni e Iacopo, sul monte Tabor, Gesù si presenta trasfigurato nella pienezza della sua gloria, contornato da Mosè ed Elia, i quali però sono scomparsi quando la visione ha termine, e la scuola rimane dunque priva della loro presenza: Pietro e Giovanni e Iacopo condotti / e vinti, ritornaro a la parola / da la qual furon maggior sonni rotti, / e videro scemata loro scuola / così di Moïsè come d'Elia.
La scuola al tempo di Dante. - Se qualcosa sappiamo delle scuole de li religiosi della Firenze dugentesca che D. afferma di aver frequentato (Cv II XII 7), scarse sono le notizie su altri tipi di scuole. L'istruzione elementare sembra sia stata impartita per lungo tempo soprattutto dal clero, anche se aperta a molti che più tardi intrapresero carriere secolari. La presenza nella città di qualche maestro laico è cosa certa già nel secolo XII; il retore Buoncompagno da Signa, ad esempio, si vanta di aver imparato il latino nello spazio di sedici mesi da un doctor fiorentino alla fine di quel secolo.
Ai tempi di D., in Firenze, esisteva una categoria di doctores puerorum. S. Debenedetti ne rintracciò un certo numero in documenti notarili, e quattro prima del 1300: " Romanus populi S. Martini Episcopi " (1277) che apparteneva alla stessa zona dove D. viveva; " Ser Donato q. Guidi, pop. S. Trinitatis " (1292); " Ciuccius, fil. q. Monaldi de Perugio, qui moratur Flor. in pop. S. Gregorii " (1295); " Ser Albertinus fil. q. Iuntae e pop. S. Niccolay " (1297). Il Davidsohn fornì una testimonianza ancora anteriore, tratta da un documento del 1275, concernente un " Fantinus magister puerorum f. olim Salvi ". Il tipo d'insegnamento offerto è indicato da un documento del 1304 edito dal Debenedetti. In esso si legge che " Clementia doctrix puerorum, ux. Marchesis q. Bencii pop. S. Mariae Maioris " s'impegnava a istruire un fanciullo di nome Andrea a leggere e scrivere, e a insegnargli il Salterio, Donato e gli instrumenta, cioè gli atti notarili. Quanto meno col 1316 i doctores puerorum erano organizzati in un'arte insieme con i maestri di abaco e di grammatica. I maestri di abaco stavano in botteghe e preparavano i giovani alla carriera commerciale, insegnando loro in particolare a capire i libri contabili e a comporre lettere commerciali. Il nome più antico di tali maestri trovò il Debenedetti in un contratto del 1313, dove si legge che " Bettus q. Feducci " del popolo di S. Donnino s'impegnava a insegnare a un fanciullo di nome Giovanni a " leggere et scribere omnes licteras et rationes, et quod... sit sufficiens ad standum in apotecis artificis ". Quanto ai grammatici, che fornivano un'educazione letteraria più avanzata dei doctores puerorum, lo stesso Debenedetti pubblicò un contratto del 1299 tra " Magister Burgensis condam magistri Gerardi populi S. Mariae Maioris, professor gramaticae " e il proprio " repetitor ", Ser Berlingherius, concernente la spartizione di utili e spese derivanti da una scuola. Si tratta della prima s. di grammatica, a Firenze, di cui si abbia notizia. H. Wieruszowski riferisce che il grammatico Mino da Colle, circa nel 1270, scrisse delle lettere a due maestri di Firenze, anch'essi presumibilmente grammatici. C. Davis ha trovato nel Notarile Antecosmiano tre altri riferimenti a grammatici: e precisamente a " Magister Borghese de gramatica " (1277) nel Prot. di Ranieri Baldesi (f. 50r), a " Magister Gilius doctor gramaticae " (1298) e a " Magister Baldensis doctor gramaticae " (1299) nel Prot. di Simone di Dino (ff. 64v, 69r).
Tracce delle prime letture compiute da D. in età scolare ha rilevato G. Padoan nelle citazioni dal Liber Aesopi di If XVIII 133-135, XXIII 4-6 e Cv IV XXX 4-9. A quel tempo, secondo R. Avesani, D. lesse probabilmente i Disticha Catonis, l'Ecloga di Teodulo, l'Elegia di Arrigo da Settimello e la Formula vitae honestae di Martino di Bracara. Che D. abbia studiato grammatica è fuor di dubbio, in quanto in Cv II XII 2-4 è detto che, sebbene con difficoltà, gli fu possibile comprendere la sentenza del De Consolatione philosophiae di Boezio e del De Amicitia di Cicerone con l'ausilio dell'arte di gramatica ch'io avea e un poco di mio ingegno. Probabilmente nello stesso periodo apprese l'ars dictaminis; studiosi dell'autorità di un Novati e di una Wieruszowski ritengono che egli derivò la propria istruzione retorica da Brunetto Latini (v. LATINI, Brunetto), ma mancano prove decisive.
In ogni caso, appare evidente che nella Firenze del Duecento gli studi grammaticali erano in ritardo persino in confronto a centri più piccoli della Toscana. Colle, ad esempio, produsse un numero di celebri grammatici, mentre una serie di documenti di San Gimignano, che coprono il periodo 1270-1338 (riassunti dal Davidsohn nelle Forschungen zur Geschichte von Florenz, Il, 312-317) mostrano l'interesse del governo di quella cittadina a impiegare maestri di grammatica, di abaco e di teologia. Un interesse di cui risulta privo, e in misura notevole, il governo della metropoli toscana.
Occorre andar cauti nel riferire a questo precedente periodo quanto si legge in Giovanni Villani (XI 94) sulle istituzioni educative di Firenze intorno al 1339. A quell'epoca, egli ci dice, tra gli otto e i diecimila fanciulli e fanciulle si trovavano a imparare a leggere (e presumibilmente a scrivere). Si tratterebbe di un indice di alfabetismo straordinariamente alto, quasi il dieci per cento dell'intera popolazione fiorentina, generalmente stimata - per questo periodo - intorno alle 90.000 anime. Parte della popolazione maschile si avviava in seguito o agli studi commerciali o a quelli letterari. Circa un quarto di essa (1000-1200) entrarono in sei s. per studiare algorismo e abaco, mentre circa un ottavo (550-600) frequentava quattro s. di grammatica per studiare grammatica e logica. E. Fiumi ritiene le cifre del Villani esagerate, ma esagerate o meno che siano, esse descrivono una situazione educativa ben più progredita di quella indicata dalla nostra frammentaria informazione sul XIII secolo. Probabilmente D. non poté usufruire di tali s., sebbene non possa venir esclusa la possibilità che già esistessero durante la sua vita.
Anche l'educazione cosiddetta ‛ superiore ' della Firenze dugentesca era in condizioni di relativa arretratezza. L'insegnamento del Trivio e del Quadrivio pare venisse impartito nella s. cattedrale. Manca una prova certa sulla disponibilità di un insegnamento giuridico, anche se G. Masi asserisce l'esistenza a Firenze di s. notarili fin dal XIII secolo. Solo nel 1321, anno della morte di D., fu fatto un primo tentativo di fondare l'università. Ad Arezzo, invece, già agl'inizi del XIII secolo esisteva uno studium di legge e l'istruzione fu ben presto ampliata per comprendere grammatica, retorica e dialettica, e così pure medicina e ars notariae. A Siena, già nel 1240 c'era un'università con professori di diritto civile e canonico, di medicina e di grammatica. Persino Pistoia possedeva una fiorente s. di diritto dove, nel 1279, fu chiamato un professore di Bologna, Dino del Mugello. Più importante di tutte, naturalmente, era l'università di Bologna - con i suoi corsi di ars dictaminis, ars notariae, eloquenza, logica, filosofia naturale e, forse, morale, medicina e legge - verso cui si sentivano irresistibilmente attratti tutti quei fiorentini desiderosi di ottenere un'istruzione superiore.
Le biblioteche fiorentine sembra fossero anch'esse povere di testi classici. Nicholas Trevet, ad esempio, che nei primi anni del Trecento scrisse a Firenze un commento al De Consolatione philosophiae di Boezio, dovette procurarsi una copia dell'opera fuori città, un'opera che D. stesso definisce libro non conosciuto da molti (Cv II XII 2). Dell'Eneide doveva esistere una copia presso la biblioteca del convento francescano di Santa Croce, se fra Anastasio, che era forse il bibliotecario, ne fece un compendio in latino, volgarizzato poi da Andrea Lancia. Vari classici pare fossero reperibili nella biblioteca del convento domenicano di Santa Maria Novella. Alcuni laici, come Brunetto Latini che conobbe testi di Cicerone, Boezio, Sallustio e, con ogni probabilità, di Ovidio; come Bono Giamboni che tradusse Vegezio e Orosio; come Petracco di Parenzo padre del Petrarca e ammiratore di Cicerone; come Francesco da Barberino che ebbe vasta conoscenza della letteratura latina, dovevano possedere delle biblioteche private, che in gran parte misero insieme, come sembra probabile - e talora è sicuro - nel corso dei loro viaggi. Nel complesso si può dire che la cultura classica, in Firenze, fu il risultato di un apporto tardo ed esterno.
I centri principali dell'istruzione superiore a Firenze si trovavano non in ambiente civico o laico ma nei conventi degli ordini mendicanti, dove s'insegnava soprattutto teologia scolastica. Poco si sa della s. dei frati agostiniani di S. Spirito, che fu costituito studium generale dell'ordine nel 1287.
In quel tempo, anche Santa Croce era uno studium generale. Ciò sta a indicare che si trattava di una s. teologica inferiore soltanto ai tre studia principalia francescani di Parigi, Oxford e Cambridge, ma di pari livello di studia generalia quali Bologna, Tolosa e Colonia, e superiore di conventi minori abilitati allo studio della teologia, quali Asti, Pisa, Rimini e Todi. Santa Croce accoglieva gli studenti che provenivano dalle s. delle arti francescane gli studia grammaticalia, logicalia et philosophica - dove essi avevano compiuto i loro corsi preparatori.
Tra i primi lettori di Santa Croce siamo in grado d'identificare Gherardo da Prato, autore di un Breviloquium sulle Sententiae di Pietro Lombardo, che partì missionario in Oriente nel 1277; Giovanni da Castelvecchio e Iacopo da Mugello, lettori nel 1282: Pietro di Giovanni Olivi e il suo discepolo Ubertino da Casale, ambedue membri degli spirituali - l'ala riformatrice radicale dell'ordine francescano - lettori tra il 1287 e il 1289; e infine Filippo Ultrarnensis, lettore nel 1301, che scrisse una concordanza dei Vangeli e insegnò anche a Parigi. Il più insigne di tutti fu Pietro di Giovanni Olivi, autore di ampi commenti a Pietro Lombardo, di molte opere d'argomento biblico e di numerose quaestiones di filosofia e teologia. R. Manselli ha accertato che le sue opere, anche dopo il crollo del suo movimento, furono trascritte e glossate con tenace interesse in Santa Croce. In origine - a giudicare dal contenuto di un campione di 46 manoscritti attribuiti a frati di cui, sulla base di documenti notarili, è possibile dimostrare l'appartenenza al convento intorno al 1300 - l'interesse della s. doveva in gran parte orientarsi verso l'esegesi biblica e l'interpretazione delle Sententiae di Pietro Lombardo, interpretazione forse condotta soprattutto sotto l'influsso del commento di s. Bonaventura. A questo periodo, comunque, risale l'acquisto della Summa theologiae di Tommaso d'Aquino e di altre sue opere. Neppure dovevano mancare manoscritti delle opere filosofiche di Aristotele; un codice contenente l'Ethica, la Politica, l'Economica, la Rhetorica e altri trattati aristotelici fu comperato nel 1319.
È difficile credere che un uomo come D., influenzato in così larga misura dall'ideale francescano della povertà e dalle dottrine storiche ed escatologiche degli spirituali, possa aver trascurato l'ambiente di Santa Croce quando, morta Beatrice, fu per un certo periodo presente ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti. Anche se questo avvenne nel 1290, quando Olivi e Ubertino avevano ormai lasciato Firenze, è possibile che già in precedenza D. avesse ascoltato qualche loro sermone. Forse è proprio nella biblioteca di Santa Croce che avvenne il suo primo affascinante incontro con la figura di s. Francesco attraverso la lettura della Legenda maior di Bonaventura lì conservata, e così pure i suoi primi contatti con varie opere della s. vittorina, in particolare con il commento di Ugo di San Vittore al De angelica hierarchia dello pseudo-Dionigi. Ma si tratta pur sempre di supposizioni, mancando una prova sicura sull'accesso dei laici sia alla s. che alla biblioteca di Santa Croce.
Comunque, D. asserisce in modo specifico di esser stato ne le scuole de li religiosi. Pertanto egli deve aver studiato in una, o più di una, delle principali s. degli ordini mendicanti di Firenze. Molto probabilmente frequentò le lezioni del convento domenicano di Santa Maria Novella, che quasi certamente era aperto ai laici.
Istruttivi, al riguardo, sono gli Statuti della provincia romana dell'ordine domenicano. Nel capitolo napoletano del 1278 fu decretato il provvedimento " quod lectores personas sæculares ad lectiones philosophicas non admittant ". Il che sembra implicare che allora i laici fossero ammessi alle lezioni e che venivano loro interdette solo quelle di filosofia. Tale ipotesi appare confermata da un decreto più tardo emanato dal capitolo perugino del 1308: " Item inhibemus districte ne aliquis sæcularis ad lectiones alias quam ad theologicas admittatur sine prioris provincialis licentia speciali ". A quanto pare, dunque, ai laici era normalmente concesso di frequentare le lezioni di teologia. Per quanto sappiamo, Santa Maria Novella non aveva uno studium in philosophia dove si impartissero regolarmente lezioni su trattati aristotelici quali la Metaphysica, il De Anima, la Physica e il De Generatione. Si trattava piuttosto di uno studium in theologia a cui, solo nel 1318, fu aggiunto uno studium in logica con un proprio lettore e propri studenti. Non c'è ragione di ritenere che nel 1290, in Santa Maria Novella, ai laici fosse precluso l'accesso ai corsi di teologia.
È probabile che nel convento si disponesse anche di un insegnamento di grammatica, ma a un livello meno ufficiale e assai più basso. Esso veniva incontro alle necessità dei novizi non adeguatamente istruiti, e forse, anche di alcuni laici. G. Salvadori cita l'affermazione del Vasari secondo cui Cimabue nella sua fanciullezza " fu mandato, acciò si esercitasse nelle lettere in S. Maria Novella, ad un maestro suo parente che allora insegnava grammatica ai novizi di quel convento ".
Non si può escludere che D. possa aver studiato grammatica nello stesso convento. Nel 1290 tuttavia i suoi interessi erano forse concentrati verso quelle che riteneva le mete più alte della filosofia, da lui chiamata la bellissima e onestissima figlia de lo Imperadore de lo universo (Cv II XV 12), cioè sull'etica e sulla teologia, da lui paragonate ai cieli supremi, il cristallino e l'Empireo.
L'insegnamento della teologia costituiva certamente la principale attività intellettuale del convento domenicano di Firenze. Uno studium in theologia, sembra, venne una prima volta assegnato a Santa Maria Novella nel 1281. Con ciò essa veniva a collocarsi al terzo gradino della gerarchia educativa dell'ordine domenicano, al di sopra delle semplici s. conventuali e anche dei più specialistici studia di logica, di filosofia naturale e di metafisica, ma al di sotto degli studia generalia. Nel 1288 esso aveva raggiunto forse un livello d'importanza pressoché uguale allo studium di Santa Croce. In quell'anno vennero assegnati allo Studio tredici nuovi studenti, mentre le altre due importanti s. teologiche della provincia romana, Napoli e il convento della Minerva a Roma, ne accolsero rispettivamente soltanto otto e cinque. Nel 1311, gli statuti provinciali facevano riferimento a Santa Maria Novella come a uno studium generale, ed era la sola s. della provincia romana ad avere tale qualifica. Dal Necrologio del convento sappiamo che il principale lettore per oltre 42 anni, praticamente fino alla morte avvenuta nel 1319 dopo che la malferma salute l'aveva costretto ad abbandonare i suoi obblighi d'insegnamento, fu Remigio de' Girolami (v. GIROLAMI, Remigio dei). Egli aveva studiato arti e teologia a Parigi; nel 1302 gli venne accordato il magisterium in theologia da parte di papa Benedetto XI. Remigio, peraltro, che ricoprì molti alti uffici nel suo ordine, dovette allontanarsi spesso da Firenze. Durante le sue assenze altri lettori lo sostituirono nell'insegnamento: Niccolò Brunacci di Firenze fu lettore nel 1299, Giordano da Pisa nel 1303, Filippo da Pistoia dopo il 1311, Matteo degli Orsini nel 1313 e Angelo nel 1317. Gli statuti provinciali forniscono inoltre i nomi di molti lettori assistenti (denominati lector Sententiarum o cursor Sententiarum oppure baccellarius) assegnati a Firenze: Corrado da Pistoia (1287), Michele da Firenze (1288), Giovanni da Spoleto (1291), Franco da Perugia (1292), Giovanni Auricola (1293), Filippo da Monte Obiano (1295), Feliciano da Spoleto (1299), Angelo da Spoleto (1307), Giovanni da Poppi (1310), Pietro Nero da Cortona (1311), Uberto Guidi (prima del 1315), e Taddeo Dini da Firenze (1318).
Ma che l'influsso di Remigio sulla s. sia stato profondo e duraturo risulta evidente non soltanto dalla testimonianza del Necrologio ma anche dai volumi, belli e talvolta massicci, delle sue opere, messi insieme dai copisti del convento sotto la sua personale direzione (correzioni e note marginali sembrano infatti di mano sua), per fornire Santa Maria Novella di un repertorio d'insegnamento intellettuale e morale. Essi comprendono un corpus considerevole di prologhi a corsi su singoli libri della Bibbia (con qualche eccezione, pare che Remigio abbia esposto un libro ogni anno), dei prologhi alle Sentenze, e inoltre un commento al Cantico dei Cantici, trattati teologici, filosofici, politici ed etici e numerose quaestiones. Oltre a ciò l'opera di Remigio contiene dei trattati generali sull'educazione e una vasta serie di exempla morali e di abbozzi di sermoni. Da questi scritti vien fuori la figura di un fervente discepolo di Aristotele e di Tommaso d'Aquino, del quale ultimo accetta con piena adesione l'idea della teologia come scienza. Contro l'aristotelismo di Bologna, che tendeva ad affermare l'autonomia del sapere naturale, Remigio, seguendo Tommaso, affermava la necessità di subordinare il sapere naturale alla rivelazione. Sebbene il fine dell'uomo sia conoscere, la sua ragione trova compimento solo nella conoscenza rivelata di Dio.
Uno dei prologhi di Remigio ai suoi corsi è costituito da una introduzione all'Etica di Aristotele; egli fece largo uso nei suoi scritti di citazioni dall'Etica e così pure dal commento di Tommaso d'Aquino. Anche D. ebbe un'approfondita conoscenza dell'Etica e citò dal commento di Tommaso. Può essere che a introdurlo all'opera di Aristotele sia stato Brunetto Latini, ma è probabile che i suoi primi contatti col commento di Tommaso siano avvenuti in Santa Maria Novella.
Oltre i loro corsi regolari, i lettori domenicani erano tenuti a promuovere dispute una volta alla settimana. Gli statuti della provincia romana dell'ordine indicano che i corsi erano con ogni probabilità aperti ai laici. Ma essi rivelano, senza ombra di dubbio, che le dispute erano aperte, almeno in determinate occasioni, ai viri saeculares. Il fatto è accertato da un passo ove si parla di una disputatio avvenuta nel 1315. In quell'anno Uberto Guidi disputò de quolibet contro le dottrine di s. Tommaso alla presenza di una moltitudine di " fratrum, sæcularium, clericorum et aliorum religiosorum ". Da altri passi degli statuti risulta chiaro che la parola " salcularium " si riferisce ai laici. Uberto Guidi venne condannato per la sua temerarietà all'allontanamento da Firenze e a una penitenza di dieci giorni a pane e acqua.
Le dispute di Remigio a noi rimaste sono conservate nella biblioteca Nazionale di Firenze (Mss. Conventi Soppressi: C 4 940, ff. 71r-95v, e G 3 465). Una di tali questioni contenuta nel secondo manoscritto è intitolata: " Se l'anima intellettiva possa conoscere ogni verità senza la luce soprannaturale ". Remigio rispose alla questione in modo negativo. Egli dunque tentò di risolvere lo stesso problema che pose in imbarazzo D.: in che modo un desiderio naturale come quello di conoscere, che caratterizza la natura umana, può venir diretto verso ciò che è impossibile? Il Filosofo, nel terzo libro del De Anima, aveva affermato che la natura non fa nulla di vano. Una delle soluzioni di Remigio fu che non esiste desiderio naturale che possa spingere l'uomo a tentar di capire naturalmente cose come l'essenza divina che sono incomprensibili alla sola ragione. Ex natura integra noi non desideriamo nulla che non possiamo avere, ma ex corruptione naturae noi vogliamo acquisire naturalmente ciò che è oltre la sfera naturale (G 3 465, ff. 100v-104r).
Questa soluzione è notevolmente simile alla risposta che D. diede alla medesima questione. Secondo Aristotele, l'operazione propria dell'uomo è conoscere. Perché mai, talvolta, può non venir appagata? Il nostro intelletto, ad esempio, non è in grado di guardar Dio. D., come Remigio, nega che quello di penetrare il mistero dell'essenza di Dio sia nell'uomo un desiderio naturale: E però l'umano desiderio è misurato in questa vita a quella scienza che qui avere si può, e quello punto non passa se non per errore, lo quale è di fuori di naturale intenzione (Cv III XV 9-10). Questo D. non lo imparò forse frequentando le disputazioni de li filosofanti?
Qualche parola è necessaria sul significato del termine filosofanti. É. Gilson ha prodotto numerosi testi del tardo Duecento e del primo Trecento per dimostrare che il significato comune del termine era di " teologi che fanno della filosofia ", con una connotazione ora positiva, ora negativa. G. Post ha dimostrato che esso veniva anche applicato a giuristi che erano considerati filosofi e non ciarlatani. Ma il significato più appropriato al Convivio sembra quello dei testi citati dal Gilson, dato anche lo stretto legame che D. istituisce con le scuole de li religiosi. Probabilmente D. andò ad ascoltare i filosofanti a Santa Maria Novella e forse anche in qualche altra s. degli ordini mendicanti.
L'influenza di Bologna su D. è argomento ancor meno definito del debito di D. verso le s. religiose. Mancano infatti al riguardo testimonianze esplicite. Forse D. frequentò lo Studio bolognese di legge dopo l'esilio, ma la sua conoscenza del diritto romano poté derivargli unicamente da letture personali o dall'amicizia con Cino da Pistoia.
Un'illazione sembra tuttavia veramente plausibile: è noto che a Bologna, tra la fine del Duecento e gl'inizi del Trecento, l'istruzione aveva già posto l'accento sugli auctores latini, ed è là che D. potrebbe aver ampliato notevolmente la propria conoscenza delle loro opere. Fu U. Leo a mostrare come soltanto nel IV trattato del Convivio (opera composta nel 1304-07 c.), D. qualifica Virgilio come lo maggiore nostro poeta e cita dal quinto e sesto libro dell'Eneide. Nella Vita Nuova occorre appena una scarna menzione sull'uso in Virgilio del linguaggio figurato (XXV 9); al tempo della sua composizione la conoscenza dantesca dei classici latini sembra più scarsa. È probabile che Bologna gli fornì un contatto con Virgilio e gli altri autori latini più fecondo di quello che le magre risorse classiche di Firenze erano in grado di offrire. Ma sottovalutare l'importanza della base culturale che a Firenze le s. dei mendicanti diedero al giovane D. sarebbe imprudente, tenuto conto della personale, esplicita testimonianza sulla propria presenza ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti, nel periodo in cui cominciava a, innamorarsi delle bellezze di Donna Filosofia.
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Sui domenicani e Santa Maria Novella: C. Douais, Essai sur l'organisation des études dans l'ordre des Frères Prêcheurs au XIIIe et XIVe siècle, Parigi 1884; M. Grabmann, Die Wege von Thomas von Aquin zu D., in " Deutsches D.-Jahrbuch " IX (1925) 1-35; ID., Mittelalterliches Geistesleben, Monaco 1926-1956, I 361-369, II 530-547, III 197-212; I. Taurisano, L'organizzazione delle scuole domenicane nel secolo XIII, in Miscellanea lucchese di studi storici e letterari in memoria di S. Bongi, Lucca 1931, 93-129; Acta Capitulorum provincialium provinciae romanae, a c. di T. Kaeppeli e A. Dondaine, in Monumenta Ordinis Fratrum Praedicatorum Historica, XX, Roma 1944; S. Orlandi, Necrologio di S. Maria Novella, Firenze 1955.
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