SICILIANA, SCUOLA
. Con questa denominazione si suole indicare quel movimento letterario, e propriamente lirico, svoltosi nel Mezzogiorno d'Italia, con centro nella Sicilia, durante i primi tre quarti del sec. XIII, attorno alla corte sveva, e soprattutto nell'ambiente culturale di cui Federico II e i suoi figli, e tra questi in particolar modo Manfredi, furono promotori e partecipi. Mentre nell'Italia settentrionale e centrale, dove era largamente diffusa la cultura poetica, specialmente quella provenzale, l'imitazione si estendeva anche al mezzo linguistico, sicché poeti italiani di decisa personalità artistica, come Lanfranco Cigala o Sordello, si aggregarono alla vasta schiera dei trovatori di lingua occitanica e, in definitiva, per lo storico, fanno parte piuttosto della letteratura provenzale, nell'Italia meridionale, invece, entro i confini del regno svevo, all'alba del Duecento, si costituiva una tradizione lirica indigena: colta, aulica, fertile di autori e feconda di risonanze. Il fatto di avere assunto per la prima volta a strumento letterario il proprio volgare, costituisce per sé solo un sicuro titolo di originalità e riveste singolare importanza storica. Di fronte alla frammentarietà dell'incipiente produzione in volgare italiano, che in nessuna regione della penisola italiana era riuscito ad assurgere a vera dignità d'arte, la "scuola siciliana" iniziava e formava un ambiente letterario, e, quel che più conta, uno strumento linguistico, a cui bisogna far capo per rintracciare la prima genesi della tradizione lirica italiana: vale a dire della tradizione più vitale.
La scuola è anzitutto "siciliana" per la patria della maggior parte dei suoi rimatori. Il poeta di cui si possiede la poesia più antica, del 1205, è Giacomo da Lentino, il più fecondo (ci sono rimaste circa 15 canzoni e 25 sonetti, di cui fu il primo artefice) e il più famoso, tanto che Dante lo chiama semplicemente il "Notaio" (Purgat., XXIV, 56), e lo loda nel De vulgari eloquentia; Bonagiunta da Lucca lo ritenne suo maestro; Arrigo Testa gli dedicava i suoi versi; con lui tenzonavano, sulla natura d'amore, Iacopo Mostacci, Pietro della Vigna e l'Abate di Tivoli. Parecchi sono di Messina, cittadini di nascita o di dimora, ché questa città era allora uno dei centri più vitali del regno svevo, superiore a Palermo per il suo porto, l'arsenale, l'ammiragliato, la zecca, e specialmente come sede di giudici e notai, tra i quali si annoverano appunto i più fedeli devoti della dea "rima": Odo delle Colonne (2 canzoni), Rugieri d'Amici (governatore della Sicilia nel 1238, capitano e maestro di giustizia nel 1240, morto in carcere nel 1246, coinvolto nella congiura che costò la vita allo stesso Pietro della Vigna), Stefano protonotaro di Messina (3 canzoni, più una in schietto dialetto siciliano, secondo la lezione del Barbieri: "Pir meu cori allegrari"), Guido delle Colonne, il famoso giudice di Messina (4 canzoni, di cui due lodate nel De vulgari eloquentia), Mazzeo di Ricco (7 canzoni e un sonetto), della stessa famiglia di Filippo di Ricco, giudice di Messina (un sonetto), Tommaso di Sasso (2 canzoni); e a Messina visse anche Iacopo Mostacci, detto di Pisa (6 canzoni, e un sonetto in tenzone con Pietro della Vigna e Giacomo da Lentino), che fu falconiere di Federico II e rimase anche fedele a Manfredi. Di Palermo è Ruggiero o Ruggerone (i canzone sicura), che fu uomo di corte ed esperto grammatico; e a Palermo si ricollegano gli stessi principi, anche se di educazione internazionale: lo stesso Federico II (ci restano tre canzoni), Giovanni di Brienne, re di Gerusalemme, suocero dell'imperatore (poetò in francese, ma una poesia ci è conservata in schietto siciliano, costituita probabilmente da tre danze che il copista ha fuse insieme), Enzo, re di Sardegna, figlio dell'imperatore (ci rimangono 2 canzoni, un sonetto e un frammento in puro siciliano: "Allegru cori plenu", riferito dal Barbieri).
Parecchi altri sono meridionali, ma legati alla corte; e nel linguaggio della scuola portavano elementi dei proprî dialetti, livellati tuttavia dal comune carattere aulico, aristocratico, dotto: il più celebre, Pietro della Vigna, protonotaro e logoteta dell'imperatore, nato a Capua e educatosi a Bologna (8 canzoni, non tutte di sicura attribuzione); il più difficile e oscuro, Rinaldo d'Aquino, fedele al trobar clus dei Provenzali (ma è sua la deliziosa canzone popolareggiante per la crociata, del 1228: "Già mai non mi conforto"), nativo di Montella (nel Napoletanto), falconiere del re nel 1240 (10 composizioni sicure, più qualcuna incerta; nel De vulgari eloquentia è apprezzata la sua canzone "Per fino amore vo sì lentamente"); Giacomino Pugliese, che è forse il poeta più chiaro e più dolce (8 canzoni); Folco di Calabria, della famiglia dei Ruffo conti di Catanzaro (i canzone), Iacopo d'Aquino, soldato di Manfredi a Benevento, indi esule nelle campagne romane (i canzone). Qualcuno, come l'Abate di Tivoli, fu in corrispondenza poetica coi Siciliani (3 sonetti con Giacomo da Lentino), altri, né siciliani né meridionali, ma in rapporto con la corte sveva, ne accettarono il linguaggio: Perzivalle Doria, podestà d'Avignone nel 1237, di Parma nel 1243, investito barone da Manfredi nel 1246 (2 canzoni siciliane, e un bel serventese provenzale per il suo giovane e infelice signore); Folcacchiero Folcacchieri da Siena (1 canzone); Paganino da Sarzana (1 canzone); Tiberto Galliziani da Pisa (2 canzoni); Compagnetto da Prato (2 canzoni); Inghilfredi, che nonostante sia passato come siciliano, pare invece di Lucca (6 canzoni); Rugieri Apugliese, un giullare senese, che mescola nel suo toscano molti sicilianismi della scuola lirica.
I poeti sono quasi tutti uomini di curia, per lo più giudici e notai, dotti nella "grammatica" e nell'arte del "dettare"; radicati in un ambiente di alta cultura, quale quello promosso da Federico II e continuato da Manfredi; essi assumono dalla letteratura volgare il genere della lirica, allora il più evoluto e il più raffinato, dove la coscienza stilistica stava in funzione di una disciplina intellettuale; i loro modelli sono i trovatori di Provenza, i maestri della lirica in tutto l'Occidente, ma nell'accettare la loro ispirazione artistica portano una particolare condizione spirituale, dovuta al tipo stesso della loro vita, per la quale la poesia era un diversivo episodico o marginale della loro più operosa attività. Da questa condizione si determina, da un canto, una maggiore astrattezza nel concepire la finzione poetica, sempre più aliena dall'urgenza della realtà vissuta, ma nello stesso tempo si promuove una certa autonomia dal formulario tirannicamente cortigiano e professionale del trovatore: affiora quasi, sebbene timidamente, un più sicuro senso della laicità della poesia; da ciò deriva, accanto al comune patrimonio aulico, madrigalesco e intellettualistico, l'adesione a motivi sentimentali e tematici della poesia popolareggiante e borghese, di cui Giacomino Pugliese, Giacomo da Lentino e in parte lo stesso complicato Rinaldo d'Aquino hanno dato deliziosi esempî (e anche rispetto alle forme metriche, l'innovazione siciliana del sonetto pare riconnettersi a un tipo più popolare: lo strambotto). E da questa situazione si giustifica il carattere composito della loro lingua: idiomatica e letteraria, volgare e aulica, fondamentalmente siciliana e meridionale, ma sollecita di provenzalismi e di latinismi, dietro un ideale linguistico (sia fonetico sia lessicale) unitario, livellatore delle più stridenti differenze dialettali, e in un certo senso comune a tutto il territorio del regno svevo: extraregionale e perciò nazionale. I Siciliani ebbero per i primi in Italia una salda coscienza estetica e per i primi risolsero a loro modo l'assillante problema dell'unità linguistica: non per nulla Dante nel suo De vulgari eloquentia si rifà ad essi. Se mai, per il critico e l'editore, il problema è complicato dalle condizioni della tradizione manoscritta, che attraverso all'opera di copisti toscani ha accentuato le tendenze letterarie ed extradialettali degli stessi testi originali, sicché è estremamente delicato individuare e sceverare il colorito siciliano-meridionale dal successivo parziale toscaneggiamento: di solito la rima è spia sicura.
Da questa produzione lirica, insieme con gli schemi poetici e contenutistici, si trasmettevano elementi linguistici (fonetici e lessicali), che penetrarono e si mantennero a lungo nella più genuina tradizione toscana, convalidata dall'uso di Guittone d'Arezzo, degli stilnovisti, di Dante, Petrarca e Boccaccio: specie in sede di rima, che nella lingua della poesia esercita anche un'azione conservatrice e arcaicizzante. Per es., di fronte al dittongamento toscano secondo il tipo buono, fiero, lieve, ecc., si perpetuava, sia nel verso sia nella prosa, lo scempiamento proprio dell'uso siciliano (bono, fero, leve, ecc.); e sono meridionalismi le forme verbali in -ia, i partecipi in -uto (partuto per partito, ecc.) e soprattutto i casi di rima imperfetta, che risalivano a un duplice uso siciliano (per es., noi e nui), ecc.
Bibl.: Per i codici, si veda alla voce canzonieri; il più importante è il Vaticano 3793 (ediz. diplomatica, a cura di Egidi, Satta e Festa, Roma 1901-1906), pubblicato dal D'Ancona e Comparetti, Le antiche rime volgari secondo la lezione del cod. Vat. 3793, Bologna 1878. Per tutte le questioni e per la bibl. necessaria, è fondamentale G. A. Cesareo, Le origini della poesia lirica e la poesia siciliana sotto gli Svevi, 2ª ed., Palermo 1924 (1ª ed., 1894); esauriente il capitolo V di G. Bertoni nel suo Duecento, Milano 1930; inoltre dello stesso: Intorno alla poesia delle origini, in Archivum Romanicum, XV (1931), pp. 325-334. - Per la tradizione manoscritta si veda M. Barbi, Studi sul canzoniere di Dante, Firenze 915; per i problemi del testo, è importante l'edizione di Rinaldo d'Aquino, a cura di O. J. Tallgren, in Mémoire de la Soc. néo-philol. di Helsingfors, VI (1917), pp. 125-133 (cfr. l'introd. assai acuta); ha valore metodico l'edizione di S. Debenedetti, Le canzoni di Stefano Protonotaro, in Studi romanzi, XXII (1932), pp. 5-68; per un tentativo di ricostruzione siciliana, S. Santangelo, Il discorso del Notaro Giacomo da Sartori, in Studi critici in onore di G. A. Cesareo, Palermo 1924; id., Le tenzoni poetiche nella letteratura italiana delle origini, Ginevra 1928. Per problemi storico-culturali, F. Torraca, Studî sulla lirica italiana del Duecento, Bologna 1902, e F. Novati, Freschi e minii del Dugento, Milano 1908, 2ª ediz. 1925.
Per l'influsso provenzale, A. Gaspary, La scuola poetica siciliana del sec. XIII (trad. dal tedesco), Livorno 1882; per la tradizione toscana: G. Bertoni, Il "De vulgari eloquentia", in Nuova Antologia, 16 settembre 1935; L. Sorrento, Il Petrarca e i poeti italiani nel "Trionfo d'Amore", estr. dal vol. Parma a Petrarca, Parma 1934.
Per i problemi più particolarmente linguistici: N. Caix, Le origni della lingua poetica italiana, Firenze 1880; O. J. Tallgren, Sur la rime italienne et les Siciliens du XIIIe siècle, in Mémoires de la Soc. néo-philol. di Helsingfors, V (1909), pp. 235-375; G. Bertoni, Sulla lingua dei più antichi rimatori siciliani, in Archivum Romanicum, IX (1927), p. 581 segg.