Francoforte, Scuola di
Espressione con cui si indica un gruppo di intellettuali tedeschi riuniti intorno all’Istituto per la ricerca sociale, (Institut für Sozialforschung), fondato a Francoforte nel 1923. I protagonisti più noti di questa esperienza furono filosofi (Horkheimer, Adorno e Marcuse), ma a essa presero parte economisti (H. Grossmann, F. Pollock), psicologi (E. Fromm), sociologi (K.A. Wittfogel, L. Löwenthal) e politologi (F. Neumann). Alla cerchia allargata degli studiosi che ebbero rapporti con l’Istituto appartiene anche Benjamin, le cui idee sull’opera d’arte esercitarono un profondo influsso sulla Scuola. Gli eventi storici che condizionarono la riflessione dei francofortesi – riflessione animata dall’esigenza di rinnovare il marxismo e di rivitalizzare l’idea e la pratica rivoluzionarie – furono la crisi del 1929, l’ascesa del nazismo, l’esperienza dello stalinismo, lo sviluppo della società industriale avanzata negli Stati Uniti. La maggior parte delle idee formulate dalla Scuola di F. ha quindi visto la luce negli anni Trenta e Quaranta; ma esse incontreranno una larga diffusione (e uno straordinario successo) soltanto negli anni Sessanta e Settanta, quando diventeranno il ‘manifesto’ dei movimenti di protesta connessi all’esperienza del Sessantotto e poi confluiti, a vario titolo, nella ‘nuova sinistra’.
Fondato da un gruppo di intellettuali marxisti grazie alla generosa donazione di Felix Weil (figlio di un ricco commerciante), l’Istituto per la ricerca sociale venne affiliato all’univ. di Francoforte e riconosciuto dal ministero dell’Istruzione. Nei primi anni, sotto la direzione del politologo K. Grünberg (1924-29), esso si caratterizzò per lo sviluppo di ricerche ‘positive’ sull’economia capitalistica e sulla storia del movimento operaio; ma a partire dal 1931, sotto la direzione di Horkheimer, l’Istituto assunse la fisionomia filosofica che lo avrebbe reso celebre, caratterizzata dall’intreccio tra hegelismo, marxismo e freudismo e dal tentativo di giungere, per questa via, a una ‘teoria critica’ capace di comprendere e trasformare la società. Sempre a Horkheimer si deve, nel 1932, la fondazione della Zeitschrift für Sozialforschung Rivista per la ricerca sociale (pubblicata sino al 1941), che sarebbe divenuta l’organo dell’Istituto e sulla quale sarebbero apparsi i saggi di maggiore rilievo teorico. L’ascesa del nazismo costrinse gli esponenti dell’Istituto (tutti di origine ebraica) ad abbandonare la Germania, dapprima trasferendosi in Svizzera e quindi, a partire dal 1940, negli Stati Uniti, dove l’Istituto venne accolto dalla Columbia University di New York (prendendo il nome di International Institute for social research; la rivista prese il tit. di Studies in philosophy and social sciences). Nel 1950 Horkheimer, Adorno e Pollock tornarono in Germania e riaprirono, con la direzione di Pollock, l’Istituto di Francoforte all’interno del quale si sarebbero formati studiosi come Habermas, A. Schmidt e O. Negt.
La prima caratteristica innovativa della Scuola di F. è il rifiuto dell’interpretazione economicistica del marxismo: contribuiscono a ciò, sul piano filosofico, il recupero operato da Horkheimer delle matrici hegeliane del pensiero di Marx e, sul piano socio-economico, la messa a punto, da parte di Pollock, del concetto di capitalismo di Stato. Horkheimer prende le mosse, nei primi anni Trenta, dalla crisi del movimento operaio tedesco, la cui rappresentanza politica è scissa tra un partito socialdemocratico dotato di adeguata coscienza teorica, ma ormai privo di spinta rivoluzionaria, e un partito comunista dotato di spirito rivoluzionario, ma caratterizzato da un pensiero dogmatico, cioè privo di connessione con la realtà storica. Quello che mancava ai primi e ai secondi era per Horkheimer la concezione dialettica della storia, quella concezione che era nata con Hegel e che Marx aveva poi liberato dalla ‘gabbia’ del sistema e dalla mitologia idealistica. Sostituendo allo Spirito le forze reali delle classi sociali in lotta tra di loro, Marx aveva riformato in senso materialistico la dialettica hegeliana, ma aveva al contempo ereditato da essa il rifiuto della conoscenza come puro e semplice rispecchiamento della realtà esterna. L’attività teorica, per il marxismo, non è conoscenza immobile di un oggetto fisso, bensì essa stessa prassi, ossia trasformazione del mondo naturale e sociale. La sottolineatura della natura filosofico-dialetti- ca del marxismo segna un chiaro distacco dalle interpretazioni economicistico-positivistiche e spinge Horkheimer a sviluppare una riflessione critica sui procedimenti della scienza moderna: limitandosi a registrare e classificare i fenomeni e a servirsi di modelli meccanicistici, quest’ultima rivela un modo di vedere ‘adialettico’ e quindi conservatore, funzionale alla tenuta del sistema capitalistico. Secondo questa interpretazione, il sapere scientifico-tecnologico non è, come nel marxismo classico, uno strumento neutro, utilizzabile per fini diversi (e anche opposti), bensì qualcosa di consustanziale alla società capitalistica, qualcosa che porta in sé l’impronta della ‘logica del dominio’. La critica della scienza e della tecnica moderne – nonché della società industriale avanzata, che da esse è dominata – sarà uno dei temi propri della Scuola di F. e verrà sviluppata da Horkheimer e Adorno in Dialettica dell’illuminismo (1947) e da Marcuse in L’uomo a una dimensione (1964). Tale critica fa corpo con quella rivolta a tutte alle filosofie empiristiche, positivistiche e neopositivistiche, accusate di accettare la realtà così com’è, invece di negarla.
La crisi del 1929 riattivò la controversia, in ambito marxista, sul ‘crollo del capitalismo’. Se Grossman, nel saggio La legge dell’accumulazione e il crollo del sistema capitalistico (1929), riprende in sostanza le tesi di Marx sull’argomento, Pollock, in una serie di saggi apparsi negli anni Trenta e poi in Capitalismo di Stato: limiti e sviluppi (1941), mette a punto un’analisi nuova e originale. Egli sostiene infatti che le tendenze di fondo del sistema capitalistico hanno condotto a una presenza sempre più capillare dello Stato nella sfera economica, che ha portato alla progressiva sostituzione della ‘logica del mercato’ con la ‘logica del piano’ e quindi a una sorta di ‘primato della politica’ (con la formazione di burocrazie governative e manageriali che si sostituiscono agli azionisti). Tale mutamento, anche se non cambia il destino fatale del sistema capitalistico (in virtù delle tensioni interne tra le nuove élites), lo sposta molto in avanti (perché ne elimina alcune tipiche disfunzioni) e crea al tempo stesso le premesse per il passaggio a regimi di tipo totalitario, come è avvenuto in Germania. Si delinea così un’interpretazione del fascismo e del nazismo non come negazioni del liberalismo, ma come suoi legittimi eredi, come fasi diverse di un medesimo processo. Esemplari, in questo senso, sono le tesi sostenute da Marcuse nel 1934 in La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato e da Horkheimer nel 1939 in Gli ebrei e l’Europa: per entrambi il fascismo non è che l’organizzazione e la teoria della società adatte alla fase monopolistica del capitalismo. Se nel giudizio sul fascismo i francofortesi finiranno, nonostante la raffinatezza dei loro strumenti d’analisi, per ricalcare il giudizio emesso negli anni Trenta dal Komintern, l’esperienza dello stalinismo li condurrà a condannare, nei primi anni Quaranta, anche il regime sovietico, nel quale avevano riposto molte speranze. Ne Lo Stato autoritario (1942), Horkheimer affermerà che il capitalismo di Stato «è lo Stato autoritario dei nostri giorni» e che esso «è repressivo in tutte le sue varianti», ossia non solo nella forma fascista ma anche in quella comunista, che anzi ne rappresenta la forma più coerente e radicale. Il rifiuto del modello sovietico da parte di Horkheimer e Marcuse avviene in controtendenza rispetto alla maggior parte degli intellettuali di sinistra (che negli anni Quaranta guardavano con simpatia all’Urss, i cui ‘difetti’ non intaccavano la natura socialista del regime) e rimase una caratteristica dei ‘francofortesi’. Va sottolineato come gli esponenti dell’Istituto dessero il medesimo giudizio sui sistemi democratico-rappresentativi, che costituivano ai loro occhi solo una variante più complessa e raffinata di totalitarismo (solo l’ultimo Horkheimer attenua tali posizioni, sostenendo, nel 1968, che la democrazia del cosiddetto mondo libero, pur con i suoi difetti, appare «migliore della dittatura che oggi conseguirebbe da un suo rovesciamento»).
Fin dai primi saggi degli anni Trenta Horkheimer aveva mostrato interesse per la psicologia, al fine di dotare la teoria materialistica della storia di quella plasticità e concretezza d’analisi che la mera descrizione delle strutture economiche non poteva darle. I contributi più interessanti, in questa direzione, vennero però da Fromm, il quale cercò di dimostrare che marxismo e psicanalisi sono due concezioni affini e quindi conciliabili: «i maggiori punti di contatto – scrive in Metodo e compito di una psicologia sociale analitica (1932) – li troviamo nel fatto che sono entrambe scienze materialistiche. Esse non partono dalle ‘idee’, ma dalla vita terrena, dai bisogni; e si incontrano specialmente nella loro comune valutazione della coscienza, che a loro sembra essere non il motore del comportamento umano, bensì il riflesso di altre forze nascoste». È vero che tali forze nascoste, per Marx, stanno nella sfera economica, mentre per Freud nella sfera dell’inconscio; ma poiché Freud aveva affermato che la psicologia individuale è al tempo stesso una psicologia sociale, giacché l’individuo è sempre un essere sociale, la psicoanalisi (come vera psicologia) è conciliabile con il marxismo (come vera sociologia). Inoltre, il ruolo decisivo della famiglia nella formazione dell’individuo rimanda al ruolo fondamentale della struttura sociale, giacché la famiglia, afferma Fromm, non è che «l’agenzia psicologica della società». Il frutto più rilevante degli interessi psicanalitici della Scuola di F. sarà il volume collettaneo Studi sull’autorità e la famiglia (1936), dove oltre a una serie di studi monografici sulla morale sessuale e sul rapporto autorità-famiglia, compaiono alcuni saggi di carattere generale sul problema del ‘dominio’. Per Fromm, così come Horkheimer e Marcuse, il dominio non è spiegabile soltanto come effetto dell’apparato coercitivo dello Stato; esso, in realtà, può essere spiegato soltan- to a partire dai processi di ‘interiorizzazione’ del principio d’autorità di cui il principale veicolo è la famiglia e, in particolare, la figura del padre. Attraverso il Super-Io, spiega Fromm, l’autorità esterna del padre viene trasformata in autorità interna e in seguito ‘proiettata’ sulle figure esterne d’autorità: in tal modo gli individui si autocostringono all’obbedienza. Di conseguenza, afferma Horkheimer, «fintantoché la struttura fondamentale della vita sociale e la cultura dell’epoca odierna, che riposa su di essa, non si trasformeranno radicalmente, la famiglia eserciterà la sua insostituibile funzione come produttrice di determinati tipi di carattere autoritari». Un altro contributo della psicosociologia francofortese saranno gli studi su La personalità autoritaria (1950), nei quali viene individuato il ‘tipo psicologico’ che fornisce la base di consenso ai regimi fascisti e che nutre il ‘potenziale fascista’ presente nelle società democratiche: le sue caratteristiche sono il conformismo morale, la cieca subordinazione all’autorità, l’odio per tutte le forme di disobbedienza e diversità, la svalutazione della natura umana, la tendenza alla proiezione.
Il forte interesse dei francofortesi per la sfera sovrastrutturale troverà chiara espressione sia nella spiegazione ‘filosofica’ del dominio (che completa la spiegazione ‘psicologica’), sia nel richiamo al ruolo cruciale dell’utopia. Per Horkheimer e Adorno la logica del dominio non è legata, come per Marx, a un assetto socio-economico fondato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, ma a un atteggiamento verso la realtà che caratterizza l’intera civiltà occidentale e che consiste nell’impulso – nato dalla paura della morte, dell’altro e dell’ignoto – a rendersi ‘padroni della natura’. Tale logica di dominio (che i due francofortesi identificano con la ‘logica illuministica’, facendo coincidere l’illuminismo con la storia stessa della civiltà occidentale) porta l’uomo a smarrire sé stesso e a divenire vittima del suo potere; essa inoltre implica un’etica della rinuncia e del sacrificio che è agli antipodi della naturale tendenza al piacere. Il tema del piacere – e di una società compiutamente edonistica – troverà la sua massima espressione negli scritti di Marcuse, il quale sostiene che il disagio e la nevrosi di cui parla Freud sono reali, ma non derivano dalla civiltà in quanto tale, come pensa il padre della psicanalisi, bensì dalla civiltà capitalistica, che richiede un eccesso di repressione per poter soddisfare esigenze produttivistiche ed efficientistiche che non tengono in alcun conto il principio del piacere e la ricerca della felicità. La sfera della sessualità, ad esempio, è scissa dall’eros e ristretta, nei confini del rapporto monogamico, alla sfera genitale e al fine riproduttivo. Tuttavia, l’impulso primordiale verso il piacere è stato conservato dall’inconscio e dalla fantasia ed è destinato a riaffacciarsi prepotentemente attraverso il ‘ritorno del represso’, che si manifesta soprattutto nell’arte. Inoltre, il principio di prestazione ha creato le condizioni storiche per la sua abolizione, dando vita a uno sviluppo teconologico che permetterà di ridurre drasticamente la giornata lavorativa e di dedicarsi al gioco e alla libera espansione della personalità. Marcuse non esita, in Eros e civiltà (1955), a parlare del desiderio di un paradiso ri-creato in base alle conquiste della civiltà. Questa componente utopica, del resto, era stata apertamente rivendicata dal filosofo negli anni Trenta, quando aveva affermato che «l’elemento utopistico è stato a lungo l’elemento progressivo della filosofia», la rappresentazione di ciò che dovrebbe essere, lo stimolo che muove la volontà a trasformare il mondo. Tale volontà, tuttavia, nelle società capitalistiche avanzate – nelle quali la ‘tela di ragno’ del dominio esercitato dal ‘sistema’ è ormai capace di condizionare persino i bisogni e le esigenze degli individui – richiede un ‘grande rifiuto’ che può venire soltanto da chi è estraneo al sistema stesso. Sotto questo profilo, il soggetto rivoluzionario non può essere più la classe operaia (in gran parte integrata), ma l’insieme delle minoranze intellettuali, razziali e sociali dei paesi sviluppati, i ‘dannati della terra’, cioè i popoli del terzo mondo, e le frazioni di proletariato urbano ancora combattivo.